L’insegnamento tradizionale della Chiesa
non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della
responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa
fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto
la vita di esseri umani.
Questo è sostenuto ancora oggi in alcuni testi religiosi, nonostante la pena di morte sia stata rimossa
completamente dalla Legge fondamentale, con motu proprio, il 12 febbraio 2001, su decisione dello stesso Papa Giovanni Paolo II.
a cura di Nino Caliendo
Da fonti varie
Immagini dal Web
Nella Bibbia
Nella Bibbia sono elencate situazioni in
cui, nelle leggi che Dio dà a Mosé per esporle al popolo ebraico, si stabilisce
la pena capitale come punizione per determinate colpe. Ad esempio, nell’Antico
Testamento è scritto:
“Colui che colpisce un uomo causandone la
morte, sarà messo a morte “ (Esodo 21,12).
Nell’Antico Testamento (Genesi, 2,12-15)
esistono alcuni passi in cui Dio condanna la vendetta umana, minacciando
punizioni peggiori (“sette volte” e
“settanta volte sette”) per chi avesse ucciso Caino e Lamech.
Diversi passi, in prevalenza dell’Antico
Testamento, affermano la legittimità della pena di morte quando è violata la
legge di Mosé. A questi si aggiungono gli episodi di guerra e della storia del
popolo eletto, dove i nemici periscono per volontà divina. Riguardo alla
violazione della legge ebraica, nella Lettera agli Ebrei 10,28: “Quando
qualcuno ha violato la legge di Mosé, viene messo a morte senza pietà sulla
parola di due o tre testimoni”. In Levitico 24,16 viene messo a morte “Chi
bestemmia il nome del Signore”, in Levitico 20,10 chi commette adulterio,
in 27,29 “Nessuna persona votata allo sterminio potrà essere
riscattata; dovrà essere messa a morte” e in Levitico 24,17 “Chi
percuote a morte un uomo”. In Esodo 21,17 viene messo a morte chi maledice
il padre o la madre.
Il passo è ripreso nel Nuovo Testamento,
da Vangelo di Marco 7,10: “…infatti disse: Onora tuo padre e tua madre,
e chi maledice il padre e la madre sia messo a morte”. In Numeri 35,30, si
afferma che non si può accettare un prezzo di riscatto da un omicida: “Se
uno uccide un altro, l’omicida sarà messo a morte in seguito a deposizione di
testimoni, ma un unico testimone non basterà per condannare a morte una
persona. Non accetterete prezzo di riscatto per la vita di un omicida, reo di
morte, perché dovrà essere messo a morte”.
La morte del colpevole avveniva per
lapidazione. Questa forma di esecuzione coinvolge tutta la comunità locale
adulta, che collettivamente è chiamata ad applicare la legge, e risparmia
l’individuazione di un singolo come boia.
Nel Nuovo Testamento, Gesù richiama più
volte al perdono e condanna l’episodio della lapidazione della donna adultera:
“Chi di voi è senza
peccato, scagli per primo la pietra contro di lei” (Giovanni
8,7).
Pensatori cristiani
Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino
sostengono la liceità della pena di morte sulla base del concetto della
conservazione del bene comune. L’argomentazione di Tommaso d’Aquino è la
seguente:
“Come è lecito, anzi
doveroso, estirpare un membro malato per salvare tutto il corpo, così quando
una persona è divenuta un pericolo per la comunità o è causa di corruzione
degli altri, essa viene eliminata per garantire la salvezza della comunità” (Summa
theologiae II-II, q. 29, artt. 37-42).
Il teologo sosteneva, tuttavia, che la
pena andasse inflitta solo al colpevole di gravissimi delitti, mentre,
all’epoca, veniva utilizzata con facilità e grande discrezionalità.
Lo Stato pontificio ha mantenuto nel suo
ordinamento la pena di morte fino al XX secolo.
Dottrina cattolica odierna
Il Catechismo della Chiesa
Cattolica (1997) parla della pena di morte all’interno della
trattazione sul quinto comandamento, “Non uccidere” e, più
specificamente, nel sottotitolo che tratta della legittima difesa.
In questo contesto dice (n. 2266-2267):
“2266: Corrisponde ad un’esigenza
di tutela del bene comune lo sforzo dello Stato inteso a contenere il
diffondersi di comportamenti lesivi dei diritti dell’uomo e delle regole
fondamentali della convivenza civile. La legittima autorità pubblica ha il
diritto ed il dovere di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto.
La pena ha innanzi tutto lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla
colpa. Quando è volontariamente accettata dal colpevole, essa assume valore di
espiazione. La pena poi, oltre che a difendere l’ordine pubblico e a tutelare
la sicurezza delle persone, mira ad uno scopo medicinale: nella misura del
possibile, essa deve contribuire alla correzione del colpevole”.
“2267: L’insegnamento tradizionale
della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della
responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa
fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto
la vita di esseri umani.
Se invece i mezzi incruenti sono
sufficienti per difendere dall’aggressore e per proteggere la sicurezza delle
persone, l’autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio
rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla
dignità della persona umana…”
La pena di morte in Città del Vaticano
venne rimossa dalla Legge Fondamentale solo il 12 febbraio
2001, forse per convenienza UE, visto che l’Unione Europea non ammette la pena
capitale e, di conseguenza, gli Stati che la prevedono.
Nel giugno 2004, l’allora cardinale Joseph
Ratzinger, attuale papa Benedetto XVI, inviò, in qualità di prefetto
della Congregazione per la Dottrina della Fede, una lettera al
cardinale Theodore Edgar McCarrick, – arcivescovo di Washington, – e
all’arcivescovo Wilton Daniel Gregory, – presidente della Conferenza Episcopale
degli Stati Uniti, – nella quale affermava che può tuttavia essere
consentito [...] fare ricorso alla pena di morte
Contenuti
tratti da: http://it.wikipedia.org/wiki/Pena_di_morte
Se l’art. 2261 del Nuovo Catechismo
afferma che: “La Scrittura precisa la proibizione del quinto comandamento:
non far morire l’innocente e il giusto” (Es 23,7), è consequenziale
che: “Il comandamento ‘Non uccidere’ ha valore assoluto quando si
riferisce alla persona innocente” (Evangelium vitae, n° 57) e
valore relativo quando si riferisce alla persona colpevole.
Infatti, l’art. 2267 del Nuovo Catechismo
conferma che: “L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude,
supposto il pieno accertamento dell’ identità e della responsabilità del
colpevole, il ricorso alla pena di morte”.
La Chiesa, dunque, riconosce all’autorità
pubblica il potere di applicare la pena di morte, nei confronti delle persone
colpevoli, perché la “Scrittura” e, più precisamente, il versetto 7 del
capitolo 23 dell’Esodo “non far morire l’innocente e il giusto“,
preciserebbe che il comandamento “Non uccidere” è stato
formulato da Dio per proteggere la vita delle persone innocenti, ma non le
colpevoli.
Ma la Chiesa è proprio certa che questa
dottrina così inumana sia conforme alla legge divina e non sia, piuttosto,
frutto di conformazione umana?
Se di fronte alla legge umana, tutte le persone
sono considerate uguali: “La legge è uguale per tutti”, quanto più,
tutte le persone dovrebbero essere considerate uguali di fronte alla legge di
Dio, che possiede carattere universale.
Mentre, per il Catechismo, di fronte alla
legge divina: “Non uccidere”, le persone non sono considerate tutte
uguali, ma, a priori, separate le buone dalle cattive e proprio le cattive, per
le quali Dio ha istituita la legge, defraudate dai benefici.
In realtà, la “Scrittura” di cui parla il
Catechismo, che “precisa la proibizione del quinto comandamento”, si riduce ad
un versetto dell’Antico Testamento: “Non far morire l’innocente e il
giusto“, formulato, peraltro, in modo incompleto, infatti, citato per
intero: “Starai lontano dalla parola falsa e non ucciderai l’innocente
e il giusto perché io non dichiaro giusto il colpevole“ (Es 23,7),
rivela la vera intenzione dell’autore sacro, che non è certo quella di voler
precisare la proibizione del quinto comandamento, come dichiara il Catechismo,
ma formare le coscienze umane al giusto comportamento morale che devono
assumere i soggetti giuridici nell’ambito di un processo penale: Dio vieta,
categoricamente, ai giudici e ai testimoni, di ricorrere a parole false per
deviare il corso della giustizia, provocando la condanna dell’innocente e
l’assoluzione del colpevole. Intenzione che, l’autore sacro sottolinea anche
con il versetto precedente: “Non farai deviare il giudizio del povero,
che si rivolge a te nel suo processo“ (Es 23,6).
Tra l’altro, non spetta all’Antico Testamento
stabilire le verità divine in materia di fede e di morale, ma al Nuovo
Testamento e in esso non vi è un solo versetto che autorizzi la Chiesa a
legittimare la pena di morte, una pena di natura vendicativa, assolutamente
contraria al perdono, il quale costituisce il DNA dello spirito cristiano.
Unitamente alla pena di morte, anche la
“tortura” è stata sempre considerata dalla Chiesa moralmente lecita: solo con
il Concilio Vaticano II è stata, finalmente, esclusa e
condannata.
Intanto, prima che fosse rigettata, un
numero infinito di persone, che solo Dio conosce, ha dovuto soffrire atrocità
incredibili e tante di esse sono morte a causa di questa dottrina legittimata
dalla Chiesa.
Ora, però, che il Concilio si
è espresso in modo autentico e ufficiale contro tutte: “…le torture
inflitte al corpo alla mente…ledono grandemente l’onore del creatore” (Gaudim
et spes n° 27) può la Chiesa continuare a considerare lecita la pena di morte?
Non è forse la pena di morte una pratica di tortura inflitta al corpo e alla
mente?
Da: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3721
Il Catechismo e la pena di morte
Cesare Beccaria, a proposito della pena di
morte, nel pamphlet “Dei delitti e delle pene”, nel 1764,
scriveva: “Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della
pubblica volontà, che detestano e puniscano l’omicidio, ne commettano uno esse
medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordini un pubblico
assassinio”.
Il Granducato di Toscana, nel 1786, fu il
primo Stato al mondo ad abolire la pena di morte.
Su iniziativa dell’Italia, l’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite, il 18 Dicembre 2007, ha approvato la risoluzione per
la moratoria universale contro la pena di morte nel mondo.
Ma, il punto 2267 de “Il nuovo
catechismo della Chiesa cattolica” (1992, rivisto nel 1999) così
recita:
“L’insegnamento tradizionale della Chiesa
non esclude (…) il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via
praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di
esseri umani (…). Oggi (…) i casi di assoluta necessità di soppressione del reo
sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti” (quest’ultimo
paragrafo, aggiunto successivamente, proviene dall’enciclica di Giovanni Paolo
II “Evangelium vitae” del 1995).
Ecco l’assurdo! La Chiesa, nella sua dottrina
fondamentale, il Catechismo, mantiene ancora la pena di morte,
anche se edulcorata dall’aggiunta di un paragrafetto dell’enciclica sopradetta.
Le lancette del tempo sembrano essersi
fermate, meno male che la… Santa Inquisizione è lontana!
Eppure, nel Nuovo testamento, Gesù invoca il perdono nell’episodio
della lapidazione della donna adultera: “Chi di voi è senza peccato,
scagli per primo la pietra contro di lei” (Giovanni 1 cap 8,
7).
E Giovanni Paolo II dichiara, durante la
visita negli USA, che la Chiesa è “incondizionatamente a favore della
vita” e che, essendo la nostra società “in possesso dei mezzi
per proteggersi (…), la pena si morte è crudele e non necessaria”.
Insomma, sembra l’applicazione completa
del V comandamento: non uccidere. Ma non è così. Infatti, quando si
afferma che sono rari i casi “di assoluta necessità di soppressione del
reo”, si ammette che in qualche caso la pena di morte è riconosciuta.
Qualcuno scrive che questo vale per
la legittima difesa (punto 2266). Ma quanti innocenti,
nel Far West del mondo civilizzato, vengono uccisi in nome
della legittima difesa? Quando, allora, si può parlare di legittima
difesa, ovvero quale tipo di reato autorizza alla pena capitale?
E, se “la pena di morte è crudele
e non necessaria”, perché viene ancora mantenuto nel Catechismo il punto
2267, che rappresenta un affronto all’etica del perdono e della misericordia e
lascia l’impressione che si possa, in qualche caso, utilizzarlo?
di Governanti
- www.governanti.blogspot.com
Il Catechismo Universale e la pena di
morte
Si è fatto un gran discutere, in ambienti
pacifisti e non-violenti, come, ad esempio Amnesty International,
circa le motivazioni che possono aver indotto la chiesa cattolica ad accettare
– come risulta dal paragrafo 2266 del recente Catechismo Universale (CCC)
– la pena di morte, seppure “in casi di estrema gravità”.
Vediamo le prime.
Al paragrafo 2259, dicono gli autori del
CCC: “La Scrittura, nel racconto dell’uccisione di Abele da parte del
fratello Caino, rivela, fin dagli inizi della storia umana, la presenza
nell’uomo della collera e della cupidigia, conseguenze del peccato originale”.
Il riferimento al cosiddetto “peccato
originale”, ogni qualvolta si deve cercare di spiegare la causa di taluni
malesseri sociali, è praticamente una costante nella teologia cattolica.
Al paragrafo successivo gli autori
ricordano che “l’alleanza [vetero testamentaria] di
Dio e dell’umanità è intessuta di richiami al dono divino della vita umana e
alla violenza omicida dell’uomo”(2260).
Dei due “richiami”, quello che più preme
sottolineare agli autori non è il primo, – come sarebbe naturale per una
istituzione (la Chiesa) che predica la legge dell’amore -, bensì il secondo. E
di questo l’aspetto da essi considerato più significativo non è tanto il puro e
semplice “divieto di non uccidere”, quanto piuttosto il divieto di
uccidere “l’innocente e il giusto” (2261): peccato, questo, “gravemente
contrario alla dignità dell’essere umano”.
Ora, proviamo a chiederci: per quale
ragione la chiesa cattolica ritiene che “l’uccisione volontaria di un
innocente è gravemente contraria alla dignità dell’essere umano” (2261)?
Cioè, per quale ragione essa non si limita ad affermare che l’essere umano in
quanto tale, santo o peccatore che sia, non meriterebbe mai di morire in modo
violento?
La Chiesa Romana, – qui autorevolmente
rappresentata da un Catechismo Universale, -non è in grado di trarre le logiche
conseguenze dalla sua teoria del peccato originale, perché finirebbe in un
groviglio inestricabile di contraddizioni. A noi, invece, interessa mettere in
luce il seguente, inevitabile, sillogismo: se la natura umana è intrinsecamente
malvagia, allora anche Abele era “colpevole”, ma se egli era “colpevole”,
il delitto di Caino, in sé pur grave, va ricompreso sulla base di ogni
possibile attenuante, onde ostacolarne la reiterazione. Qui, naturalmente, non
è il caso di verificare ciò che Caino e Abele simbolicamente rappresentavano
nel racconto del Genesi. Dobbiamo limitarci a considerazioni astratte.
Quel che è certo è che nel racconto
biblico la “dignità dell’essere umano” dipendeva da altro
rispetto alla legge, poiché Caino fu punito prima che venisse formulato il
divieto del quinto comandamento.
Non solo, ma egli venne “marchiato” proprio
per impedire che qualcuno commettesse un secondo delitto, cioè che usasse
vendetta contro di lui. Se a quel tempo avessero dato per scontata l’intrinseca
malvagità umana, alla prima manifestazione di questa non ci sarebbe stata altra
soluzione che l’esecuzione capitale.
Sicché si può tranquillamente affermare
con A. Schenker che ai tempi di Caino era la dignità dell’uomo ad essere
considerata intrinseca all’uomo stesso. Il peccato originale, cioè la
violazione delle modalità del comunismo primitivo, se comportò la nascita
dell’individualismo, non determinò affatto l’impossibilità di opporvisi. Ancora
non esistevano né l’idea dell’espiazione né il principio della retribuzione
come base del sistema della pena. Il divieto di uccidere Caino sta appunto a
testimoniare che, nonostante l’emergere dell’individualismo, i princìpi
democratici del collettivismo non erano stati dimenticati.
Viceversa, il divieto mosaico fa la sua
comparsa in un contesto dove, evidentemente, per rispettare la persona non era
più sufficiente rifarsi alle tradizioni orali, ma occorreva una legge scritta:
segno, questo, che il distacco dai princìpi del comunismo primitivo era
diventato progressivo, forse irreversibile. Di qui, l’esigenza d’imporre al
colpevole una pena proporzionata e di risarcire la vittima del danno subìto. La
giustizia, sempre meno possibile sul piano sociale, doveva almeno apparire su
quello giuridico, cioè su quello formale della legge.
Ora, prima di rispondere adeguatamente
alla domanda che sopra ci siamo posti, dobbiamo continuare a ripercorrere
l’analisi del CCC, che si sposta dall’Antico Testamento (A.T.) al Nuovo,
esaminando la figura chiave di Gesù Cristo.
Per gli autori del CCC, Cristo non sarebbe
che un “nuovo Abele” che porge l’altra guancia, ama i propri nemici, non si
difende da chi lo accusa ingiustamente. etc (2262).
Dopo aver dedicato tre paragrafi (2259-61)
al V.T., il CCC ne dedica uno solo al Nuovo. Perché? Semplicemente perché si
vuole far apparire il Cristo come un “perfezionatore” del divieto mosaico.
Pur di dimostrare che l’uomo è
intrinsecamente malvagio, Cristo, – secondo il CCC, – avrebbe non solo vietato
l’ira, l’odio e la vendetta, oltre che naturalmente l’omicidio, ma si sarebbe
anche offerto volontariamente come “agnello sacrificale” per i
peccati degli uomini. Egli dunque, in un certo senso, sarebbe stato vittima
della sua stessa “legge dell’amore assoluto”, che gli impediva di
trasformarsi in “giustiziere dei malvagi”.
Come si può notare, questa interpretazione
della vita di Cristo è assolutamente fantastica. La chiesa romana non ha qui
saputo cogliere la fondamentale differenza dalla legge mosaica che i vangeli
rappresentano, per i quali il “divieto di uccidere” è una
contraddizione in termini, finché non si pongono le basi sociali che tolgano al
delitto le sue motivazioni di fondo.
In effetti, se nel mentre si pone il
divieto non ci si preoccupa di creare una società veramente democratica, quel
divieto, alla lunga, non sortirà alcun effetto. E, viceversa, se si ha quella
preoccupazione, il divieto è altrettanto inutile, poiché non sarà in virtù di
esso che i cittadini si comporteranno in maniera non-violenta.
A parte questo, la Chiesa Romana non ha
mai neppure capito (o non lo ha mai voluto capire) il motivo per cui il Cristo
si lasciò giustiziare senza reagire. Lungi dal pensare che il potere dominante
avrebbe più facilmente rinunciato al proprio arbitrio, vedendo un innocente
salire tranquillamente sul patibolo, il Cristo deve, invece, aver atteso
(invano, purtroppo) che la propria liberazione fosse il frutto di una
convinzione largamente popolare, solo in virtù della quale si sarebbe sia
potuto vincere il dominio romano che costruire una nuova società civile.
Imporre il proprio progetto democratico
con colpi di stato, atti terroristici e cose simili non avrebbe certo
significato realizzare un’alternativa alla logica del potere dominante (romano
o ebraico che fosse).
Ora, finalmente, possiamo rispondere alla
suddetta domanda, se il lettore non l’ha già fatto per contro proprio. La
Chiesa è favorevole alla pena di morte sostanzialmente per questa ragione di
tipo “etico-religioso”: essendo la natura dell’uomo intrinsecamente malvagia,
la società ha il diritto, nei confronti di chi cerca di contenere tale
malvagità in una condotta il più possibile irreprensibile e, nonostante questo,
viene ucciso, di considerare la sua morte un delitto assolutamente
imperdonabile.
In altre parole, è intollerabile per la
chiesa veder uccidere un “innocente”, colui cioè che, meglio di altri, combatte
contro gli effetti deleteri del peccato originale (ma anche colui che, essendo
ancora troppo giovane d’età, non ha potuto sperimentare su di sé gli effetti o
le tentazioni di quella colpa). “L’omicida e coloro che volontariamente
cooperano all’uccisione commettono un peccato che grida vendetta al cielo”,
specie nei casi di “infanticidio, fratricidio, parricidio e uccisione
del coniuge” (2268).
Si deve, però, andare al paragrafo 1867
per accorgersi che fra i “peccati che gridano al cielo” non vi è solo
l’omicidio di Abele o la licenziosità dei Sodomiti, ma anche “il
lamento del popolo oppresso in Egitto; il lamento del forestiero, della vedova
e dell’orfano”. Infine, “l’ingiustizia verso il salariato”.
Ma, la cosa più singolare di tutta questa
esegesi del CCC, circa il divieto mosaico e la morte di Gesù, è che nella
seconda parte del capitolo (quella dedicata alla “legittima difesa”)
– e qui veniamo alla motivazione più propriamente politica, – la Chiesa romana,
servendosi delle sentenze dell’Aquinate, arriva a formulare cose del
tutto antievangeliche, che peggiorano persino la durezza della legge mosaica,
la quale prevedeva la pena di morte per i trasgressori di alcuni comandamenti.
Sulla base della motivazione vista sopra,
la Chiesa non ha espresso un parere chiaramente favorevole alla pena di morte.
Essa, infatti, si rende conto che, in quanto istituzione “religiosa”,
dev’essere sempre pronta al perdono.
Tuttavia, la trattazione religiosa
dell’argomento è stata condotta con abile maestria, evitando di esprimere
“giudizi di valore” categorici, sia per mostrare che il divieto mosaico “ha
una validità universale: obbliga tutti e ciascuno, sempre e dappertutto” (2261),
per cui la sua trasgressione non può che comportare gravissime conseguenze, sia
per suscitare nel lettore un senso di forte riprovazione nei confronti del
fatto che, nonostante la palese innocenza di Gesù, vi furono ugualmente delle
persone disposte a crocifiggerlo.
Come restare indifferenti al cospetto di
un’ingiustizia così grande? Il fatto che Cristo non abbia voluto difendersi,
non implica che nessuno debba farlo. Ciò che sul piano etico-religioso può
apparire inaccettabile, può non esserlo sul piano gius-politico.
Infatti, “l’amore verso se stessi
resta un principio fondamentale della moralità. E’, quindi, legittimo far
rispettare il proprio diritto alla vita”, “poiché, – come dice
Tommaso d’Aquino, – un uomo è tenuto di più a provvedere alla propria
vita che alla vita altrui” (2264).
Curiosa questa citazione
dell’illustre Dottore della Chiesa. Egli ha, senza dubbio, ragione
quando afferma che “se nel difendere la propria vita uno usa maggiore
violenza del necessario, il suo atto è illecito”. Ma che dire del fatto che
la legittima difesa venga invocata per tutelare un diritto esclusivamente
soggettivo? Da una Chiesa che pretende di fare dell’ideale “divino” la
sua raison d’être, sinceramente, ci si aspettava qualcosa di più
sublime.
In effetti, se la legittima difesa è il
modo migliore per garantire un proprio diritto, cosa dover pensare di quanti,
nella storia, vi hanno rinunciato per poter meglio affermare un “bene
comune”, cioè un valore, un ideale, un “diritto”, se si vuole,
o, comunque, una causa non puramente soggettiva? Cosa pensare di coloro che,
liberamente e consapevolmente, non perché desiderosi di morire martiri à
tout prix, hanno preferito l’idea del sacrificio personale a quella della
legittima difesa? Erano pazzi, ingenui, illusi o che altro? Il valore etico
(umano, ontologico) di una scelta esistenziale, può essere misurato in termini
meramente giuridici?
Quando poi ci si addentra sul piano più
propriamente politico-istituzionale, i limiti della chiesa cattolica si
evidenziano in tutta la loro crudezza. Se già avevamo messo in dubbio il valore
assoluto della legittima difesa (che va comunque salvaguardata) in nome
dell’interesse soggettivo, ora ci pare ancor più fuorviante l’affermazione
secondo cui la legittima difesa va considerata anche come un dovere da parte di
chi “è responsabile della vita altrui” (2265).
Come spesso succede le parole che si usano
non hanno mai un senso univoco, inequivocabile, ma sono sempre soggette a
fraintendimenti, anche quando si cerca di essere il più possibile aderenti alla
realtà, il più possibile “scientifici”: cioè, esiste sempre la
possibilità di dare alle parole un senso opposto a quello voluto, anche contro
la propria volontà, o, comunque, esiste sempre la possibilità che qualcuno non
ci capisca o non ci voglia capire. E così qui: chi metterebbe in dubbio che le
autorità costituite hanno il dovere di usare lo strumento della legittima
difesa per tutelare l’incolumità (non solo fisica) dei propri cittadini? Ma se
noi dicessimo: le autorità costituite, nell’adempiere al dovere di difendere i
cittadini, hanno il diritto di sostituirsi alla loro volontà, non susciteremmo
forse delle perplessità?
La frase incriminata dalle associazioni
pacifiste è stata la seguente: “la chiesa ha riconosciuto fondato [sottinteso:
"da sempre"] il diritto e il dovere della legittima [o
semplicemente "costituita"?] autorità pubblica di infliggere
pene proporzionate alla gravità del delitto, senza escludere, in casi di
estrema gravità, la pena di morte” (2266).
Si noti il sofisma dell’espressione “pene
proporzionate”: forse il popolo può impedire, nella concezione politica
della Chiesa, che lo Stato usi pene sproporzionate? E come lo potrebbe, visto e
considerato che, per la Chiesa, lo Stato è soggetto non alla “volontà
popolare”, ma solo alle “leggi” (1903), che devono essere
conformi a “un ordine prestabilito da Dio” (1901)?
Se la “volontà popolare” fosse
il principio fondamentale dello “Stato di diritto”, la pena di
morte potrebbe forse essere considerata una “pena proporzionata” a
un qualche particolare delitto? Sarebbe forse giusto dare per scontato che, ad
un certo punto, bisogna assolutamente negare al colpevole qualunque possibilità
di pentimento, ritenendolo unico vero responsabile del suo crimine? E’ forse
questo l’insegnamento del Cristo nell’episodio della “donna adultera” (Gv.
8,1ss.)?
Il fatto è che, – secondo gli autori
del CCC, – la società (e, quindi, la Chiesa) deve, comunque, difendersi da chi
la minaccia con l’uso della forza. Su questo, il CCC è molto esplicito: “i
detentori dell’autorità [qui considerati "sacri e inviolabili"] hanno
il diritto di usare le armi per respingere gli aggressori della comunità
civile…” (2266).
La chiesa non vuole prospettare, neanche
sul piano ipotetico, l’idea che gli aggressori si comportino così proprio
perché si appellano al principio della “legittima difesa” e
che i veri aggressori possano in realtà essere le stesse autorità
costituite. “La pena ha lo scopo di difendere l’ordine pubblico e la
sicurezza delle persone” (2266), sentenzia il CCC. Non ha, quindi,
senso chiedersi se tale difesa sia “sempre” lecita o se non sia meglio mettere
in discussione il valore del cosiddetto “ordine pubblico”.
Thomas More, martire della libertà di
coscienza, santificato dalla Chiesa romana nel 1935, disse nella sua Utopia:
gli Stati fondati sulla proprietà privata e il denaro “allevano dei
ladri per poi punirli con la morte”.
F. Engels, tre secoli dopo, dirà la stessa
cosa in La situazione della classe operaia in Inghilterra: “Se
la società toglie a migliaia di individui il necessario per l’esistenza…; se
mediante la forza della legge li costringe a rimanere in tali condizioni,
finché non sopraggiunga la morte… questo è assassinio… contro il quale nessuno
può difendersi… perché non si vede l’assassino, perché questo assassino sono
tutti e nessuno, perché la morte della vittima appare come una morte naturale e
perché esso non è tanto un peccato di opera, quanto un peccato di omissione”.
Naturalmente, gli esegeti più ipocriti
sostengono che la Chiesa si limita a “riconoscere” agli Stati l’uso estremo
della pena di morte, senza farsi sua diretta sostenitrice. Ciò in realtà è
falso, sia perché la Chiesa ha abolito, de jure, in Vaticano tale
forma di condanna solo nel 1969 (per comodità affaristica di riconoscimenti
nell’Unione Europea), sia perché la necessità di tale pena si evince, – come si
è visto, – dai suoi stessi argomenti di tipo religioso, sia perché, infine, il
Vaticano assai raramente (o mai?) si è pronunciato contro gli Stati che
comminano sentenze capitali (opposizioni alla pena di morte è possibile
riscontrarle solo in chiese locali o nazionali, come, ad esempio, nella Commissione
per la Vita della Conferenza Episcopale Cattolica degli USA).
In realtà, a queste conclusioni assai poco
democratiche, si perviene quando il problema della responsabilità penale viene
affrontato in termini puramente idealistici o giuridici, senza tener conto di
alcun riferimento storico o sociale concreto.
“La pena, –
dice il CCC, – ha valore di espiazione” (2266), in quanto
il colpevole è solo colpevole. Il riferimento qui
và soprattutto al caso dell’omicidio volontario, per il quale non esistono
attenuanti. Solo quando si parla di quello involontario (come se, sul piano
etico, si potesse fare una distinzione così precisa), gli autori del CCC fanno
un’annotazione complementare usando i caratteri piccoli: “Tollerare, –
viene detto, – da parte della società umana, condizioni di miseria che
portano alla morte senza che ci si sforzi di porvi rimedio, è una scandalosa
ingiustizia e una colpa grave”(2269). La Chiesa qui intende riferirsi a
coloro che usano “pratiche usuraie e mercantili”. Costoro,
indirettamente (solo indirettamente in una società capitalistica?) “commettono
un omicidio”.
Il CCC, insomma, non si preoccupa di
“capire” il crimine di chi, sottoposto a condizioni di vita disumane, reagisce
istintivamente facendosi giustizia da sé. Non si preoccupa minimamente di
giustificare coloro che, sottoposti alle medesime condizioni, ad un certo punto
decidono di organizzarsi politicamente per rovesciare i poteri costituiti. Si
preoccupa soltanto di trovare dei “colpevoli”, siano essi volontari o
involontari, diretti o indiretti, lasciando da parte tutte le responsabilità
che possono avere gli Stati e le istituzioni di potere, nonché i gruppi sociali
dominanti di una determinata società.
Ormai, come ognuno si sarà certamente
accorto, le parole non hanno più alcun significato. La Chiesa è disposta ad
affermare tutto ed il contrario di tutto, cioè tutto quanto fa parte del suo
impianto strettamente conservatore e, per essere più credibile, alcune cose che
fanno parte dell’ideologia laica e democratica.
Il problema non sta più nella scelta delle
parole, ma solo nell’atteggiamento che il credente deve tenere nei confronti
della Chiesa. E l’atteggiamento giusto, a quanto pare, visto che nessun alto
esponente della Curia vaticana l’ha contestato, può essere considerato quello
delle cattolicissime Filippine, il cui Parlamento, il 23 febbraio 1993, ha
reintrodotto, nonostante l’opposizione della Conferenza Episcopale
Filippina, la pena di morte, dopo averla abolita nel 1987, proprio facendo
leva sulle affermazioni del Catechismo Universale.
Contenuti
tratti da: http://www.homolaicus.com/teorici/wojtyla/pena_morte.htm
Pigrizia intellettuale e teoria della
responsabilità sociale
In un paese dove vige la pena di morte che
senso può avere la teoria del ragionevole dubbio? Non è forse una
contraddizione in termini?
Se anche dal punto di vista tecnico/materiale,
non vi fossero dubbi circa la consapevolezza di una persona da condannare a
morte, chi ci assicura che non esisterebbero dubbi dal punto di vista morale?
Come si può pensare che un individuo sano
di mente possa compiere un delitto nella più assoluta libertà di scelta?
Se una persona fosse assolutamente libera
di scegliere perché dovrebbe scegliere una cosa che le farebbe perdere la
libertà?
Nessuno vive così isolato dagli altri da
poter dire con sicurezza: “Ho scelto liberamente, senza condizionamenti
di sorta”. Chi vivesse isolato dal mondo, probabilmente, non si porrebbe
neanche il problema di compiere un delitto. Non ne avrebbe motivo. A meno che
l’isolamento non fosse una sorta di punizione inflitta in precedenza: il che
potrebbe portare a risentimenti e a esigenze di vendetta personale.
Viviamo in una società in cui i
condizionamenti sono reciproci: dunque, per quale motivo quando si tratta di
giudicare qualcuno, lo consideriamo come un individuo isolato e lo carichiamo
di responsabilità più grandi di quelle che potrebbe avere nella vita reale?
Gli uomini vivono assieme come tanti
individui isolati: costituiscono una comunità per via indotta,
involontariamente, non per libera scelta (questo senza considerare che la
comunità dovrebbe far parte in maniera naturale della vita di una persona, sin
dalla sua nascita). Nella vita reale, non si è capaci di assumere
reciprocamente le responsabilità altrui. Sicché quando qualcuno commette un
reato, viene lasciato solo, con tutte le sue responsabilità.
Eppure, l’isolamento che si vive in
società è anch’esso una forma di condizionamento, un peso da sopportare. Si
possono commettere azioni criminose non perché si è isolati dalla società,
ma proprio perché si è isolati nella società.
Il crimine è sempre frutto di un
condizionamento sociale: ecco perché, indirettamente, si è tutti colpevoli. Il
crimine dovrebbe essere considerato come occasione per ripensare i criteri del
vivere civile.
Insomma, la teoria del ragionevole dubbio
dovrebbe spingersi sino al concorso morale, indiretto, che può avere la società
nei confronti dell’imputato che ha commesso un reato.
Anche la teoria della presunzione
d’innocenza, in tal senso, andrebbe rivista. Non ha senso sostenere che uno è
innocente finché non si è dimostrata la colpevolezza. Bisognerebbe anzi
sostenere il contrario e, cioè, che in un modo o nell’altro siamo tutti colpevoli
e che quando si tratta di giudicare qualcuno, anzitutto, bisognerebbe chiedersi
che cosa si è fatto per impedire che un determinato reato venisse compiuto.
Bisognerebbe partire da premesse di
colpevolezza sociale, in modo da non far sentire l’imputato un individuo
isolato, un estraniato.
Questo, ovviamente, non significa che il
reato non deve essere punito o che bisogna essere pietisti ad oltranza.
Significa, semplicemente, che, nei confronti del reato, bisogna assumere un
atteggiamento pedagogico.
Il reato è un indizio di malessere
sociale. Dall’analisi dei sintomi, bisogna saper trovare una terapia per
vincere un male che ha radici nella società e nella sua cultura.
Dobbiamo abituarci a considerare i
condizionamenti sociali non come un limite alla libertà, ma come il fondamento
su cui la libertà và costruita.
Siamo liberi, appunto, perché
condizionati.
Il nostro compito è quello di rendere
positivi questi condizionamenti, affinché siano utili alla libertà.
Contenuti
tratti da: http://www.homolaicus.com/teorici/wojtyla/pena_morte.htmL’insegnamento tradizionale della Chiesa
non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della
responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa
fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto
la vita di esseri umani.
Da fonti varie,
a cura di Nino Caliendo
Nella Bibbia
Nella Bibbia sono elencate situazioni in
cui, nelle leggi che Dio dà a Mosé per esporle al popolo ebraico, si stabilisce
la pena capitale come punizione per determinate colpe. Ad esempio, nell’Antico
Testamento è scritto:
“Colui che colpisce un uomo causandone la
morte, sarà messo a morte “ (Esodo 21,12).
Nell’Antico Testamento (Genesi, 2,12-15)
esistono alcuni passi in cui Dio condanna la vendetta umana, minacciando
punizioni peggiori (“sette volte” e
“settanta volte sette”) per chi avesse ucciso Caino e Lamech.
Diversi passi, in prevalenza dell’Antico
Testamento, affermano la legittimità della pena di morte quando è violata la
legge di Mosé. A questi si aggiungono gli episodi di guerra e della storia del
popolo eletto, dove i nemici periscono per volontà divina. Riguardo alla
violazione della legge ebraica, nella Lettera agli Ebrei 10,28: “Quando
qualcuno ha violato la legge di Mosé, viene messo a morte senza pietà sulla
parola di due o tre testimoni”. In Levitico 24,16 viene messo a morte “Chi
bestemmia il nome del Signore”, in Levitico 20,10 chi commette adulterio,
in 27,29 “Nessuna persona votata allo sterminio potrà essere
riscattata; dovrà essere messa a morte” e in Levitico 24,17 “Chi
percuote a morte un uomo”. In Esodo 21,17 viene messo a morte chi maledice
il padre o la madre.
Il passo è ripreso nel Nuovo Testamento,
da Vangelo di Marco 7,10: “…infatti disse: Onora tuo padre e tua madre,
e chi maledice il padre e la madre sia messo a morte”. In Numeri 35,30, si
afferma che non si può accettare un prezzo di riscatto da un omicida: “Se
uno uccide un altro, l’omicida sarà messo a morte in seguito a deposizione di
testimoni, ma un unico testimone non basterà per condannare a morte una
persona. Non accetterete prezzo di riscatto per la vita di un omicida, reo di
morte, perché dovrà essere messo a morte”.
La morte del colpevole avveniva per
lapidazione. Questa forma di esecuzione coinvolge tutta la comunità locale
adulta, che collettivamente è chiamata ad applicare la legge, e risparmia
l’individuazione di un singolo come boia.
Nel Nuovo Testamento, Gesù richiama più
volte al perdono e condanna l’episodio della lapidazione della donna adultera:
“Chi di voi è senza
peccato, scagli per primo la pietra contro di lei” (Giovanni
8,7).
Pensatori cristiani
Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino
sostengono la liceità della pena di morte sulla base del concetto della
conservazione del bene comune. L’argomentazione di Tommaso d’Aquino è la
seguente:
“Come è lecito, anzi
doveroso, estirpare un membro malato per salvare tutto il corpo, così quando
una persona è divenuta un pericolo per la comunità o è causa di corruzione
degli altri, essa viene eliminata per garantire la salvezza della comunità” (Summa
theologiae II-II, q. 29, artt. 37-42).
Il teologo sosteneva, tuttavia, che la
pena andasse inflitta solo al colpevole di gravissimi delitti, mentre,
all’epoca, veniva utilizzata con facilità e grande discrezionalità.
Lo Stato pontificio ha mantenuto nel suo
ordinamento la pena di morte fino al XX secolo.
Dottrina cattolica odierna
Il Catechismo della Chiesa
Cattolica (1997) parla della pena di morte all’interno della
trattazione sul quinto comandamento, “Non uccidere” e, più
specificamente, nel sottotitolo che tratta della legittima difesa.
In questo contesto dice (n. 2266-2267):
“2266: Corrisponde ad un’esigenza
di tutela del bene comune lo sforzo dello Stato inteso a contenere il
diffondersi di comportamenti lesivi dei diritti dell’uomo e delle regole
fondamentali della convivenza civile. La legittima autorità pubblica ha il
diritto ed il dovere di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto.
La pena ha innanzi tutto lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla
colpa. Quando è volontariamente accettata dal colpevole, essa assume valore di
espiazione. La pena poi, oltre che a difendere l’ordine pubblico e a tutelare
la sicurezza delle persone, mira ad uno scopo medicinale: nella misura del
possibile, essa deve contribuire alla correzione del colpevole”.
“2267: L’insegnamento tradizionale
della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della
responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa
fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto
la vita di esseri umani.
Se invece i mezzi incruenti sono
sufficienti per difendere dall’aggressore e per proteggere la sicurezza delle
persone, l’autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio
rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla
dignità della persona umana…”
La pena di morte in Città del Vaticano
venne rimossa dalla Legge Fondamentale solo il 12 febbraio
2001, forse per convenienza UE, visto che l’Unione Europea non ammette la pena
capitale e, di conseguenza, gli Stati che la prevedono.
Nel giugno 2004, l’allora cardinale Joseph
Ratzinger, attuale papa Benedetto XVI, inviò, in qualità di prefetto
della Congregazione per la Dottrina della Fede, una lettera al
cardinale Theodore Edgar McCarrick, – arcivescovo di Washington, – e
all’arcivescovo Wilton Daniel Gregory, – presidente della Conferenza Episcopale
degli Stati Uniti, – nella quale affermava che può tuttavia essere
consentito [...] fare ricorso alla pena di morte
Contenuti
tratti da: http://it.wikipedia.org/wiki/Pena_di_morte
Se l’art. 2261 del Nuovo Catechismo
afferma che: “La Scrittura precisa la proibizione del quinto comandamento:
non far morire l’innocente e il giusto” (Es 23,7), è consequenziale
che: “Il comandamento ‘Non uccidere’ ha valore assoluto quando si
riferisce alla persona innocente” (Evangelium vitae, n° 57) e
valore relativo quando si riferisce alla persona colpevole.
Infatti, l’art. 2267 del Nuovo Catechismo
conferma che: “L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude,
supposto il pieno accertamento dell’ identità e della responsabilità del
colpevole, il ricorso alla pena di morte”.
La Chiesa, dunque, riconosce all’autorità
pubblica il potere di applicare la pena di morte, nei confronti delle persone
colpevoli, perché la “Scrittura” e, più precisamente, il versetto 7 del
capitolo 23 dell’Esodo “non far morire l’innocente e il giusto“,
preciserebbe che il comandamento “Non uccidere” è stato
formulato da Dio per proteggere la vita delle persone innocenti, ma non le
colpevoli.
Ma la Chiesa è proprio certa che questa
dottrina così inumana sia conforme alla legge divina e non sia, piuttosto,
frutto di conformazione umana?
Se di fronte alla legge umana, tutte le persone
sono considerate uguali: “La legge è uguale per tutti”, quanto più,
tutte le persone, dovrebbero essere considerate uguali di fronte alla legge di
Dio, che possiede carattere universale?
Mentre, per il Catechismo, di fronte alla
legge divina: “Non uccidere”, le persone non sono considerata tutte
uguali, ma, a priori, separate le buone dalle cattive e proprio le cattive, per
le quali Dio ha istituita la legge, defraudate dai benefici.
In realtà, la “Scrittura” di cui parla il
Catechismo, che “precisa la proibizione del quinto comandamento”, si riduce ad
un versetto dell’Antico Testamento: “Non far morire l’innocente e il
giusto“, formulato, peraltro, in modo incompleto, infatti, citato per
intero: “Starai lontano dalla parola falsa e non ucciderai l’innocente
e il giusto perché io non dichiaro giusto il colpevole“ (Es 23,7),
rivela la vera intenzione dell’autore sacro, che non è certo quella di voler
precisare la proibizione del quinto comandamento, come dichiara il Catechismo,
ma formare le coscienze umane al giusto comportamento morale che devono
assumere i soggetti giuridici nell’ambito di un processo penale: Dio vieta,
categoricamente, ai giudici e ai testimoni, di ricorrere a parole false per
deviare il corso della giustizia, provocando la condanna dell’innocente e
l’assoluzione del colpevole. Intenzione che, l’autore sacro sottolinea anche
con il versetto precedente: “Non farai deviare il giudizio del povero,
che si rivolge a te nel suo processo“ (Es 23,6).
Tra l’altro, non spetta all’Antico Testamento
stabilire le verità divine in materia di fede e di morale, ma al Nuovo
Testamento e in esso non vi è un solo versetto che autorizzi la Chiesa a
legittimare la pena di morte, una pena di natura vendicativa, assolutamente
contraria al perdono, il quale costituisce il DNA dello spirito cristiano.
Unitamente alla pena di morte, anche la
“tortura” è stata sempre considerata dalla Chiesa moralmente lecita: solo con
il Concilio Vaticano II è stata, finalmente, esclusa e
condannata.
Intanto, prima che fosse rigettata, un
numero infinito di persone, che solo Dio conosce, ha dovuto soffrire atrocità
incredibili e tante di esse sono morte a causa di questa dottrina legittimata
dalla Chiesa.
Ora, però, che il Concilio si
è espresso in modo autentico e ufficiale contro tutte: “…le torture
inflitte al corpo alla mente…ledono grandemente l’onore del creatore” (Gaudim
et spes n° 27) può la Chiesa continuare a considerare lecita la pena di morte?
Non è forse la pena di morte una pratica di tortura inflitta al corpo e alla
mente?
Da: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3721
Il Catechismo e la pena di morte
Cesare Beccaria, a proposito della pena di
morte, nel pamphlet “Dei delitti e delle pene”, nel 1764,
scriveva: “Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della
pubblica volontà, che detestano e puniscano l’omicidio, ne commettano uno esse
medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordini un pubblico
assassinio”.
Il Granducato di Toscana, nel 1786, fu il
primo Stato al mondo ad abolire la pena di morte.
Su iniziativa dell’Italia, l’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite, il 18 Dicembre 2007, ha approvato la risoluzione per
la moratoria universale contro la pena di morte nel mondo.
Ma, il punto 2267 de “Il nuovo
catechismo della Chiesa cattolica” (1992, rivisto nel 1999) così
recita:
“L’insegnamento tradizionale della Chiesa
non esclude (…) il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via
praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di
esseri umani (…). Oggi (…) i casi di assoluta necessità di soppressione del reo
sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti” (quest’ultimo
paragrafo, aggiunto successivamente, proviene dall’enciclica di Giovanni Paolo
II “Evangelium vitae” del 1995).
Ecco l’assurdo! La Chiesa, nella sua dottrina
fondamentale, il Catechismo, mantiene ancora la pena di morte,
anche se edulcorata dall’aggiunta di un paragrafetto dell’enciclica sopradetta.
Le lancette del tempo sembrano essersi
fermate, meno male che la… Santa Inquisizione è lontana!
Eppure, nel Nuovo testamento, Gesù invoca il perdono nell’episodio
della lapidazione della donna adultera: “Chi di voi è senza peccato,
scagli per primo la pietra contro di lei” (Giovanni 1 cap 8,
7).
E Giovanni Paolo II dichiara, durante la
visita negli USA, che la Chiesa è “incondizionatamente a favore della
vita” e che, essendo la nostra società “in possesso dei mezzi
per proteggersi (…), la pena si morte è crudele e non necessaria”.
Insomma, sembra l’applicazione completa
del V comandamento: non uccidere. Ma non è così. Infatti, quando si
afferma che sono rari i casi “di assoluta necessità di soppressione del
reo”, si ammette che in qualche caso la pena di morte è riconosciuta.
Qualcuno scrive che questo vale per
la legittima difesa (punto 2266). Ma quanti innocenti,
nel Far West del mondo civilizzato, vengono uccisi in nome
della legittima difesa? Quando, allora, si può parlare di legittima
difesa, ovvero quale tipo di reato autorizza alla pena capitale?
E, se “la pena di morte è crudele
e non necessaria”, perché viene ancora mantenuto nel Catechismo il punto
2267, che rappresenta un affronto all’etica del perdono e della misericordia e
lascia l’impressione che si possa, in qualche caso, utilizzarlo?
di Governanti
- www.governanti.blogspot.com
Il Catechismo Universale e la pena di
morte
Si è fatto un gran discutere, in ambienti
pacifisti e non-violenti, come, ad esempio Amnesty International,
circa le motivazioni che possono aver indotto la chiesa cattolica ad accettare
– come risulta dal paragrafo 2266 del recente Catechismo Universale (CCC)
– la pena di morte, seppure “in casi di estrema gravità”.
Vediamo le prime.
Al paragrafo 2259, dicono gli autori del
CCC: “La Scrittura, nel racconto dell’uccisione di Abele da parte del
fratello Caino, rivela, fin dagli inizi della storia umana, la presenza
nell’uomo della collera e della cupidigia, conseguenze del peccato originale”.
Il riferimento al cosiddetto “peccato
originale”, ogni qualvolta si deve cercare di spiegare la causa di taluni
malesseri sociali, è praticamente una costante nella teologia cattolica.
Al paragrafo successivo gli autori
ricordano che “l’alleanza [vetero testamentaria] di
Dio e dell’umanità è intessuta di richiami al dono divino della vita umana e
alla violenza omicida dell’uomo”(2260).
Dei due “richiami”, quello che più preme
sottolineare agli autori non è il primo, – come sarebbe naturale per una
istituzione (la Chiesa) che predica la legge dell’amore -, bensì il secondo. E
di questo l’aspetto da essi considerato più significativo non è tanto il puro e
semplice “divieto di non uccidere”, quanto piuttosto il divieto di
uccidere “l’innocente e il giusto” (2261): peccato, questo, “gravemente
contrario alla dignità dell’essere umano”.
Ora, proviamo a chiederci: per quale
ragione la chiesa cattolica ritiene che “l’uccisione volontaria di un
innocente è gravemente contraria alla dignità dell’essere umano” (2261)?
Cioè, per quale ragione essa non si limita ad affermare che l’essere umano in
quanto tale, santo o peccatore che sia, non meriterebbe mai di morire in modo
violento?
La Chiesa Romana, – qui autorevolmente
rappresentata da un Catechismo Universale, -non è in grado di trarre le logiche
conseguenze dalla sua teoria del peccato originale, perché finirebbe in un
groviglio inestricabile di contraddizioni. A noi, invece, interessa mettere in
luce il seguente, inevitabile, sillogismo: se la natura umana è intrinsecamente
malvagia, allora anche Abele era “colpevole”, ma se egli era “colpevole”,
il delitto di Caino, in sé pur grave, va ricompreso sulla base di ogni
possibile attenuante, onde ostacolarne la reiterazione. Qui, naturalmente, non
è il caso di verificare ciò che Caino e Abele simbolicamente rappresentavano
nel racconto del Genesi. Dobbiamo limitarci a considerazioni astratte.
Quel che è certo è che nel racconto
biblico la “dignità dell’essere umano” dipendeva da altro
rispetto alla legge, poiché Caino fu punito prima che venisse formulato il
divieto del quinto comandamento.
Non solo, ma egli venne “marchiato” proprio
per impedire che qualcuno commettesse un secondo delitto, cioè che usasse
vendetta contro di lui. Se a quel tempo avessero dato per scontata l’intrinseca
malvagità umana, alla prima manifestazione di questa non ci sarebbe stata altra
soluzione che l’esecuzione capitale.
Sicché si può tranquillamente affermare
con A. Schenker che ai tempi di Caino era la dignità dell’uomo ad essere
considerata intrinseca all’uomo stesso. Il peccato originale, cioè la
violazione delle modalità del comunismo primitivo, se comportò la nascita
dell’individualismo, non determinò affatto l’impossibilità di opporvisi. Ancora
non esistevano né l’idea dell’espiazione né il principio della retribuzione
come base del sistema della pena. Il divieto di uccidere Caino sta appunto a
testimoniare che, nonostante l’emergere dell’individualismo, i princìpi
democratici del collettivismo non erano stati dimenticati.
Viceversa, il divieto mosaico fa la sua
comparsa in un contesto dove, evidentemente, per rispettare la persona non era
più sufficiente rifarsi alle tradizioni orali, ma occorreva una legge scritta:
segno, questo, che il distacco dai princìpi del comunismo primitivo era
diventato progressivo, forse irreversibile. Di qui, l’esigenza d’imporre al
colpevole una pena proporzionata e di risarcire la vittima del danno subìto. La
giustizia, sempre meno possibile sul piano sociale, doveva almeno apparire su
quello giuridico, cioè su quello formale della legge.
Ora, prima di rispondere adeguatamente
alla domanda che sopra ci siamo posti, dobbiamo continuare a ripercorrere
l’analisi del CCC, che si sposta dall’Antico Testamento (A.T.) al Nuovo,
esaminando la figura chiave di Gesù Cristo.
Per gli autori del CCC, Cristo non sarebbe
che un “nuovo Abele” che porge l’altra guancia, ama i propri nemici, non si
difende da chi lo accusa ingiustamente. etc (2262).
Dopo aver dedicato tre paragrafi (2259-61)
al V.T., il CCC ne dedica uno solo al Nuovo. Perché? Semplicemente perché si
vuole far apparire il Cristo come un “perfezionatore” del divieto mosaico.
Pur di dimostrare che l’uomo è
intrinsecamente malvagio, Cristo, – secondo il CCC, – avrebbe non solo vietato
l’ira, l’odio e la vendetta, oltre che naturalmente l’omicidio, ma si sarebbe
anche offerto volontariamente come “agnello sacrificale” per i
peccati degli uomini. Egli dunque, in un certo senso, sarebbe stato vittima
della sua stessa “legge dell’amore assoluto”, che gli impediva di
trasformarsi in “giustiziere dei malvagi”.
Come si può notare, questa interpretazione
della vita di Cristo è assolutamente fantastica. La chiesa romana non ha qui
saputo cogliere la fondamentale differenza dalla legge mosaica che i vangeli
rappresentano, per i quali il “divieto di uccidere” è una
contraddizione in termini, finché non si pongono le basi sociali che tolgano al
delitto le sue motivazioni di fondo.
In effetti, se nel mentre si pone il
divieto non ci si preoccupa di creare una società veramente democratica, quel
divieto, alla lunga, non sortirà alcun effetto. E, viceversa, se si ha quella
preoccupazione, il divieto è altrettanto inutile, poiché non sarà in virtù di
esso che i cittadini si comporteranno in maniera non-violenta.
A parte questo, la Chiesa Romana non ha
mai neppure capito (o non lo ha mai voluto capire) il motivo per cui il Cristo
si lasciò giustiziare senza reagire. Lungi dal pensare che il potere dominante
avrebbe più facilmente rinunciato al proprio arbitrio, vedendo un innocente
salire tranquillamente sul patibolo, il Cristo deve, invece, aver atteso
(invano, purtroppo) che la propria liberazione fosse il frutto di una
convinzione largamente popolare, solo in virtù della quale si sarebbe sia
potuto vincere il dominio romano che costruire una nuova società civile.
Imporre il proprio progetto democratico
con colpi di stato, atti terroristici e cose simili non avrebbe certo
significato realizzare un’alternativa alla logica del potere dominante (romano
o ebraico che fosse).
Ora, finalmente, possiamo rispondere alla
suddetta domanda, se il lettore non l’ha già fatto per contro proprio. La
Chiesa è favorevole alla pena di morte sostanzialmente per questa ragione di
tipo “etico-religioso”: essendo la natura dell’uomo intrinsecamente malvagia,
la società ha il diritto, nei confronti di chi cerca di contenere tale
malvagità in una condotta il più possibile irreprensibile e, nonostante questo,
viene ucciso, di considerare la sua morte un delitto assolutamente
imperdonabile.
In altre parole, è intollerabile per la
chiesa veder uccidere un “innocente”, colui cioè che, meglio di altri, combatte
contro gli effetti deleteri del peccato originale (ma anche colui che, essendo
ancora troppo giovane d’età, non ha potuto sperimentare su di sé gli effetti o
le tentazioni di quella colpa). “L’omicida e coloro che volontariamente
cooperano all’uccisione commettono un peccato che grida vendetta al cielo”,
specie nei casi di “infanticidio, fratricidio, parricidio e uccisione
del coniuge” (2268).
Si deve, però, andare al paragrafo 1867
per accorgersi che fra i “peccati che gridano al cielo” non vi è solo
l’omicidio di Abele o la licenziosità dei Sodomiti, ma anche “il
lamento del popolo oppresso in Egitto; il lamento del forestiero, della vedova
e dell’orfano”. Infine, “l’ingiustizia verso il salariato”.
Ma, la cosa più singolare di tutta questa
esegesi del CCC, circa il divieto mosaico e la morte di Gesù, è che nella
seconda parte del capitolo (quella dedicata alla “legittima difesa”)
– e qui veniamo alla motivazione più propriamente politica, – la Chiesa romana,
servendosi delle sentenze dell’Aquinate, arriva a formulare cose del
tutto antievangeliche, che peggiorano persino la durezza della legge mosaica,
la quale prevedeva la pena di morte per i trasgressori di alcuni comandamenti.
Sulla base della motivazione vista sopra,
la Chiesa non ha espresso un parere chiaramente favorevole alla pena di morte.
Essa, infatti, si rende conto che, in quanto istituzione “religiosa”,
dev’essere sempre pronta al perdono.
Tuttavia, la trattazione religiosa
dell’argomento è stata condotta con abile maestria, evitando di esprimere
“giudizi di valore” categorici, sia per mostrare che il divieto mosaico “ha
una validità universale: obbliga tutti e ciascuno, sempre e dappertutto” (2261),
per cui la sua trasgressione non può che comportare gravissime conseguenze, sia
per suscitare nel lettore un senso di forte riprovazione nei confronti del
fatto che, nonostante la palese innocenza di Gesù, vi furono ugualmente delle
persone disposte a crocifiggerlo.
Come restare indifferenti al cospetto di
un’ingiustizia così grande? Il fatto che Cristo non abbia voluto difendersi,
non implica che nessuno debba farlo. Ciò che sul piano etico-religioso può
apparire inaccettabile, può non esserlo sul piano gius-politico.
Infatti, “l’amore verso se stessi
resta un principio fondamentale della moralità. E’, quindi, legittimo far
rispettare il proprio diritto alla vita”, “poiché, – come dice
Tommaso d’Aquino, – un uomo è tenuto di più a provvedere alla propria
vita che alla vita altrui” (2264).
Curiosa questa citazione
dell’illustre Dottore della Chiesa. Egli ha, senza dubbio, ragione
quando afferma che “se nel difendere la propria vita uno usa maggiore
violenza del necessario, il suo atto è illecito”. Ma che dire del fatto che
la legittima difesa venga invocata per tutelare un diritto esclusivamente
soggettivo? Da una Chiesa che pretende di fare dell’ideale “divino” la
sua raison d’être, sinceramente, ci si aspettava qualcosa di più
sublime.
In effetti, se la legittima difesa è il
modo migliore per garantire un proprio diritto, cosa dover pensare di quanti,
nella storia, vi hanno rinunciato per poter meglio affermare un “bene
comune”, cioè un valore, un ideale, un “diritto”, se si vuole,
o, comunque, una causa non puramente soggettiva? Cosa pensare di coloro che,
liberamente e consapevolmente, non perché desiderosi di morire martiri à
tout prix, hanno preferito l’idea del sacrificio personale a quella della
legittima difesa? Erano pazzi, ingenui, illusi o che altro? Il valore etico
(umano, ontologico) di una scelta esistenziale, può essere misurato in termini
meramente giuridici?
Quando poi ci si addentra sul piano più
propriamente politico-istituzionale, i limiti della chiesa cattolica si
evidenziano in tutta la loro crudezza. Se già avevamo messo in dubbio il valore
assoluto della legittima difesa (che va comunque salvaguardata) in nome
dell’interesse soggettivo, ora ci pare ancor più fuorviante l’affermazione
secondo cui la legittima difesa va considerata anche come un dovere da parte di
chi “è responsabile della vita altrui” (2265).
Come spesso succede le parole che si usano
non hanno mai un senso univoco, inequivocabile, ma sono sempre soggette a
fraintendimenti, anche quando si cerca di essere il più possibile aderenti alla
realtà, il più possibile “scientifici”: cioè, esiste sempre la
possibilità di dare alle parole un senso opposto a quello voluto, anche contro
la propria volontà, o, comunque, esiste sempre la possibilità che qualcuno non
ci capisca o non ci voglia capire. E così qui: chi metterebbe in dubbio che le
autorità costituite hanno il dovere di usare lo strumento della legittima
difesa per tutelare l’incolumità (non solo fisica) dei propri cittadini? Ma se
noi dicessimo: le autorità costituite, nell’adempiere al dovere di difendere i
cittadini, hanno il diritto di sostituirsi alla loro volontà, non susciteremmo
forse delle perplessità?
La frase incriminata dalle associazioni
pacifiste è stata la seguente: “la chiesa ha riconosciuto fondato [sottinteso:
"da sempre"] il diritto e il dovere della legittima [o
semplicemente "costituita"?] autorità pubblica di infliggere
pene proporzionate alla gravità del delitto, senza escludere, in casi di
estrema gravità, la pena di morte” (2266).
Si noti il sofisma dell’espressione “pene
proporzionate”: forse il popolo può impedire, nella concezione politica
della Chiesa, che lo Stato usi pene sproporzionate? E come lo potrebbe, visto e
considerato che, per la Chiesa, lo Stato è soggetto non alla “volontà
popolare”, ma solo alle “leggi” (1903), che devono essere
conformi a “un ordine prestabilito da Dio” (1901)?
Se la “volontà popolare” fosse
il principio fondamentale dello “Stato di diritto”, la pena di
morte potrebbe forse essere considerata una “pena proporzionata” a
un qualche particolare delitto? Sarebbe forse giusto dare per scontato che, ad
un certo punto, bisogna assolutamente negare al colpevole qualunque possibilità
di pentimento, ritenendolo unico vero responsabile del suo crimine? E’ forse
questo l’insegnamento del Cristo nell’episodio della “donna adultera” (Gv.
8,1ss.)?
Il fatto è che, – secondo gli autori
del CCC, – la società (e, quindi, la Chiesa) deve, comunque, difendersi da chi
la minaccia con l’uso della forza. Su questo, il CCC è molto esplicito: “i
detentori dell’autorità [qui considerati "sacri e inviolabili"] hanno
il diritto di usare le armi per respingere gli aggressori della comunità
civile…” (2266).
La chiesa non vuole prospettare, neanche
sul piano ipotetico, l’idea che gli aggressori si comportino così proprio
perché si appellano al principio della “legittima difesa” e
che i veri aggressori possano in realtà essere le stesse autorità
costituite. “La pena ha lo scopo di difendere l’ordine pubblico e la
sicurezza delle persone” (2266), sentenzia il CCC. Non ha, quindi,
senso chiedersi se tale difesa sia “sempre” lecita o se non sia meglio mettere
in discussione il valore del cosiddetto “ordine pubblico”.
Thomas More, martire della libertà di
coscienza, santificato dalla Chiesa romana nel 1935, disse nella sua Utopia:
gli Stati fondati sulla proprietà privata e il denaro “allevano dei
ladri per poi punirli con la morte”.
F. Engels, tre secoli dopo, dirà la stessa
cosa in La situazione della classe operaia in Inghilterra: “Se
la società toglie a migliaia di individui il necessario per l’esistenza…; se
mediante la forza della legge li costringe a rimanere in tali condizioni,
finché non sopraggiunga la morte… questo è assassinio… contro il quale nessuno
può difendersi… perché non si vede l’assassino, perché questo assassino sono
tutti e nessuno, perché la morte della vittima appare come una morte naturale e
perché esso non è tanto un peccato di opera, quanto un peccato di omissione”.
Naturalmente, gli esegeti più ipocriti
sostengono che la Chiesa si limita a “riconoscere” agli Stati l’uso estremo
della pena di morte, senza farsi sua diretta sostenitrice. Ciò in realtà è
falso, sia perché la Chiesa ha abolito, de jure, in Vaticano tale
forma di condanna solo nel 1969 (per comodità affaristica di riconoscimenti
nell’Unione Europea), sia perché la necessità di tale pena si evince, – come si
è visto, – dai suoi stessi argomenti di tipo religioso, sia perché, infine, il
Vaticano assai raramente (o mai?) si è pronunciato contro gli Stati che
comminano sentenze capitali (opposizioni alla pena di morte è possibile
riscontrarle solo in chiese locali o nazionali, come, ad esempio, nella Commissione
per la Vita della Conferenza Episcopale Cattolica degli USA).
In realtà, a queste conclusioni assai poco
democratiche, si perviene quando il problema della responsabilità penale viene
affrontato in termini puramente idealistici o giuridici, senza tener conto di
alcun riferimento storico o sociale concreto.
“La pena, –
dice il CCC, – ha valore di espiazione” (2266), in quanto
il colpevole è solo colpevole. Il riferimento qui
và soprattutto al caso dell’omicidio volontario, per il quale non esistono
attenuanti. Solo quando si parla di quello involontario (come se, sul piano
etico, si potesse fare una distinzione così precisa), gli autori del CCC fanno
un’annotazione complementare usando i caratteri piccoli: “Tollerare, –
viene detto, – da parte della società umana, condizioni di miseria che
portano alla morte senza che ci si sforzi di porvi rimedio, è una scandalosa
ingiustizia e una colpa grave”(2269). La Chiesa qui intende riferirsi a
coloro che usano “pratiche usuraie e mercantili”. Costoro,
indirettamente (solo indirettamente in una società capitalistica?) “commettono
un omicidio”.
Il CCC, insomma, non si preoccupa di
“capire” il crimine di chi, sottoposto a condizioni di vita disumane, reagisce
istintivamente facendosi giustizia da sé. Non si preoccupa minimamente di
giustificare coloro che, sottoposti alle medesime condizioni, ad un certo punto
decidono di organizzarsi politicamente per rovesciare i poteri costituiti. Si
preoccupa soltanto di trovare dei “colpevoli”, siano essi volontari o
involontari, diretti o indiretti, lasciando da parte tutte le responsabilità
che possono avere gli Stati e le istituzioni di potere, nonché i gruppi sociali
dominanti di una determinata società.
Ormai, come ognuno si sarà certamente
accorto, le parole non hanno più alcun significato. La Chiesa è disposta ad
affermare tutto ed il contrario di tutto, cioè tutto quanto fa parte del suo
impianto strettamente conservatore e, per essere più credibile, alcune cose che
fanno parte dell’ideologia laica e democratica.
Il problema non sta più nella scelta delle
parole, ma solo nell’atteggiamento che il credente deve tenere nei confronti
della Chiesa. E l’atteggiamento giusto, a quanto pare, visto che nessun alto
esponente della Curia vaticana l’ha contestato, può essere considerato quello
delle cattolicissime Filippine, il cui Parlamento, il 23 febbraio 1993, ha
reintrodotto, nonostante l’opposizione della Conferenza Episcopale
Filippina, la pena di morte, dopo averla abolita nel 1987, proprio facendo
leva sulle affermazioni del Catechismo Universale.
Contenuti
tratti da: http://www.homolaicus.com/teorici/wojtyla/pena_morte.htm
Pigrizia intellettuale e teoria della
responsabilità sociale
In un paese dove vige la pena di morte che
senso può avere la teoria del ragionevole dubbio? Non è forse una
contraddizione in termini?
Se anche dal punto di vista tecnico/materiale,
non vi fossero dubbi circa la consapevolezza di una persona da condannare a
morte, chi ci assicura che non esisterebbero dubbi dal punto di vista morale?
Come si può pensare che un individuo sano
di mente possa compiere un delitto nella più assoluta libertà di scelta?
Se una persona fosse assolutamente libera
di scegliere perché dovrebbe scegliere una cosa che le farebbe perdere la
libertà?
Nessuno vive così isolato dagli altri da
poter dire con sicurezza: “Ho scelto liberamente, senza condizionamenti
di sorta”. Chi vivesse isolato dal mondo, probabilmente, non si porrebbe
neanche il problema di compiere un delitto. Non ne avrebbe motivo. A meno che
l’isolamento non fosse una sorta di punizione inflitta in precedenza: il che
potrebbe portare a risentimenti e a esigenze di vendetta personale.
Viviamo in una società in cui i
condizionamenti sono reciproci: dunque, per quale motivo quando si tratta di
giudicare qualcuno, lo consideriamo come un individuo isolato e lo carichiamo
di responsabilità più grandi di quelle che potrebbe avere nella vita reale?
Gli uomini vivono assieme come tanti
individui isolati: costituiscono una comunità per via indotta,
involontariamente, non per libera scelta (questo senza considerare che la
comunità dovrebbe far parte in maniera naturale della vita di una persona, sin
dalla sua nascita). Nella vita reale, non si è capaci di assumere
reciprocamente le responsabilità altrui. Sicché quando qualcuno commette un
reato, viene lasciato solo, con tutte le sue responsabilità.
Eppure, l’isolamento che si vive in
società è anch’esso una forma di condizionamento, un peso da sopportare. Si
possono commettere azioni criminose non perché si è isolati dalla società,
ma proprio perché si è isolati nella società.
Il crimine è sempre frutto di un
condizionamento sociale: ecco perché, indirettamente, si è tutti colpevoli. Il
crimine dovrebbe essere considerato come occasione per ripensare i criteri del
vivere civile.
Insomma, la teoria del ragionevole dubbio
dovrebbe spingersi sino al concorso morale, indiretto, che può avere la società
nei confronti dell’imputato che ha commesso un reato.
Anche la teoria della presunzione
d’innocenza, in tal senso, andrebbe rivista. Non ha senso sostenere che uno è
innocente finché non si è dimostrata la colpevolezza. Bisognerebbe anzi
sostenere il contrario e, cioè, che in un modo o nell’altro siamo tutti colpevoli
e che quando si tratta di giudicare qualcuno, anzitutto, bisognerebbe chiedersi
che cosa si è fatto per impedire che un determinato reato venisse compiuto.
Bisognerebbe partire da premesse di
colpevolezza sociale, in modo da non far sentire l’imputato un individuo
isolato, un estraniato.
Questo, ovviamente, non significa che il
reato non deve essere punito o che bisogna essere pietisti ad oltranza.
Significa, semplicemente, che, nei confronti del reato, bisogna assumere un
atteggiamento pedagogico.
Il reato è un indizio di malessere
sociale. Dall’analisi dei sintomi, bisogna saper trovare una terapia per
vincere un male che ha radici nella società e nella sua cultura.
Dobbiamo abituarci a considerare i
condizionamenti sociali non come un limite alla libertà, ma come il fondamento
su cui la libertà và costruita.
Siamo liberi, appunto, perché
condizionati.
Il nostro compito è quello di rendere
positivi questi condizionamenti, affinché siano utili alla libertà.
Contenuti
tratti da: http://www.homolaicus.com/teorici/wojtyla/pena_morte.htmL’insegnamento tradizionale della Chiesa
non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della
responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa
fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto
la vita di esseri umani.
Da fonti varie,
a cura di Nino Caliendo
Nella Bibbia
Nella Bibbia sono elencate situazioni in
cui, nelle leggi che Dio dà a Mosé per esporle al popolo ebraico, si stabilisce
la pena capitale come punizione per determinate colpe. Ad esempio, nell’Antico
Testamento è scritto:
“Colui che colpisce un uomo causandone la
morte, sarà messo a morte “ (Esodo 21,12).
Nell’Antico Testamento (Genesi, 2,12-15)
esistono alcuni passi in cui Dio condanna la vendetta umana, minacciando
punizioni peggiori (“sette volte” e
“settanta volte sette”) per chi avesse ucciso Caino e Lamech.
Diversi passi, in prevalenza dell’Antico
Testamento, affermano la legittimità della pena di morte quando è violata la
legge di Mosé. A questi si aggiungono gli episodi di guerra e della storia del
popolo eletto, dove i nemici periscono per volontà divina. Riguardo alla
violazione della legge ebraica, nella Lettera agli Ebrei 10,28: “Quando
qualcuno ha violato la legge di Mosé, viene messo a morte senza pietà sulla
parola di due o tre testimoni”. In Levitico 24,16 viene messo a morte “Chi
bestemmia il nome del Signore”, in Levitico 20,10 chi commette adulterio,
in 27,29 “Nessuna persona votata allo sterminio potrà essere
riscattata; dovrà essere messa a morte” e in Levitico 24,17 “Chi
percuote a morte un uomo”. In Esodo 21,17 viene messo a morte chi maledice
il padre o la madre.
Il passo è ripreso nel Nuovo Testamento,
da Vangelo di Marco 7,10: “…infatti disse: Onora tuo padre e tua madre,
e chi maledice il padre e la madre sia messo a morte”. In Numeri 35,30, si
afferma che non si può accettare un prezzo di riscatto da un omicida: “Se
uno uccide un altro, l’omicida sarà messo a morte in seguito a deposizione di
testimoni, ma un unico testimone non basterà per condannare a morte una
persona. Non accetterete prezzo di riscatto per la vita di un omicida, reo di
morte, perché dovrà essere messo a morte”.
La morte del colpevole avveniva per
lapidazione. Questa forma di esecuzione coinvolge tutta la comunità locale
adulta, che collettivamente è chiamata ad applicare la legge, e risparmia
l’individuazione di un singolo come boia.
Nel Nuovo Testamento, Gesù richiama più
volte al perdono e condanna l’episodio della lapidazione della donna adultera:
“Chi di voi è senza
peccato, scagli per primo la pietra contro di lei” (Giovanni
8,7).
Pensatori cristiani
Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino
sostengono la liceità della pena di morte sulla base del concetto della
conservazione del bene comune. L’argomentazione di Tommaso d’Aquino è la
seguente:
“Come è lecito, anzi
doveroso, estirpare un membro malato per salvare tutto il corpo, così quando
una persona è divenuta un pericolo per la comunità o è causa di corruzione
degli altri, essa viene eliminata per garantire la salvezza della comunità” (Summa
theologiae II-II, q. 29, artt. 37-42).
Il teologo sosteneva, tuttavia, che la
pena andasse inflitta solo al colpevole di gravissimi delitti, mentre,
all’epoca, veniva utilizzata con facilità e grande discrezionalità.
Lo Stato pontificio ha mantenuto nel suo
ordinamento la pena di morte fino al XX secolo.
Dottrina cattolica odierna
Il Catechismo della Chiesa
Cattolica (1997) parla della pena di morte all’interno della
trattazione sul quinto comandamento, “Non uccidere” e, più
specificamente, nel sottotitolo che tratta della legittima difesa.
In questo contesto dice (n. 2266-2267):
“2266: Corrisponde ad un’esigenza
di tutela del bene comune lo sforzo dello Stato inteso a contenere il
diffondersi di comportamenti lesivi dei diritti dell’uomo e delle regole
fondamentali della convivenza civile. La legittima autorità pubblica ha il
diritto ed il dovere di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto.
La pena ha innanzi tutto lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla
colpa. Quando è volontariamente accettata dal colpevole, essa assume valore di
espiazione. La pena poi, oltre che a difendere l’ordine pubblico e a tutelare
la sicurezza delle persone, mira ad uno scopo medicinale: nella misura del
possibile, essa deve contribuire alla correzione del colpevole”.
“2267: L’insegnamento tradizionale
della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della
responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa
fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto
la vita di esseri umani.
Se invece i mezzi incruenti sono
sufficienti per difendere dall’aggressore e per proteggere la sicurezza delle
persone, l’autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio
rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla
dignità della persona umana…”
La pena di morte in Città del Vaticano
venne rimossa dalla Legge Fondamentale solo il 12 febbraio
2001, forse per convenienza UE, visto che l’Unione Europea non ammette la pena
capitale e, di conseguenza, gli Stati che la prevedono.
Nel giugno 2004, l’allora cardinale Joseph
Ratzinger, attuale papa Benedetto XVI, inviò, in qualità di prefetto
della Congregazione per la Dottrina della Fede, una lettera al
cardinale Theodore Edgar McCarrick, – arcivescovo di Washington, – e
all’arcivescovo Wilton Daniel Gregory, – presidente della Conferenza Episcopale
degli Stati Uniti, – nella quale affermava che può tuttavia essere
consentito [...] fare ricorso alla pena di morte
Contenuti
tratti da: http://it.wikipedia.org/wiki/Pena_di_morte
Se l’art. 2261 del Nuovo Catechismo
afferma che: “La Scrittura precisa la proibizione del quinto comandamento:
non far morire l’innocente e il giusto” (Es 23,7), è consequenziale
che: “Il comandamento ‘Non uccidere’ ha valore assoluto quando si
riferisce alla persona innocente” (Evangelium vitae, n° 57) e
valore relativo quando si riferisce alla persona colpevole.
Infatti, l’art. 2267 del Nuovo Catechismo
conferma che: “L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude,
supposto il pieno accertamento dell’ identità e della responsabilità del
colpevole, il ricorso alla pena di morte”.
La Chiesa, dunque, riconosce all’autorità
pubblica il potere di applicare la pena di morte, nei confronti delle persone
colpevoli, perché la “Scrittura” e, più precisamente, il versetto 7 del
capitolo 23 dell’Esodo “non far morire l’innocente e il giusto“,
preciserebbe che il comandamento “Non uccidere” è stato
formulato da Dio per proteggere la vita delle persone innocenti, ma non le
colpevoli.
Ma la Chiesa è proprio certa che questa
dottrina così inumana sia conforme alla legge divina e non sia, piuttosto,
frutto di conformazione umana?
Se di fronte alla legge umana, tutte le persone
sono considerate uguali: “La legge è uguale per tutti”, quanto più,
tutte le persone, dovrebbero essere considerate uguali di fronte alla legge di
Dio, che possiede carattere universale?
Mentre, per il Catechismo, di fronte alla
legge divina: “Non uccidere”, le persone non sono considerata tutte
uguali, ma, a priori, separate le buone dalle cattive e proprio le cattive, per
le quali Dio ha istituita la legge, defraudate dai benefici.
In realtà, la “Scrittura” di cui parla il
Catechismo, che “precisa la proibizione del quinto comandamento”, si riduce ad
un versetto dell’Antico Testamento: “Non far morire l’innocente e il
giusto“, formulato, peraltro, in modo incompleto, infatti, citato per
intero: “Starai lontano dalla parola falsa e non ucciderai l’innocente
e il giusto perché io non dichiaro giusto il colpevole“ (Es 23,7),
rivela la vera intenzione dell’autore sacro, che non è certo quella di voler
precisare la proibizione del quinto comandamento, come dichiara il Catechismo,
ma formare le coscienze umane al giusto comportamento morale che devono
assumere i soggetti giuridici nell’ambito di un processo penale: Dio vieta,
categoricamente, ai giudici e ai testimoni, di ricorrere a parole false per
deviare il corso della giustizia, provocando la condanna dell’innocente e
l’assoluzione del colpevole. Intenzione che, l’autore sacro sottolinea anche
con il versetto precedente: “Non farai deviare il giudizio del povero,
che si rivolge a te nel suo processo“ (Es 23,6).
Tra l’altro, non spetta all’Antico Testamento
stabilire le verità divine in materia di fede e di morale, ma al Nuovo
Testamento e in esso non vi è un solo versetto che autorizzi la Chiesa a
legittimare la pena di morte, una pena di natura vendicativa, assolutamente
contraria al perdono, il quale costituisce il DNA dello spirito cristiano.
Unitamente alla pena di morte, anche la
“tortura” è stata sempre considerata dalla Chiesa moralmente lecita: solo con
il Concilio Vaticano II è stata, finalmente, esclusa e
condannata.
Intanto, prima che fosse rigettata, un
numero infinito di persone, che solo Dio conosce, ha dovuto soffrire atrocità
incredibili e tante di esse sono morte a causa di questa dottrina legittimata
dalla Chiesa.
Ora, però, che il Concilio si
è espresso in modo autentico e ufficiale contro tutte: “…le torture
inflitte al corpo alla mente…ledono grandemente l’onore del creatore” (Gaudim
et spes n° 27) può la Chiesa continuare a considerare lecita la pena di morte?
Non è forse la pena di morte una pratica di tortura inflitta al corpo e alla
mente?
Da: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3721
Il Catechismo e la pena di morte
Cesare Beccaria, a proposito della pena di
morte, nel pamphlet “Dei delitti e delle pene”, nel 1764,
scriveva: “Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della
pubblica volontà, che detestano e puniscano l’omicidio, ne commettano uno esse
medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordini un pubblico
assassinio”.
Il Granducato di Toscana, nel 1786, fu il
primo Stato al mondo ad abolire la pena di morte.
Su iniziativa dell’Italia, l’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite, il 18 Dicembre 2007, ha approvato la risoluzione per
la moratoria universale contro la pena di morte nel mondo.
Ma, il punto 2267 de “Il nuovo
catechismo della Chiesa cattolica” (1992, rivisto nel 1999) così
recita:
“L’insegnamento tradizionale della Chiesa
non esclude (…) il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via
praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di
esseri umani (…). Oggi (…) i casi di assoluta necessità di soppressione del reo
sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti” (quest’ultimo
paragrafo, aggiunto successivamente, proviene dall’enciclica di Giovanni Paolo
II “Evangelium vitae” del 1995).
Ecco l’assurdo! La Chiesa, nella sua dottrina
fondamentale, il Catechismo, mantiene ancora la pena di morte,
anche se edulcorata dall’aggiunta di un paragrafetto dell’enciclica sopradetta.
Le lancette del tempo sembrano essersi
fermate, meno male che la… Santa Inquisizione è lontana!
Eppure, nel Nuovo testamento, Gesù invoca il perdono nell’episodio
della lapidazione della donna adultera: “Chi di voi è senza peccato,
scagli per primo la pietra contro di lei” (Giovanni 1 cap 8,
7).
E Giovanni Paolo II dichiara, durante la
visita negli USA, che la Chiesa è “incondizionatamente a favore della
vita” e che, essendo la nostra società “in possesso dei mezzi
per proteggersi (…), la pena si morte è crudele e non necessaria”.
Insomma, sembra l’applicazione completa
del V comandamento: non uccidere. Ma non è così. Infatti, quando si
afferma che sono rari i casi “di assoluta necessità di soppressione del
reo”, si ammette che in qualche caso la pena di morte è riconosciuta.
Qualcuno scrive che questo vale per
la legittima difesa (punto 2266). Ma quanti innocenti,
nel Far West del mondo civilizzato, vengono uccisi in nome
della legittima difesa? Quando, allora, si può parlare di legittima
difesa, ovvero quale tipo di reato autorizza alla pena capitale?
E, se “la pena di morte è crudele
e non necessaria”, perché viene ancora mantenuto nel Catechismo il punto
2267, che rappresenta un affronto all’etica del perdono e della misericordia e
lascia l’impressione che si possa, in qualche caso, utilizzarlo?
di Governanti
- www.governanti.blogspot.com
Il Catechismo Universale e la pena di
morte
Si è fatto un gran discutere, in ambienti
pacifisti e non-violenti, come, ad esempio Amnesty International,
circa le motivazioni che possono aver indotto la chiesa cattolica ad accettare
– come risulta dal paragrafo 2266 del recente Catechismo Universale (CCC)
– la pena di morte, seppure “in casi di estrema gravità”.
Vediamo le prime.
Al paragrafo 2259, dicono gli autori del
CCC: “La Scrittura, nel racconto dell’uccisione di Abele da parte del
fratello Caino, rivela, fin dagli inizi della storia umana, la presenza
nell’uomo della collera e della cupidigia, conseguenze del peccato originale”.
Il riferimento al cosiddetto “peccato
originale”, ogni qualvolta si deve cercare di spiegare la causa di taluni
malesseri sociali, è praticamente una costante nella teologia cattolica.
Al paragrafo successivo gli autori
ricordano che “l’alleanza [vetero testamentaria] di
Dio e dell’umanità è intessuta di richiami al dono divino della vita umana e
alla violenza omicida dell’uomo”(2260).
Dei due “richiami”, quello che più preme
sottolineare agli autori non è il primo, – come sarebbe naturale per una
istituzione (la Chiesa) che predica la legge dell’amore -, bensì il secondo. E
di questo l’aspetto da essi considerato più significativo non è tanto il puro e
semplice “divieto di non uccidere”, quanto piuttosto il divieto di
uccidere “l’innocente e il giusto” (2261): peccato, questo, “gravemente
contrario alla dignità dell’essere umano”.
Ora, proviamo a chiederci: per quale
ragione la chiesa cattolica ritiene che “l’uccisione volontaria di un
innocente è gravemente contraria alla dignità dell’essere umano” (2261)?
Cioè, per quale ragione essa non si limita ad affermare che l’essere umano in
quanto tale, santo o peccatore che sia, non meriterebbe mai di morire in modo
violento?
La Chiesa Romana, – qui autorevolmente
rappresentata da un Catechismo Universale, -non è in grado di trarre le logiche
conseguenze dalla sua teoria del peccato originale, perché finirebbe in un
groviglio inestricabile di contraddizioni. A noi, invece, interessa mettere in
luce il seguente, inevitabile, sillogismo: se la natura umana è intrinsecamente
malvagia, allora anche Abele era “colpevole”, ma se egli era “colpevole”,
il delitto di Caino, in sé pur grave, va ricompreso sulla base di ogni
possibile attenuante, onde ostacolarne la reiterazione. Qui, naturalmente, non
è il caso di verificare ciò che Caino e Abele simbolicamente rappresentavano
nel racconto del Genesi. Dobbiamo limitarci a considerazioni astratte.
Quel che è certo è che nel racconto
biblico la “dignità dell’essere umano” dipendeva da altro
rispetto alla legge, poiché Caino fu punito prima che venisse formulato il
divieto del quinto comandamento.
Non solo, ma egli venne “marchiato” proprio
per impedire che qualcuno commettesse un secondo delitto, cioè che usasse
vendetta contro di lui. Se a quel tempo avessero dato per scontata l’intrinseca
malvagità umana, alla prima manifestazione di questa non ci sarebbe stata altra
soluzione che l’esecuzione capitale.
Sicché si può tranquillamente affermare
con A. Schenker che ai tempi di Caino era la dignità dell’uomo ad essere
considerata intrinseca all’uomo stesso. Il peccato originale, cioè la
violazione delle modalità del comunismo primitivo, se comportò la nascita
dell’individualismo, non determinò affatto l’impossibilità di opporvisi. Ancora
non esistevano né l’idea dell’espiazione né il principio della retribuzione
come base del sistema della pena. Il divieto di uccidere Caino sta appunto a
testimoniare che, nonostante l’emergere dell’individualismo, i princìpi
democratici del collettivismo non erano stati dimenticati.
Viceversa, il divieto mosaico fa la sua
comparsa in un contesto dove, evidentemente, per rispettare la persona non era
più sufficiente rifarsi alle tradizioni orali, ma occorreva una legge scritta:
segno, questo, che il distacco dai princìpi del comunismo primitivo era
diventato progressivo, forse irreversibile. Di qui, l’esigenza d’imporre al
colpevole una pena proporzionata e di risarcire la vittima del danno subìto. La
giustizia, sempre meno possibile sul piano sociale, doveva almeno apparire su
quello giuridico, cioè su quello formale della legge.
Ora, prima di rispondere adeguatamente
alla domanda che sopra ci siamo posti, dobbiamo continuare a ripercorrere
l’analisi del CCC, che si sposta dall’Antico Testamento (A.T.) al Nuovo,
esaminando la figura chiave di Gesù Cristo.
Per gli autori del CCC, Cristo non sarebbe
che un “nuovo Abele” che porge l’altra guancia, ama i propri nemici, non si
difende da chi lo accusa ingiustamente. etc (2262).
Dopo aver dedicato tre paragrafi (2259-61)
al V.T., il CCC ne dedica uno solo al Nuovo. Perché? Semplicemente perché si
vuole far apparire il Cristo come un “perfezionatore” del divieto mosaico.
Pur di dimostrare che l’uomo è
intrinsecamente malvagio, Cristo, – secondo il CCC, – avrebbe non solo vietato
l’ira, l’odio e la vendetta, oltre che naturalmente l’omicidio, ma si sarebbe
anche offerto volontariamente come “agnello sacrificale” per i
peccati degli uomini. Egli dunque, in un certo senso, sarebbe stato vittima
della sua stessa “legge dell’amore assoluto”, che gli impediva di
trasformarsi in “giustiziere dei malvagi”.
Come si può notare, questa interpretazione
della vita di Cristo è assolutamente fantastica. La chiesa romana non ha qui
saputo cogliere la fondamentale differenza dalla legge mosaica che i vangeli
rappresentano, per i quali il “divieto di uccidere” è una
contraddizione in termini, finché non si pongono le basi sociali che tolgano al
delitto le sue motivazioni di fondo.
In effetti, se nel mentre si pone il
divieto non ci si preoccupa di creare una società veramente democratica, quel
divieto, alla lunga, non sortirà alcun effetto. E, viceversa, se si ha quella
preoccupazione, il divieto è altrettanto inutile, poiché non sarà in virtù di
esso che i cittadini si comporteranno in maniera non-violenta.
A parte questo, la Chiesa Romana non ha
mai neppure capito (o non lo ha mai voluto capire) il motivo per cui il Cristo
si lasciò giustiziare senza reagire. Lungi dal pensare che il potere dominante
avrebbe più facilmente rinunciato al proprio arbitrio, vedendo un innocente
salire tranquillamente sul patibolo, il Cristo deve, invece, aver atteso
(invano, purtroppo) che la propria liberazione fosse il frutto di una
convinzione largamente popolare, solo in virtù della quale si sarebbe sia
potuto vincere il dominio romano che costruire una nuova società civile.
Imporre il proprio progetto democratico
con colpi di stato, atti terroristici e cose simili non avrebbe certo
significato realizzare un’alternativa alla logica del potere dominante (romano
o ebraico che fosse).
Ora, finalmente, possiamo rispondere alla
suddetta domanda, se il lettore non l’ha già fatto per contro proprio. La
Chiesa è favorevole alla pena di morte sostanzialmente per questa ragione di
tipo “etico-religioso”: essendo la natura dell’uomo intrinsecamente malvagia,
la società ha il diritto, nei confronti di chi cerca di contenere tale
malvagità in una condotta il più possibile irreprensibile e, nonostante questo,
viene ucciso, di considerare la sua morte un delitto assolutamente
imperdonabile.
In altre parole, è intollerabile per la
chiesa veder uccidere un “innocente”, colui cioè che, meglio di altri, combatte
contro gli effetti deleteri del peccato originale (ma anche colui che, essendo
ancora troppo giovane d’età, non ha potuto sperimentare su di sé gli effetti o
le tentazioni di quella colpa). “L’omicida e coloro che volontariamente
cooperano all’uccisione commettono un peccato che grida vendetta al cielo”,
specie nei casi di “infanticidio, fratricidio, parricidio e uccisione
del coniuge” (2268).
Si deve, però, andare al paragrafo 1867
per accorgersi che fra i “peccati che gridano al cielo” non vi è solo
l’omicidio di Abele o la licenziosità dei Sodomiti, ma anche “il
lamento del popolo oppresso in Egitto; il lamento del forestiero, della vedova
e dell’orfano”. Infine, “l’ingiustizia verso il salariato”.
Ma, la cosa più singolare di tutta questa
esegesi del CCC, circa il divieto mosaico e la morte di Gesù, è che nella
seconda parte del capitolo (quella dedicata alla “legittima difesa”)
– e qui veniamo alla motivazione più propriamente politica, – la Chiesa romana,
servendosi delle sentenze dell’Aquinate, arriva a formulare cose del
tutto antievangeliche, che peggiorano persino la durezza della legge mosaica,
la quale prevedeva la pena di morte per i trasgressori di alcuni comandamenti.
Sulla base della motivazione vista sopra,
la Chiesa non ha espresso un parere chiaramente favorevole alla pena di morte.
Essa, infatti, si rende conto che, in quanto istituzione “religiosa”,
dev’essere sempre pronta al perdono.
Tuttavia, la trattazione religiosa
dell’argomento è stata condotta con abile maestria, evitando di esprimere
“giudizi di valore” categorici, sia per mostrare che il divieto mosaico “ha
una validità universale: obbliga tutti e ciascuno, sempre e dappertutto” (2261),
per cui la sua trasgressione non può che comportare gravissime conseguenze, sia
per suscitare nel lettore un senso di forte riprovazione nei confronti del
fatto che, nonostante la palese innocenza di Gesù, vi furono ugualmente delle
persone disposte a crocifiggerlo.
Come restare indifferenti al cospetto di
un’ingiustizia così grande? Il fatto che Cristo non abbia voluto difendersi,
non implica che nessuno debba farlo. Ciò che sul piano etico-religioso può
apparire inaccettabile, può non esserlo sul piano gius-politico.
Infatti, “l’amore verso se stessi
resta un principio fondamentale della moralità. E’, quindi, legittimo far
rispettare il proprio diritto alla vita”, “poiché, – come dice
Tommaso d’Aquino, – un uomo è tenuto di più a provvedere alla propria
vita che alla vita altrui” (2264).
Curiosa questa citazione
dell’illustre Dottore della Chiesa. Egli ha, senza dubbio, ragione
quando afferma che “se nel difendere la propria vita uno usa maggiore
violenza del necessario, il suo atto è illecito”. Ma che dire del fatto che
la legittima difesa venga invocata per tutelare un diritto esclusivamente
soggettivo? Da una Chiesa che pretende di fare dell’ideale “divino” la
sua raison d’être, sinceramente, ci si aspettava qualcosa di più
sublime.
In effetti, se la legittima difesa è il
modo migliore per garantire un proprio diritto, cosa dover pensare di quanti,
nella storia, vi hanno rinunciato per poter meglio affermare un “bene
comune”, cioè un valore, un ideale, un “diritto”, se si vuole,
o, comunque, una causa non puramente soggettiva? Cosa pensare di coloro che,
liberamente e consapevolmente, non perché desiderosi di morire martiri à
tout prix, hanno preferito l’idea del sacrificio personale a quella della
legittima difesa? Erano pazzi, ingenui, illusi o che altro? Il valore etico
(umano, ontologico) di una scelta esistenziale, può essere misurato in termini
meramente giuridici?
Quando poi ci si addentra sul piano più
propriamente politico-istituzionale, i limiti della chiesa cattolica si
evidenziano in tutta la loro crudezza. Se già avevamo messo in dubbio il valore
assoluto della legittima difesa (che va comunque salvaguardata) in nome
dell’interesse soggettivo, ora ci pare ancor più fuorviante l’affermazione
secondo cui la legittima difesa va considerata anche come un dovere da parte di
chi “è responsabile della vita altrui” (2265).
Come spesso succede le parole che si usano
non hanno mai un senso univoco, inequivocabile, ma sono sempre soggette a
fraintendimenti, anche quando si cerca di essere il più possibile aderenti alla
realtà, il più possibile “scientifici”: cioè, esiste sempre la
possibilità di dare alle parole un senso opposto a quello voluto, anche contro
la propria volontà, o, comunque, esiste sempre la possibilità che qualcuno non
ci capisca o non ci voglia capire. E così qui: chi metterebbe in dubbio che le
autorità costituite hanno il dovere di usare lo strumento della legittima
difesa per tutelare l’incolumità (non solo fisica) dei propri cittadini? Ma se
noi dicessimo: le autorità costituite, nell’adempiere al dovere di difendere i
cittadini, hanno il diritto di sostituirsi alla loro volontà, non susciteremmo
forse delle perplessità?
La frase incriminata dalle associazioni
pacifiste è stata la seguente: “la chiesa ha riconosciuto fondato [sottinteso:
"da sempre"] il diritto e il dovere della legittima [o
semplicemente "costituita"?] autorità pubblica di infliggere
pene proporzionate alla gravità del delitto, senza escludere, in casi di
estrema gravità, la pena di morte” (2266).
Si noti il sofisma dell’espressione “pene
proporzionate”: forse il popolo può impedire, nella concezione politica
della Chiesa, che lo Stato usi pene sproporzionate? E come lo potrebbe, visto e
considerato che, per la Chiesa, lo Stato è soggetto non alla “volontà
popolare”, ma solo alle “leggi” (1903), che devono essere
conformi a “un ordine prestabilito da Dio” (1901)?
Se la “volontà popolare” fosse
il principio fondamentale dello “Stato di diritto”, la pena di
morte potrebbe forse essere considerata una “pena proporzionata” a
un qualche particolare delitto? Sarebbe forse giusto dare per scontato che, ad
un certo punto, bisogna assolutamente negare al colpevole qualunque possibilità
di pentimento, ritenendolo unico vero responsabile del suo crimine? E’ forse
questo l’insegnamento del Cristo nell’episodio della “donna adultera” (Gv.
8,1ss.)?
Il fatto è che, – secondo gli autori
del CCC, – la società (e, quindi, la Chiesa) deve, comunque, difendersi da chi
la minaccia con l’uso della forza. Su questo, il CCC è molto esplicito: “i
detentori dell’autorità [qui considerati "sacri e inviolabili"] hanno
il diritto di usare le armi per respingere gli aggressori della comunità
civile…” (2266).
La chiesa non vuole prospettare, neanche
sul piano ipotetico, l’idea che gli aggressori si comportino così proprio
perché si appellano al principio della “legittima difesa” e
che i veri aggressori possano in realtà essere le stesse autorità
costituite. “La pena ha lo scopo di difendere l’ordine pubblico e la
sicurezza delle persone” (2266), sentenzia il CCC. Non ha, quindi,
senso chiedersi se tale difesa sia “sempre” lecita o se non sia meglio mettere
in discussione il valore del cosiddetto “ordine pubblico”.
Thomas More, martire della libertà di
coscienza, santificato dalla Chiesa romana nel 1935, disse nella sua Utopia:
gli Stati fondati sulla proprietà privata e il denaro “allevano dei
ladri per poi punirli con la morte”.
F. Engels, tre secoli dopo, dirà la stessa
cosa in La situazione della classe operaia in Inghilterra: “Se
la società toglie a migliaia di individui il necessario per l’esistenza…; se
mediante la forza della legge li costringe a rimanere in tali condizioni,
finché non sopraggiunga la morte… questo è assassinio… contro il quale nessuno
può difendersi… perché non si vede l’assassino, perché questo assassino sono
tutti e nessuno, perché la morte della vittima appare come una morte naturale e
perché esso non è tanto un peccato di opera, quanto un peccato di omissione”.
Naturalmente, gli esegeti più ipocriti
sostengono che la Chiesa si limita a “riconoscere” agli Stati l’uso estremo
della pena di morte, senza farsi sua diretta sostenitrice. Ciò in realtà è
falso, sia perché la Chiesa ha abolito, de jure, in Vaticano tale
forma di condanna solo nel 1969 (per comodità affaristica di riconoscimenti
nell’Unione Europea), sia perché la necessità di tale pena si evince, – come si
è visto, – dai suoi stessi argomenti di tipo religioso, sia perché, infine, il
Vaticano assai raramente (o mai?) si è pronunciato contro gli Stati che
comminano sentenze capitali (opposizioni alla pena di morte è possibile
riscontrarle solo in chiese locali o nazionali, come, ad esempio, nella Commissione
per la Vita della Conferenza Episcopale Cattolica degli USA).
In realtà, a queste conclusioni assai poco
democratiche, si perviene quando il problema della responsabilità penale viene
affrontato in termini puramente idealistici o giuridici, senza tener conto di
alcun riferimento storico o sociale concreto.
“La pena, –
dice il CCC, – ha valore di espiazione” (2266), in quanto
il colpevole è solo colpevole. Il riferimento qui
và soprattutto al caso dell’omicidio volontario, per il quale non esistono
attenuanti. Solo quando si parla di quello involontario (come se, sul piano
etico, si potesse fare una distinzione così precisa), gli autori del CCC fanno
un’annotazione complementare usando i caratteri piccoli: “Tollerare, –
viene detto, – da parte della società umana, condizioni di miseria che
portano alla morte senza che ci si sforzi di porvi rimedio, è una scandalosa
ingiustizia e una colpa grave”(2269). La Chiesa qui intende riferirsi a
coloro che usano “pratiche usuraie e mercantili”. Costoro,
indirettamente (solo indirettamente in una società capitalistica?) “commettono
un omicidio”.
Il CCC, insomma, non si preoccupa di
“capire” il crimine di chi, sottoposto a condizioni di vita disumane, reagisce
istintivamente facendosi giustizia da sé. Non si preoccupa minimamente di
giustificare coloro che, sottoposti alle medesime condizioni, ad un certo punto
decidono di organizzarsi politicamente per rovesciare i poteri costituiti. Si
preoccupa soltanto di trovare dei “colpevoli”, siano essi volontari o
involontari, diretti o indiretti, lasciando da parte tutte le responsabilità
che possono avere gli Stati e le istituzioni di potere, nonché i gruppi sociali
dominanti di una determinata società.
Ormai, come ognuno si sarà certamente
accorto, le parole non hanno più alcun significato. La Chiesa è disposta ad
affermare tutto ed il contrario di tutto, cioè tutto quanto fa parte del suo
impianto strettamente conservatore e, per essere più credibile, alcune cose che
fanno parte dell’ideologia laica e democratica.
Il problema non sta più nella scelta delle
parole, ma solo nell’atteggiamento che il credente deve tenere nei confronti
della Chiesa. E l’atteggiamento giusto, a quanto pare, visto che nessun alto
esponente della Curia vaticana l’ha contestato, può essere considerato quello
delle cattolicissime Filippine, il cui Parlamento, il 23 febbraio 1993, ha
reintrodotto, nonostante l’opposizione della Conferenza Episcopale
Filippina, la pena di morte, dopo averla abolita nel 1987, proprio facendo
leva sulle affermazioni del Catechismo Universale.
Contenuti
tratti da: http://www.homolaicus.com/teorici/wojtyla/pena_morte.htm
Pigrizia intellettuale e teoria della
responsabilità sociale
In un paese dove vige la pena di morte che
senso può avere la teoria del ragionevole dubbio? Non è forse una
contraddizione in termini?
Se anche dal punto di vista tecnico/materiale,
non vi fossero dubbi circa la consapevolezza di una persona da condannare a
morte, chi ci assicura che non esisterebbero dubbi dal punto di vista morale?
Come si può pensare che un individuo sano
di mente possa compiere un delitto nella più assoluta libertà di scelta?
Se una persona fosse assolutamente libera
di scegliere perché dovrebbe scegliere una cosa che le farebbe perdere la
libertà?
Nessuno vive così isolato dagli altri da
poter dire con sicurezza: “Ho scelto liberamente, senza condizionamenti
di sorta”. Chi vivesse isolato dal mondo, probabilmente, non si porrebbe
neanche il problema di compiere un delitto. Non ne avrebbe motivo. A meno che
l’isolamento non fosse una sorta di punizione inflitta in precedenza: il che
potrebbe portare a risentimenti e a esigenze di vendetta personale.
Viviamo in una società in cui i
condizionamenti sono reciproci: dunque, per quale motivo quando si tratta di
giudicare qualcuno, lo consideriamo come un individuo isolato e lo carichiamo
di responsabilità più grandi di quelle che potrebbe avere nella vita reale?
Gli uomini vivono assieme come tanti
individui isolati: costituiscono una comunità per via indotta,
involontariamente, non per libera scelta (questo senza considerare che la
comunità dovrebbe far parte in maniera naturale della vita di una persona, sin
dalla sua nascita). Nella vita reale, non si è capaci di assumere
reciprocamente le responsabilità altrui. Sicché quando qualcuno commette un
reato, viene lasciato solo, con tutte le sue responsabilità.
Eppure, l’isolamento che si vive in
società è anch’esso una forma di condizionamento, un peso da sopportare. Si
possono commettere azioni criminose non perché si è isolati dalla società,
ma proprio perché si è isolati nella società.
Il crimine è sempre frutto di un
condizionamento sociale: ecco perché, indirettamente, si è tutti colpevoli. Il
crimine dovrebbe essere considerato come occasione per ripensare i criteri del
vivere civile.
Insomma, la teoria del ragionevole dubbio
dovrebbe spingersi sino al concorso morale, indiretto, che può avere la società
nei confronti dell’imputato che ha commesso un reato.
Anche la teoria della presunzione
d’innocenza, in tal senso, andrebbe rivista. Non ha senso sostenere che uno è
innocente finché non si è dimostrata la colpevolezza. Bisognerebbe anzi
sostenere il contrario e, cioè, che in un modo o nell’altro siamo tutti colpevoli
e che quando si tratta di giudicare qualcuno, anzitutto, bisognerebbe chiedersi
che cosa si è fatto per impedire che un determinato reato venisse compiuto.
Bisognerebbe partire da premesse di
colpevolezza sociale, in modo da non far sentire l’imputato un individuo
isolato, un estraniato.
Questo, ovviamente, non significa che il
reato non deve essere punito o che bisogna essere pietisti ad oltranza.
Significa, semplicemente, che, nei confronti del reato, bisogna assumere un
atteggiamento pedagogico.
Il reato è un indizio di malessere
sociale. Dall’analisi dei sintomi, bisogna saper trovare una terapia per
vincere un male che ha radici nella società e nella sua cultura.
Dobbiamo abituarci a considerare i
condizionamenti sociali non come un limite alla libertà, ma come il fondamento
su cui la libertà và costruita.
Siamo liberi, appunto, perché
condizionati.
Il nostro compito è quello di rendere
positivi questi condizionamenti, affinché siano utili alla libertà.
Contenuti
tratti da: http://www.homolaicus.com/teorici/wojtyla/pena_morte.htmL’insegnamento tradizionale della Chiesa
non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della
responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa
fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto
la vita di esseri umani.
Da fonti varie,
a cura di Nino Caliendo
Nella Bibbia
Nella Bibbia sono elencate situazioni in
cui, nelle leggi che Dio dà a Mosé per esporle al popolo ebraico, si stabilisce
la pena capitale come punizione per determinate colpe. Ad esempio, nell’Antico
Testamento è scritto:
“Colui che colpisce un uomo causandone la
morte, sarà messo a morte “ (Esodo 21,12).
Nell’Antico Testamento (Genesi, 2,12-15)
esistono alcuni passi in cui Dio condanna la vendetta umana, minacciando
punizioni peggiori (“sette volte” e
“settanta volte sette”) per chi avesse ucciso Caino e Lamech.
Diversi passi, in prevalenza dell’Antico
Testamento, affermano la legittimità della pena di morte quando è violata la
legge di Mosé. A questi si aggiungono gli episodi di guerra e della storia del
popolo eletto, dove i nemici periscono per volontà divina. Riguardo alla
violazione della legge ebraica, nella Lettera agli Ebrei 10,28: “Quando
qualcuno ha violato la legge di Mosé, viene messo a morte senza pietà sulla
parola di due o tre testimoni”. In Levitico 24,16 viene messo a morte “Chi
bestemmia il nome del Signore”, in Levitico 20,10 chi commette adulterio,
in 27,29 “Nessuna persona votata allo sterminio potrà essere
riscattata; dovrà essere messa a morte” e in Levitico 24,17 “Chi
percuote a morte un uomo”. In Esodo 21,17 viene messo a morte chi maledice
il padre o la madre.
Il passo è ripreso nel Nuovo Testamento,
da Vangelo di Marco 7,10: “…infatti disse: Onora tuo padre e tua madre,
e chi maledice il padre e la madre sia messo a morte”. In Numeri 35,30, si
afferma che non si può accettare un prezzo di riscatto da un omicida: “Se
uno uccide un altro, l’omicida sarà messo a morte in seguito a deposizione di
testimoni, ma un unico testimone non basterà per condannare a morte una
persona. Non accetterete prezzo di riscatto per la vita di un omicida, reo di
morte, perché dovrà essere messo a morte”.
La morte del colpevole avveniva per
lapidazione. Questa forma di esecuzione coinvolge tutta la comunità locale
adulta, che collettivamente è chiamata ad applicare la legge, e risparmia
l’individuazione di un singolo come boia.
Nel Nuovo Testamento, Gesù richiama più
volte al perdono e condanna l’episodio della lapidazione della donna adultera:
“Chi di voi è senza
peccato, scagli per primo la pietra contro di lei” (Giovanni
8,7).
Pensatori cristiani
Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino
sostengono la liceità della pena di morte sulla base del concetto della
conservazione del bene comune. L’argomentazione di Tommaso d’Aquino è la
seguente:
“Come è lecito, anzi
doveroso, estirpare un membro malato per salvare tutto il corpo, così quando
una persona è divenuta un pericolo per la comunità o è causa di corruzione
degli altri, essa viene eliminata per garantire la salvezza della comunità” (Summa
theologiae II-II, q. 29, artt. 37-42).
Il teologo sosteneva, tuttavia, che la
pena andasse inflitta solo al colpevole di gravissimi delitti, mentre,
all’epoca, veniva utilizzata con facilità e grande discrezionalità.
Lo Stato pontificio ha mantenuto nel suo
ordinamento la pena di morte fino al XX secolo.
Dottrina cattolica odierna
Il Catechismo della Chiesa
Cattolica (1997) parla della pena di morte all’interno della
trattazione sul quinto comandamento, “Non uccidere” e, più
specificamente, nel sottotitolo che tratta della legittima difesa.
In questo contesto dice (n. 2266-2267):
“2266: Corrisponde ad un’esigenza
di tutela del bene comune lo sforzo dello Stato inteso a contenere il
diffondersi di comportamenti lesivi dei diritti dell’uomo e delle regole
fondamentali della convivenza civile. La legittima autorità pubblica ha il
diritto ed il dovere di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto.
La pena ha innanzi tutto lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla
colpa. Quando è volontariamente accettata dal colpevole, essa assume valore di
espiazione. La pena poi, oltre che a difendere l’ordine pubblico e a tutelare
la sicurezza delle persone, mira ad uno scopo medicinale: nella misura del
possibile, essa deve contribuire alla correzione del colpevole”.
“2267: L’insegnamento tradizionale
della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della
responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa
fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto
la vita di esseri umani.
Se invece i mezzi incruenti sono
sufficienti per difendere dall’aggressore e per proteggere la sicurezza delle
persone, l’autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio
rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla
dignità della persona umana…”
La pena di morte in Città del Vaticano
venne rimossa dalla Legge Fondamentale solo il 12 febbraio
2001, forse per convenienza UE, visto che l’Unione Europea non ammette la pena
capitale e, di conseguenza, gli Stati che la prevedono.
Nel giugno 2004, l’allora cardinale Joseph
Ratzinger, attuale papa Benedetto XVI, inviò, in qualità di prefetto
della Congregazione per la Dottrina della Fede, una lettera al
cardinale Theodore Edgar McCarrick, – arcivescovo di Washington, – e
all’arcivescovo Wilton Daniel Gregory, – presidente della Conferenza Episcopale
degli Stati Uniti, – nella quale affermava che può tuttavia essere
consentito [...] fare ricorso alla pena di morte
Contenuti
tratti da: http://it.wikipedia.org/wiki/Pena_di_morte
Se l’art. 2261 del Nuovo Catechismo
afferma che: “La Scrittura precisa la proibizione del quinto comandamento:
non far morire l’innocente e il giusto” (Es 23,7), è consequenziale
che: “Il comandamento ‘Non uccidere’ ha valore assoluto quando si
riferisce alla persona innocente” (Evangelium vitae, n° 57) e
valore relativo quando si riferisce alla persona colpevole.
Infatti, l’art. 2267 del Nuovo Catechismo
conferma che: “L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude,
supposto il pieno accertamento dell’ identità e della responsabilità del
colpevole, il ricorso alla pena di morte”.
La Chiesa, dunque, riconosce all’autorità
pubblica il potere di applicare la pena di morte, nei confronti delle persone
colpevoli, perché la “Scrittura” e, più precisamente, il versetto 7 del
capitolo 23 dell’Esodo “non far morire l’innocente e il giusto“,
preciserebbe che il comandamento “Non uccidere” è stato
formulato da Dio per proteggere la vita delle persone innocenti, ma non le
colpevoli.
Ma la Chiesa è proprio certa che questa
dottrina così inumana sia conforme alla legge divina e non sia, piuttosto,
frutto di conformazione umana?
Se di fronte alla legge umana, tutte le persone
sono considerate uguali: “La legge è uguale per tutti”, quanto più,
tutte le persone, dovrebbero essere considerate uguali di fronte alla legge di
Dio, che possiede carattere universale?
Mentre, per il Catechismo, di fronte alla
legge divina: “Non uccidere”, le persone non sono considerata tutte
uguali, ma, a priori, separate le buone dalle cattive e proprio le cattive, per
le quali Dio ha istituita la legge, defraudate dai benefici.
In realtà, la “Scrittura” di cui parla il
Catechismo, che “precisa la proibizione del quinto comandamento”, si riduce ad
un versetto dell’Antico Testamento: “Non far morire l’innocente e il
giusto“, formulato, peraltro, in modo incompleto, infatti, citato per
intero: “Starai lontano dalla parola falsa e non ucciderai l’innocente
e il giusto perché io non dichiaro giusto il colpevole“ (Es 23,7),
rivela la vera intenzione dell’autore sacro, che non è certo quella di voler
precisare la proibizione del quinto comandamento, come dichiara il Catechismo,
ma formare le coscienze umane al giusto comportamento morale che devono
assumere i soggetti giuridici nell’ambito di un processo penale: Dio vieta,
categoricamente, ai giudici e ai testimoni, di ricorrere a parole false per
deviare il corso della giustizia, provocando la condanna dell’innocente e
l’assoluzione del colpevole. Intenzione che, l’autore sacro sottolinea anche
con il versetto precedente: “Non farai deviare il giudizio del povero,
che si rivolge a te nel suo processo“ (Es 23,6).
Tra l’altro, non spetta all’Antico Testamento
stabilire le verità divine in materia di fede e di morale, ma al Nuovo
Testamento e in esso non vi è un solo versetto che autorizzi la Chiesa a
legittimare la pena di morte, una pena di natura vendicativa, assolutamente
contraria al perdono, il quale costituisce il DNA dello spirito cristiano.
Unitamente alla pena di morte, anche la
“tortura” è stata sempre considerata dalla Chiesa moralmente lecita: solo con
il Concilio Vaticano II è stata, finalmente, esclusa e
condannata.
Intanto, prima che fosse rigettata, un
numero infinito di persone, che solo Dio conosce, ha dovuto soffrire atrocità
incredibili e tante di esse sono morte a causa di questa dottrina legittimata
dalla Chiesa.
Ora, però, che il Concilio si
è espresso in modo autentico e ufficiale contro tutte: “…le torture
inflitte al corpo alla mente…ledono grandemente l’onore del creatore” (Gaudim
et spes n° 27) può la Chiesa continuare a considerare lecita la pena di morte?
Non è forse la pena di morte una pratica di tortura inflitta al corpo e alla
mente?
Da: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3721
Il Catechismo e la pena di morte
Cesare Beccaria, a proposito della pena di
morte, nel pamphlet “Dei delitti e delle pene”, nel 1764,
scriveva: “Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della
pubblica volontà, che detestano e puniscano l’omicidio, ne commettano uno esse
medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordini un pubblico
assassinio”.
Il Granducato di Toscana, nel 1786, fu il
primo Stato al mondo ad abolire la pena di morte.
Su iniziativa dell’Italia, l’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite, il 18 Dicembre 2007, ha approvato la risoluzione per
la moratoria universale contro la pena di morte nel mondo.
Ma, il punto 2267 de “Il nuovo
catechismo della Chiesa cattolica” (1992, rivisto nel 1999) così
recita:
“L’insegnamento tradizionale della Chiesa
non esclude (…) il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via
praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di
esseri umani (…). Oggi (…) i casi di assoluta necessità di soppressione del reo
sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti” (quest’ultimo
paragrafo, aggiunto successivamente, proviene dall’enciclica di Giovanni Paolo
II “Evangelium vitae” del 1995).
Ecco l’assurdo! La Chiesa, nella sua dottrina
fondamentale, il Catechismo, mantiene ancora la pena di morte,
anche se edulcorata dall’aggiunta di un paragrafetto dell’enciclica sopradetta.
Le lancette del tempo sembrano essersi
fermate, meno male che la… Santa Inquisizione è lontana!
Eppure, nel Nuovo testamento, Gesù invoca il perdono nell’episodio
della lapidazione della donna adultera: “Chi di voi è senza peccato,
scagli per primo la pietra contro di lei” (Giovanni 1 cap 8,
7).
E Giovanni Paolo II dichiara, durante la
visita negli USA, che la Chiesa è “incondizionatamente a favore della
vita” e che, essendo la nostra società “in possesso dei mezzi
per proteggersi (…), la pena si morte è crudele e non necessaria”.
Insomma, sembra l’applicazione completa
del V comandamento: non uccidere. Ma non è così. Infatti, quando si
afferma che sono rari i casi “di assoluta necessità di soppressione del
reo”, si ammette che in qualche caso la pena di morte è riconosciuta.
Qualcuno scrive che questo vale per
la legittima difesa (punto 2266). Ma quanti innocenti,
nel Far West del mondo civilizzato, vengono uccisi in nome
della legittima difesa? Quando, allora, si può parlare di legittima
difesa, ovvero quale tipo di reato autorizza alla pena capitale?
E, se “la pena di morte è crudele
e non necessaria”, perché viene ancora mantenuto nel Catechismo il punto
2267, che rappresenta un affronto all’etica del perdono e della misericordia e
lascia l’impressione che si possa, in qualche caso, utilizzarlo?
di Governanti
- www.governanti.blogspot.com
Il Catechismo Universale e la pena di
morte
Si è fatto un gran discutere, in ambienti
pacifisti e non-violenti, come, ad esempio Amnesty International,
circa le motivazioni che possono aver indotto la chiesa cattolica ad accettare
– come risulta dal paragrafo 2266 del recente Catechismo Universale (CCC)
– la pena di morte, seppure “in casi di estrema gravità”.
Vediamo le prime.
Al paragrafo 2259, dicono gli autori del
CCC: “La Scrittura, nel racconto dell’uccisione di Abele da parte del
fratello Caino, rivela, fin dagli inizi della storia umana, la presenza
nell’uomo della collera e della cupidigia, conseguenze del peccato originale”.
Il riferimento al cosiddetto “peccato
originale”, ogni qualvolta si deve cercare di spiegare la causa di taluni
malesseri sociali, è praticamente una costante nella teologia cattolica.
Al paragrafo successivo gli autori
ricordano che “l’alleanza [vetero testamentaria] di
Dio e dell’umanità è intessuta di richiami al dono divino della vita umana e
alla violenza omicida dell’uomo”(2260).
Dei due “richiami”, quello che più preme
sottolineare agli autori non è il primo, – come sarebbe naturale per una
istituzione (la Chiesa) che predica la legge dell’amore -, bensì il secondo. E
di questo l’aspetto da essi considerato più significativo non è tanto il puro e
semplice “divieto di non uccidere”, quanto piuttosto il divieto di
uccidere “l’innocente e il giusto” (2261): peccato, questo, “gravemente
contrario alla dignità dell’essere umano”.
Ora, proviamo a chiederci: per quale
ragione la chiesa cattolica ritiene che “l’uccisione volontaria di un
innocente è gravemente contraria alla dignità dell’essere umano” (2261)?
Cioè, per quale ragione essa non si limita ad affermare che l’essere umano in
quanto tale, santo o peccatore che sia, non meriterebbe mai di morire in modo
violento?
La Chiesa Romana, – qui autorevolmente
rappresentata da un Catechismo Universale, -non è in grado di trarre le logiche
conseguenze dalla sua teoria del peccato originale, perché finirebbe in un
groviglio inestricabile di contraddizioni. A noi, invece, interessa mettere in
luce il seguente, inevitabile, sillogismo: se la natura umana è intrinsecamente
malvagia, allora anche Abele era “colpevole”, ma se egli era “colpevole”,
il delitto di Caino, in sé pur grave, va ricompreso sulla base di ogni
possibile attenuante, onde ostacolarne la reiterazione. Qui, naturalmente, non
è il caso di verificare ciò che Caino e Abele simbolicamente rappresentavano
nel racconto del Genesi. Dobbiamo limitarci a considerazioni astratte.
Quel che è certo è che nel racconto
biblico la “dignità dell’essere umano” dipendeva da altro
rispetto alla legge, poiché Caino fu punito prima che venisse formulato il
divieto del quinto comandamento.
Non solo, ma egli venne “marchiato” proprio
per impedire che qualcuno commettesse un secondo delitto, cioè che usasse
vendetta contro di lui. Se a quel tempo avessero dato per scontata l’intrinseca
malvagità umana, alla prima manifestazione di questa non ci sarebbe stata altra
soluzione che l’esecuzione capitale.
Sicché si può tranquillamente affermare
con A. Schenker che ai tempi di Caino era la dignità dell’uomo ad essere
considerata intrinseca all’uomo stesso. Il peccato originale, cioè la
violazione delle modalità del comunismo primitivo, se comportò la nascita
dell’individualismo, non determinò affatto l’impossibilità di opporvisi. Ancora
non esistevano né l’idea dell’espiazione né il principio della retribuzione
come base del sistema della pena. Il divieto di uccidere Caino sta appunto a
testimoniare che, nonostante l’emergere dell’individualismo, i princìpi
democratici del collettivismo non erano stati dimenticati.
Viceversa, il divieto mosaico fa la sua
comparsa in un contesto dove, evidentemente, per rispettare la persona non era
più sufficiente rifarsi alle tradizioni orali, ma occorreva una legge scritta:
segno, questo, che il distacco dai princìpi del comunismo primitivo era
diventato progressivo, forse irreversibile. Di qui, l’esigenza d’imporre al
colpevole una pena proporzionata e di risarcire la vittima del danno subìto. La
giustizia, sempre meno possibile sul piano sociale, doveva almeno apparire su
quello giuridico, cioè su quello formale della legge.
Ora, prima di rispondere adeguatamente
alla domanda che sopra ci siamo posti, dobbiamo continuare a ripercorrere
l’analisi del CCC, che si sposta dall’Antico Testamento (A.T.) al Nuovo,
esaminando la figura chiave di Gesù Cristo.
Per gli autori del CCC, Cristo non sarebbe
che un “nuovo Abele” che porge l’altra guancia, ama i propri nemici, non si
difende da chi lo accusa ingiustamente. etc (2262).
Dopo aver dedicato tre paragrafi (2259-61)
al V.T., il CCC ne dedica uno solo al Nuovo. Perché? Semplicemente perché si
vuole far apparire il Cristo come un “perfezionatore” del divieto mosaico.
Pur di dimostrare che l’uomo è
intrinsecamente malvagio, Cristo, – secondo il CCC, – avrebbe non solo vietato
l’ira, l’odio e la vendetta, oltre che naturalmente l’omicidio, ma si sarebbe
anche offerto volontariamente come “agnello sacrificale” per i
peccati degli uomini. Egli dunque, in un certo senso, sarebbe stato vittima
della sua stessa “legge dell’amore assoluto”, che gli impediva di
trasformarsi in “giustiziere dei malvagi”.
Come si può notare, questa interpretazione
della vita di Cristo è assolutamente fantastica. La chiesa romana non ha qui
saputo cogliere la fondamentale differenza dalla legge mosaica che i vangeli
rappresentano, per i quali il “divieto di uccidere” è una
contraddizione in termini, finché non si pongono le basi sociali che tolgano al
delitto le sue motivazioni di fondo.
In effetti, se nel mentre si pone il
divieto non ci si preoccupa di creare una società veramente democratica, quel
divieto, alla lunga, non sortirà alcun effetto. E, viceversa, se si ha quella
preoccupazione, il divieto è altrettanto inutile, poiché non sarà in virtù di
esso che i cittadini si comporteranno in maniera non-violenta.
A parte questo, la Chiesa Romana non ha
mai neppure capito (o non lo ha mai voluto capire) il motivo per cui il Cristo
si lasciò giustiziare senza reagire. Lungi dal pensare che il potere dominante
avrebbe più facilmente rinunciato al proprio arbitrio, vedendo un innocente
salire tranquillamente sul patibolo, il Cristo deve, invece, aver atteso
(invano, purtroppo) che la propria liberazione fosse il frutto di una
convinzione largamente popolare, solo in virtù della quale si sarebbe sia
potuto vincere il dominio romano che costruire una nuova società civile.
Imporre il proprio progetto democratico
con colpi di stato, atti terroristici e cose simili non avrebbe certo
significato realizzare un’alternativa alla logica del potere dominante (romano
o ebraico che fosse).
Ora, finalmente, possiamo rispondere alla
suddetta domanda, se il lettore non l’ha già fatto per contro proprio. La
Chiesa è favorevole alla pena di morte sostanzialmente per questa ragione di
tipo “etico-religioso”: essendo la natura dell’uomo intrinsecamente malvagia,
la società ha il diritto, nei confronti di chi cerca di contenere tale
malvagità in una condotta il più possibile irreprensibile e, nonostante questo,
viene ucciso, di considerare la sua morte un delitto assolutamente
imperdonabile.
In altre parole, è intollerabile per la
chiesa veder uccidere un “innocente”, colui cioè che, meglio di altri, combatte
contro gli effetti deleteri del peccato originale (ma anche colui che, essendo
ancora troppo giovane d’età, non ha potuto sperimentare su di sé gli effetti o
le tentazioni di quella colpa). “L’omicida e coloro che volontariamente
cooperano all’uccisione commettono un peccato che grida vendetta al cielo”,
specie nei casi di “infanticidio, fratricidio, parricidio e uccisione
del coniuge” (2268).
Si deve, però, andare al paragrafo 1867
per accorgersi che fra i “peccati che gridano al cielo” non vi è solo
l’omicidio di Abele o la licenziosità dei Sodomiti, ma anche “il
lamento del popolo oppresso in Egitto; il lamento del forestiero, della vedova
e dell’orfano”. Infine, “l’ingiustizia verso il salariato”.
Ma, la cosa più singolare di tutta questa
esegesi del CCC, circa il divieto mosaico e la morte di Gesù, è che nella
seconda parte del capitolo (quella dedicata alla “legittima difesa”)
– e qui veniamo alla motivazione più propriamente politica, – la Chiesa romana,
servendosi delle sentenze dell’Aquinate, arriva a formulare cose del
tutto antievangeliche, che peggiorano persino la durezza della legge mosaica,
la quale prevedeva la pena di morte per i trasgressori di alcuni comandamenti.
Sulla base della motivazione vista sopra,
la Chiesa non ha espresso un parere chiaramente favorevole alla pena di morte.
Essa, infatti, si rende conto che, in quanto istituzione “religiosa”,
dev’essere sempre pronta al perdono.
Tuttavia, la trattazione religiosa
dell’argomento è stata condotta con abile maestria, evitando di esprimere
“giudizi di valore” categorici, sia per mostrare che il divieto mosaico “ha
una validità universale: obbliga tutti e ciascuno, sempre e dappertutto” (2261),
per cui la sua trasgressione non può che comportare gravissime conseguenze, sia
per suscitare nel lettore un senso di forte riprovazione nei confronti del
fatto che, nonostante la palese innocenza di Gesù, vi furono ugualmente delle
persone disposte a crocifiggerlo.
Come restare indifferenti al cospetto di
un’ingiustizia così grande? Il fatto che Cristo non abbia voluto difendersi,
non implica che nessuno debba farlo. Ciò che sul piano etico-religioso può
apparire inaccettabile, può non esserlo sul piano gius-politico.
Infatti, “l’amore verso se stessi
resta un principio fondamentale della moralità. E’, quindi, legittimo far
rispettare il proprio diritto alla vita”, “poiché, – come dice
Tommaso d’Aquino, – un uomo è tenuto di più a provvedere alla propria
vita che alla vita altrui” (2264).
Curiosa questa citazione
dell’illustre Dottore della Chiesa. Egli ha, senza dubbio, ragione
quando afferma che “se nel difendere la propria vita uno usa maggiore
violenza del necessario, il suo atto è illecito”. Ma che dire del fatto che
la legittima difesa venga invocata per tutelare un diritto esclusivamente
soggettivo? Da una Chiesa che pretende di fare dell’ideale “divino” la
sua raison d’être, sinceramente, ci si aspettava qualcosa di più
sublime.
In effetti, se la legittima difesa è il
modo migliore per garantire un proprio diritto, cosa dover pensare di quanti,
nella storia, vi hanno rinunciato per poter meglio affermare un “bene
comune”, cioè un valore, un ideale, un “diritto”, se si vuole,
o, comunque, una causa non puramente soggettiva? Cosa pensare di coloro che,
liberamente e consapevolmente, non perché desiderosi di morire martiri à
tout prix, hanno preferito l’idea del sacrificio personale a quella della
legittima difesa? Erano pazzi, ingenui, illusi o che altro? Il valore etico
(umano, ontologico) di una scelta esistenziale, può essere misurato in termini
meramente giuridici?
Quando poi ci si addentra sul piano più
propriamente politico-istituzionale, i limiti della chiesa cattolica si
evidenziano in tutta la loro crudezza. Se già avevamo messo in dubbio il valore
assoluto della legittima difesa (che va comunque salvaguardata) in nome
dell’interesse soggettivo, ora ci pare ancor più fuorviante l’affermazione
secondo cui la legittima difesa va considerata anche come un dovere da parte di
chi “è responsabile della vita altrui” (2265).
Come spesso succede le parole che si usano
non hanno mai un senso univoco, inequivocabile, ma sono sempre soggette a
fraintendimenti, anche quando si cerca di essere il più possibile aderenti alla
realtà, il più possibile “scientifici”: cioè, esiste sempre la
possibilità di dare alle parole un senso opposto a quello voluto, anche contro
la propria volontà, o, comunque, esiste sempre la possibilità che qualcuno non
ci capisca o non ci voglia capire. E così qui: chi metterebbe in dubbio che le
autorità costituite hanno il dovere di usare lo strumento della legittima
difesa per tutelare l’incolumità (non solo fisica) dei propri cittadini? Ma se
noi dicessimo: le autorità costituite, nell’adempiere al dovere di difendere i
cittadini, hanno il diritto di sostituirsi alla loro volontà, non susciteremmo
forse delle perplessità?
La frase incriminata dalle associazioni
pacifiste è stata la seguente: “la chiesa ha riconosciuto fondato [sottinteso:
"da sempre"] il diritto e il dovere della legittima [o
semplicemente "costituita"?] autorità pubblica di infliggere
pene proporzionate alla gravità del delitto, senza escludere, in casi di
estrema gravità, la pena di morte” (2266).
Si noti il sofisma dell’espressione “pene
proporzionate”: forse il popolo può impedire, nella concezione politica
della Chiesa, che lo Stato usi pene sproporzionate? E come lo potrebbe, visto e
considerato che, per la Chiesa, lo Stato è soggetto non alla “volontà
popolare”, ma solo alle “leggi” (1903), che devono essere
conformi a “un ordine prestabilito da Dio” (1901)?
Se la “volontà popolare” fosse
il principio fondamentale dello “Stato di diritto”, la pena di
morte potrebbe forse essere considerata una “pena proporzionata” a
un qualche particolare delitto? Sarebbe forse giusto dare per scontato che, ad
un certo punto, bisogna assolutamente negare al colpevole qualunque possibilità
di pentimento, ritenendolo unico vero responsabile del suo crimine? E’ forse
questo l’insegnamento del Cristo nell’episodio della “donna adultera” (Gv.
8,1ss.)?
Il fatto è che, – secondo gli autori
del CCC, – la società (e, quindi, la Chiesa) deve, comunque, difendersi da chi
la minaccia con l’uso della forza. Su questo, il CCC è molto esplicito: “i
detentori dell’autorità [qui considerati "sacri e inviolabili"] hanno
il diritto di usare le armi per respingere gli aggressori della comunità
civile…” (2266).
La chiesa non vuole prospettare, neanche
sul piano ipotetico, l’idea che gli aggressori si comportino così proprio
perché si appellano al principio della “legittima difesa” e
che i veri aggressori possano in realtà essere le stesse autorità
costituite. “La pena ha lo scopo di difendere l’ordine pubblico e la
sicurezza delle persone” (2266), sentenzia il CCC. Non ha, quindi,
senso chiedersi se tale difesa sia “sempre” lecita o se non sia meglio mettere
in discussione il valore del cosiddetto “ordine pubblico”.
Thomas More, martire della libertà di
coscienza, santificato dalla Chiesa romana nel 1935, disse nella sua Utopia:
gli Stati fondati sulla proprietà privata e il denaro “allevano dei
ladri per poi punirli con la morte”.
F. Engels, tre secoli dopo, dirà la stessa
cosa in La situazione della classe operaia in Inghilterra: “Se
la società toglie a migliaia di individui il necessario per l’esistenza…; se
mediante la forza della legge li costringe a rimanere in tali condizioni,
finché non sopraggiunga la morte… questo è assassinio… contro il quale nessuno
può difendersi… perché non si vede l’assassino, perché questo assassino sono
tutti e nessuno, perché la morte della vittima appare come una morte naturale e
perché esso non è tanto un peccato di opera, quanto un peccato di omissione”.
Naturalmente, gli esegeti più ipocriti
sostengono che la Chiesa si limita a “riconoscere” agli Stati l’uso estremo
della pena di morte, senza farsi sua diretta sostenitrice. Ciò in realtà è
falso, sia perché la Chiesa ha abolito, de jure, in Vaticano tale
forma di condanna solo nel 1969 (per comodità affaristica di riconoscimenti
nell’Unione Europea), sia perché la necessità di tale pena si evince, – come si
è visto, – dai suoi stessi argomenti di tipo religioso, sia perché, infine, il
Vaticano assai raramente (o mai?) si è pronunciato contro gli Stati che
comminano sentenze capitali (opposizioni alla pena di morte è possibile
riscontrarle solo in chiese locali o nazionali, come, ad esempio, nella Commissione
per la Vita della Conferenza Episcopale Cattolica degli USA).
In realtà, a queste conclusioni assai poco
democratiche, si perviene quando il problema della responsabilità penale viene
affrontato in termini puramente idealistici o giuridici, senza tener conto di
alcun riferimento storico o sociale concreto.
“La pena, –
dice il CCC, – ha valore di espiazione” (2266), in quanto
il colpevole è solo colpevole. Il riferimento qui
và soprattutto al caso dell’omicidio volontario, per il quale non esistono
attenuanti. Solo quando si parla di quello involontario (come se, sul piano
etico, si potesse fare una distinzione così precisa), gli autori del CCC fanno
un’annotazione complementare usando i caratteri piccoli: “Tollerare, –
viene detto, – da parte della società umana, condizioni di miseria che
portano alla morte senza che ci si sforzi di porvi rimedio, è una scandalosa
ingiustizia e una colpa grave”(2269). La Chiesa qui intende riferirsi a
coloro che usano “pratiche usuraie e mercantili”. Costoro,
indirettamente (solo indirettamente in una società capitalistica?) “commettono
un omicidio”.
Il CCC, insomma, non si preoccupa di
“capire” il crimine di chi, sottoposto a condizioni di vita disumane, reagisce
istintivamente facendosi giustizia da sé. Non si preoccupa minimamente di
giustificare coloro che, sottoposti alle medesime condizioni, ad un certo punto
decidono di organizzarsi politicamente per rovesciare i poteri costituiti. Si
preoccupa soltanto di trovare dei “colpevoli”, siano essi volontari o
involontari, diretti o indiretti, lasciando da parte tutte le responsabilità
che possono avere gli Stati e le istituzioni di potere, nonché i gruppi sociali
dominanti di una determinata società.
Ormai, come ognuno si sarà certamente
accorto, le parole non hanno più alcun significato. La Chiesa è disposta ad
affermare tutto ed il contrario di tutto, cioè tutto quanto fa parte del suo
impianto strettamente conservatore e, per essere più credibile, alcune cose che
fanno parte dell’ideologia laica e democratica.
Il problema non sta più nella scelta delle
parole, ma solo nell’atteggiamento che il credente deve tenere nei confronti
della Chiesa. E l’atteggiamento giusto, a quanto pare, visto che nessun alto
esponente della Curia vaticana l’ha contestato, può essere considerato quello
delle cattolicissime Filippine, il cui Parlamento, il 23 febbraio 1993, ha
reintrodotto, nonostante l’opposizione della Conferenza Episcopale
Filippina, la pena di morte, dopo averla abolita nel 1987, proprio facendo
leva sulle affermazioni del Catechismo Universale.
Contenuti
tratti da: http://www.homolaicus.com/teorici/wojtyla/pena_morte.htm
Pigrizia intellettuale e teoria della
responsabilità sociale
In un paese dove vige la pena di morte che
senso può avere la teoria del ragionevole dubbio? Non è forse una
contraddizione in termini?
Se anche dal punto di vista tecnico/materiale,
non vi fossero dubbi circa la consapevolezza di una persona da condannare a
morte, chi ci assicura che non esisterebbero dubbi dal punto di vista morale?
Come si può pensare che un individuo sano
di mente possa compiere un delitto nella più assoluta libertà di scelta?
Se una persona fosse assolutamente libera
di scegliere perché dovrebbe scegliere una cosa che le farebbe perdere la
libertà?
Nessuno vive così isolato dagli altri da
poter dire con sicurezza: “Ho scelto liberamente, senza condizionamenti
di sorta”. Chi vivesse isolato dal mondo, probabilmente, non si porrebbe
neanche il problema di compiere un delitto. Non ne avrebbe motivo. A meno che
l’isolamento non fosse una sorta di punizione inflitta in precedenza: il che
potrebbe portare a risentimenti e a esigenze di vendetta personale.
Viviamo in una società in cui i
condizionamenti sono reciproci: dunque, per quale motivo quando si tratta di
giudicare qualcuno, lo consideriamo come un individuo isolato e lo carichiamo
di responsabilità più grandi di quelle che potrebbe avere nella vita reale?
Gli uomini vivono assieme come tanti
individui isolati: costituiscono una comunità per via indotta,
involontariamente, non per libera scelta (questo senza considerare che la
comunità dovrebbe far parte in maniera naturale della vita di una persona, sin
dalla sua nascita). Nella vita reale, non si è capaci di assumere
reciprocamente le responsabilità altrui. Sicché quando qualcuno commette un
reato, viene lasciato solo, con tutte le sue responsabilità.
Eppure, l’isolamento che si vive in
società è anch’esso una forma di condizionamento, un peso da sopportare. Si
possono commettere azioni criminose non perché si è isolati dalla società,
ma proprio perché si è isolati nella società.
Il crimine è sempre frutto di un
condizionamento sociale: ecco perché, indirettamente, si è tutti colpevoli. Il
crimine dovrebbe essere considerato come occasione per ripensare i criteri del
vivere civile.
Insomma, la teoria del ragionevole dubbio
dovrebbe spingersi sino al concorso morale, indiretto, che può avere la società
nei confronti dell’imputato che ha commesso un reato.
Anche la teoria della presunzione
d’innocenza, in tal senso, andrebbe rivista. Non ha senso sostenere che uno è
innocente finché non si è dimostrata la colpevolezza. Bisognerebbe anzi
sostenere il contrario e, cioè, che in un modo o nell’altro siamo tutti colpevoli
e che quando si tratta di giudicare qualcuno, anzitutto, bisognerebbe chiedersi
che cosa si è fatto per impedire che un determinato reato venisse compiuto.
Bisognerebbe partire da premesse di
colpevolezza sociale, in modo da non far sentire l’imputato un individuo
isolato, un estraniato.
Questo, ovviamente, non significa che il
reato non deve essere punito o che bisogna essere pietisti ad oltranza.
Significa, semplicemente, che, nei confronti del reato, bisogna assumere un
atteggiamento pedagogico.
Il reato è un indizio di malessere
sociale. Dall’analisi dei sintomi, bisogna saper trovare una terapia per
vincere un male che ha radici nella società e nella sua cultura.
Dobbiamo abituarci a considerare i
condizionamenti sociali non come un limite alla libertà, ma come il fondamento
su cui la libertà và costruita.
Siamo liberi, appunto, perché
condizionati.
Il nostro compito è quello di rendere
positivi questi condizionamenti, affinché siano utili alla libertà.
Contenuti
tratti da: http://www.homolaicus.com/teorici/wojtyla/pena_morte.htmL’insegnamento tradizionale della Chiesa
non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della
responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa
fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto
la vita di esseri umani.
Da fonti varie,
a cura di Nino Caliendo
Nella Bibbia
Nella Bibbia sono elencate situazioni in
cui, nelle leggi che Dio dà a Mosé per esporle al popolo ebraico, si stabilisce
la pena capitale come punizione per determinate colpe. Ad esempio, nell’Antico
Testamento è scritto:
“Colui che colpisce un uomo causandone la
morte, sarà messo a morte “ (Esodo 21,12).
Nell’Antico Testamento (Genesi, 2,12-15)
esistono alcuni passi in cui Dio condanna la vendetta umana, minacciando
punizioni peggiori (“sette volte” e
“settanta volte sette”) per chi avesse ucciso Caino e Lamech.
Diversi passi, in prevalenza dell’Antico
Testamento, affermano la legittimità della pena di morte quando è violata la
legge di Mosé. A questi si aggiungono gli episodi di guerra e della storia del
popolo eletto, dove i nemici periscono per volontà divina. Riguardo alla
violazione della legge ebraica, nella Lettera agli Ebrei 10,28: “Quando
qualcuno ha violato la legge di Mosé, viene messo a morte senza pietà sulla
parola di due o tre testimoni”. In Levitico 24,16 viene messo a morte “Chi
bestemmia il nome del Signore”, in Levitico 20,10 chi commette adulterio,
in 27,29 “Nessuna persona votata allo sterminio potrà essere
riscattata; dovrà essere messa a morte” e in Levitico 24,17 “Chi
percuote a morte un uomo”. In Esodo 21,17 viene messo a morte chi maledice
il padre o la madre.
Il passo è ripreso nel Nuovo Testamento,
da Vangelo di Marco 7,10: “…infatti disse: Onora tuo padre e tua madre,
e chi maledice il padre e la madre sia messo a morte”. In Numeri 35,30, si
afferma che non si può accettare un prezzo di riscatto da un omicida: “Se
uno uccide un altro, l’omicida sarà messo a morte in seguito a deposizione di
testimoni, ma un unico testimone non basterà per condannare a morte una
persona. Non accetterete prezzo di riscatto per la vita di un omicida, reo di
morte, perché dovrà essere messo a morte”.
La morte del colpevole avveniva per
lapidazione. Questa forma di esecuzione coinvolge tutta la comunità locale
adulta, che collettivamente è chiamata ad applicare la legge, e risparmia
l’individuazione di un singolo come boia.
Nel Nuovo Testamento, Gesù richiama più
volte al perdono e condanna l’episodio della lapidazione della donna adultera:
“Chi di voi è senza
peccato, scagli per primo la pietra contro di lei” (Giovanni
8,7).
Pensatori cristiani
Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino
sostengono la liceità della pena di morte sulla base del concetto della
conservazione del bene comune. L’argomentazione di Tommaso d’Aquino è la
seguente:
“Come è lecito, anzi
doveroso, estirpare un membro malato per salvare tutto il corpo, così quando
una persona è divenuta un pericolo per la comunità o è causa di corruzione
degli altri, essa viene eliminata per garantire la salvezza della comunità” (Summa
theologiae II-II, q. 29, artt. 37-42).
Il teologo sosteneva, tuttavia, che la
pena andasse inflitta solo al colpevole di gravissimi delitti, mentre,
all’epoca, veniva utilizzata con facilità e grande discrezionalità.
Lo Stato pontificio ha mantenuto nel suo
ordinamento la pena di morte fino al XX secolo.
Dottrina cattolica odierna
Il Catechismo della Chiesa
Cattolica (1997) parla della pena di morte all’interno della
trattazione sul quinto comandamento, “Non uccidere” e, più
specificamente, nel sottotitolo che tratta della legittima difesa.
In questo contesto dice (n. 2266-2267):
“2266: Corrisponde ad un’esigenza
di tutela del bene comune lo sforzo dello Stato inteso a contenere il
diffondersi di comportamenti lesivi dei diritti dell’uomo e delle regole
fondamentali della convivenza civile. La legittima autorità pubblica ha il
diritto ed il dovere di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto.
La pena ha innanzi tutto lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla
colpa. Quando è volontariamente accettata dal colpevole, essa assume valore di
espiazione. La pena poi, oltre che a difendere l’ordine pubblico e a tutelare
la sicurezza delle persone, mira ad uno scopo medicinale: nella misura del
possibile, essa deve contribuire alla correzione del colpevole”.
“2267: L’insegnamento tradizionale
della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della
responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa
fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto
la vita di esseri umani.
Se invece i mezzi incruenti sono
sufficienti per difendere dall’aggressore e per proteggere la sicurezza delle
persone, l’autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio
rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla
dignità della persona umana…”
La pena di morte in Città del Vaticano
venne rimossa dalla Legge Fondamentale solo il 12 febbraio
2001, forse per convenienza UE, visto che l’Unione Europea non ammette la pena
capitale e, di conseguenza, gli Stati che la prevedono.
Nel giugno 2004, l’allora cardinale Joseph
Ratzinger, attuale papa Benedetto XVI, inviò, in qualità di prefetto
della Congregazione per la Dottrina della Fede, una lettera al
cardinale Theodore Edgar McCarrick, – arcivescovo di Washington, – e
all’arcivescovo Wilton Daniel Gregory, – presidente della Conferenza Episcopale
degli Stati Uniti, – nella quale affermava che può tuttavia essere
consentito [...] fare ricorso alla pena di morte
Contenuti
tratti da: http://it.wikipedia.org/wiki/Pena_di_morte
Se l’art. 2261 del Nuovo Catechismo
afferma che: “La Scrittura precisa la proibizione del quinto comandamento:
non far morire l’innocente e il giusto” (Es 23,7), è consequenziale
che: “Il comandamento ‘Non uccidere’ ha valore assoluto quando si
riferisce alla persona innocente” (Evangelium vitae, n° 57) e
valore relativo quando si riferisce alla persona colpevole.
Infatti, l’art. 2267 del Nuovo Catechismo
conferma che: “L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude,
supposto il pieno accertamento dell’ identità e della responsabilità del
colpevole, il ricorso alla pena di morte”.
La Chiesa, dunque, riconosce all’autorità
pubblica il potere di applicare la pena di morte, nei confronti delle persone
colpevoli, perché la “Scrittura” e, più precisamente, il versetto 7 del
capitolo 23 dell’Esodo “non far morire l’innocente e il giusto“,
preciserebbe che il comandamento “Non uccidere” è stato
formulato da Dio per proteggere la vita delle persone innocenti, ma non le
colpevoli.
Ma la Chiesa è proprio certa che questa
dottrina così inumana sia conforme alla legge divina e non sia, piuttosto,
frutto di conformazione umana?
Se di fronte alla legge umana, tutte le persone
sono considerate uguali: “La legge è uguale per tutti”, quanto più,
tutte le persone, dovrebbero essere considerate uguali di fronte alla legge di
Dio, che possiede carattere universale?
Mentre, per il Catechismo, di fronte alla
legge divina: “Non uccidere”, le persone non sono considerata tutte
uguali, ma, a priori, separate le buone dalle cattive e proprio le cattive, per
le quali Dio ha istituita la legge, defraudate dai benefici.
In realtà, la “Scrittura” di cui parla il
Catechismo, che “precisa la proibizione del quinto comandamento”, si riduce ad
un versetto dell’Antico Testamento: “Non far morire l’innocente e il
giusto“, formulato, peraltro, in modo incompleto, infatti, citato per
intero: “Starai lontano dalla parola falsa e non ucciderai l’innocente
e il giusto perché io non dichiaro giusto il colpevole“ (Es 23,7),
rivela la vera intenzione dell’autore sacro, che non è certo quella di voler
precisare la proibizione del quinto comandamento, come dichiara il Catechismo,
ma formare le coscienze umane al giusto comportamento morale che devono
assumere i soggetti giuridici nell’ambito di un processo penale: Dio vieta,
categoricamente, ai giudici e ai testimoni, di ricorrere a parole false per
deviare il corso della giustizia, provocando la condanna dell’innocente e
l’assoluzione del colpevole. Intenzione che, l’autore sacro sottolinea anche
con il versetto precedente: “Non farai deviare il giudizio del povero,
che si rivolge a te nel suo processo“ (Es 23,6).
Tra l’altro, non spetta all’Antico Testamento
stabilire le verità divine in materia di fede e di morale, ma al Nuovo
Testamento e in esso non vi è un solo versetto che autorizzi la Chiesa a
legittimare la pena di morte, una pena di natura vendicativa, assolutamente
contraria al perdono, il quale costituisce il DNA dello spirito cristiano.
Unitamente alla pena di morte, anche la
“tortura” è stata sempre considerata dalla Chiesa moralmente lecita: solo con
il Concilio Vaticano II è stata, finalmente, esclusa e
condannata.
Intanto, prima che fosse rigettata, un
numero infinito di persone, che solo Dio conosce, ha dovuto soffrire atrocità
incredibili e tante di esse sono morte a causa di questa dottrina legittimata
dalla Chiesa.
Ora, però, che il Concilio si
è espresso in modo autentico e ufficiale contro tutte: “…le torture
inflitte al corpo alla mente…ledono grandemente l’onore del creatore” (Gaudim
et spes n° 27) può la Chiesa continuare a considerare lecita la pena di morte?
Non è forse la pena di morte una pratica di tortura inflitta al corpo e alla
mente?
Da: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3721
Il Catechismo e la pena di morte
Cesare Beccaria, a proposito della pena di
morte, nel pamphlet “Dei delitti e delle pene”, nel 1764,
scriveva: “Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della
pubblica volontà, che detestano e puniscano l’omicidio, ne commettano uno esse
medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordini un pubblico
assassinio”.
Il Granducato di Toscana, nel 1786, fu il
primo Stato al mondo ad abolire la pena di morte.
Su iniziativa dell’Italia, l’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite, il 18 Dicembre 2007, ha approvato la risoluzione per
la moratoria universale contro la pena di morte nel mondo.
Ma, il punto 2267 de “Il nuovo
catechismo della Chiesa cattolica” (1992, rivisto nel 1999) così
recita:
“L’insegnamento tradizionale della Chiesa
non esclude (…) il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via
praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di
esseri umani (…). Oggi (…) i casi di assoluta necessità di soppressione del reo
sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti” (quest’ultimo
paragrafo, aggiunto successivamente, proviene dall’enciclica di Giovanni Paolo
II “Evangelium vitae” del 1995).
Ecco l’assurdo! La Chiesa, nella sua dottrina
fondamentale, il Catechismo, mantiene ancora la pena di morte,
anche se edulcorata dall’aggiunta di un paragrafetto dell’enciclica sopradetta.
Le lancette del tempo sembrano essersi
fermate, meno male che la… Santa Inquisizione è lontana!
Eppure, nel Nuovo testamento, Gesù invoca il perdono nell’episodio
della lapidazione della donna adultera: “Chi di voi è senza peccato,
scagli per primo la pietra contro di lei” (Giovanni 1 cap 8,
7).
E Giovanni Paolo II dichiara, durante la
visita negli USA, che la Chiesa è “incondizionatamente a favore della
vita” e che, essendo la nostra società “in possesso dei mezzi
per proteggersi (…), la pena si morte è crudele e non necessaria”.
Insomma, sembra l’applicazione completa
del V comandamento: non uccidere. Ma non è così. Infatti, quando si
afferma che sono rari i casi “di assoluta necessità di soppressione del
reo”, si ammette che in qualche caso la pena di morte è riconosciuta.
Qualcuno scrive che questo vale per
la legittima difesa (punto 2266). Ma quanti innocenti,
nel Far West del mondo civilizzato, vengono uccisi in nome
della legittima difesa? Quando, allora, si può parlare di legittima
difesa, ovvero quale tipo di reato autorizza alla pena capitale?
E, se “la pena di morte è crudele
e non necessaria”, perché viene ancora mantenuto nel Catechismo il punto
2267, che rappresenta un affronto all’etica del perdono e della misericordia e
lascia l’impressione che si possa, in qualche caso, utilizzarlo?
di Governanti
- www.governanti.blogspot.com
Il Catechismo Universale e la pena di
morte
Si è fatto un gran discutere, in ambienti
pacifisti e non-violenti, come, ad esempio Amnesty International,
circa le motivazioni che possono aver indotto la chiesa cattolica ad accettare
– come risulta dal paragrafo 2266 del recente Catechismo Universale (CCC)
– la pena di morte, seppure “in casi di estrema gravità”.
Vediamo le prime.
Al paragrafo 2259, dicono gli autori del
CCC: “La Scrittura, nel racconto dell’uccisione di Abele da parte del
fratello Caino, rivela, fin dagli inizi della storia umana, la presenza
nell’uomo della collera e della cupidigia, conseguenze del peccato originale”.
Il riferimento al cosiddetto “peccato
originale”, ogni qualvolta si deve cercare di spiegare la causa di taluni
malesseri sociali, è praticamente una costante nella teologia cattolica.
Al paragrafo successivo gli autori
ricordano che “l’alleanza [vetero testamentaria] di
Dio e dell’umanità è intessuta di richiami al dono divino della vita umana e
alla violenza omicida dell’uomo”(2260).
Dei due “richiami”, quello che più preme
sottolineare agli autori non è il primo, – come sarebbe naturale per una
istituzione (la Chiesa) che predica la legge dell’amore -, bensì il secondo. E
di questo l’aspetto da essi considerato più significativo non è tanto il puro e
semplice “divieto di non uccidere”, quanto piuttosto il divieto di
uccidere “l’innocente e il giusto” (2261): peccato, questo, “gravemente
contrario alla dignità dell’essere umano”.
Ora, proviamo a chiederci: per quale
ragione la chiesa cattolica ritiene che “l’uccisione volontaria di un
innocente è gravemente contraria alla dignità dell’essere umano” (2261)?
Cioè, per quale ragione essa non si limita ad affermare che l’essere umano in
quanto tale, santo o peccatore che sia, non meriterebbe mai di morire in modo
violento?
La Chiesa Romana, – qui autorevolmente
rappresentata da un Catechismo Universale, -non è in grado di trarre le logiche
conseguenze dalla sua teoria del peccato originale, perché finirebbe in un
groviglio inestricabile di contraddizioni. A noi, invece, interessa mettere in
luce il seguente, inevitabile, sillogismo: se la natura umana è intrinsecamente
malvagia, allora anche Abele era “colpevole”, ma se egli era “colpevole”,
il delitto di Caino, in sé pur grave, va ricompreso sulla base di ogni
possibile attenuante, onde ostacolarne la reiterazione. Qui, naturalmente, non
è il caso di verificare ciò che Caino e Abele simbolicamente rappresentavano
nel racconto del Genesi. Dobbiamo limitarci a considerazioni astratte.
Quel che è certo è che nel racconto
biblico la “dignità dell’essere umano” dipendeva da altro
rispetto alla legge, poiché Caino fu punito prima che venisse formulato il
divieto del quinto comandamento.
Non solo, ma egli venne “marchiato” proprio
per impedire che qualcuno commettesse un secondo delitto, cioè che usasse
vendetta contro di lui. Se a quel tempo avessero dato per scontata l’intrinseca
malvagità umana, alla prima manifestazione di questa non ci sarebbe stata altra
soluzione che l’esecuzione capitale.
Sicché si può tranquillamente affermare
con A. Schenker che ai tempi di Caino era la dignità dell’uomo ad essere
considerata intrinseca all’uomo stesso. Il peccato originale, cioè la
violazione delle modalità del comunismo primitivo, se comportò la nascita
dell’individualismo, non determinò affatto l’impossibilità di opporvisi. Ancora
non esistevano né l’idea dell’espiazione né il principio della retribuzione
come base del sistema della pena. Il divieto di uccidere Caino sta appunto a
testimoniare che, nonostante l’emergere dell’individualismo, i princìpi
democratici del collettivismo non erano stati dimenticati.
Viceversa, il divieto mosaico fa la sua
comparsa in un contesto dove, evidentemente, per rispettare la persona non era
più sufficiente rifarsi alle tradizioni orali, ma occorreva una legge scritta:
segno, questo, che il distacco dai princìpi del comunismo primitivo era
diventato progressivo, forse irreversibile. Di qui, l’esigenza d’imporre al
colpevole una pena proporzionata e di risarcire la vittima del danno subìto. La
giustizia, sempre meno possibile sul piano sociale, doveva almeno apparire su
quello giuridico, cioè su quello formale della legge.
Ora, prima di rispondere adeguatamente
alla domanda che sopra ci siamo posti, dobbiamo continuare a ripercorrere
l’analisi del CCC, che si sposta dall’Antico Testamento (A.T.) al Nuovo,
esaminando la figura chiave di Gesù Cristo.
Per gli autori del CCC, Cristo non sarebbe
che un “nuovo Abele” che porge l’altra guancia, ama i propri nemici, non si
difende da chi lo accusa ingiustamente. etc (2262).
Dopo aver dedicato tre paragrafi (2259-61)
al V.T., il CCC ne dedica uno solo al Nuovo. Perché? Semplicemente perché si
vuole far apparire il Cristo come un “perfezionatore” del divieto mosaico.
Pur di dimostrare che l’uomo è
intrinsecamente malvagio, Cristo, – secondo il CCC, – avrebbe non solo vietato
l’ira, l’odio e la vendetta, oltre che naturalmente l’omicidio, ma si sarebbe
anche offerto volontariamente come “agnello sacrificale” per i
peccati degli uomini. Egli dunque, in un certo senso, sarebbe stato vittima
della sua stessa “legge dell’amore assoluto”, che gli impediva di
trasformarsi in “giustiziere dei malvagi”.
Come si può notare, questa interpretazione
della vita di Cristo è assolutamente fantastica. La chiesa romana non ha qui
saputo cogliere la fondamentale differenza dalla legge mosaica che i vangeli
rappresentano, per i quali il “divieto di uccidere” è una
contraddizione in termini, finché non si pongono le basi sociali che tolgano al
delitto le sue motivazioni di fondo.
In effetti, se nel mentre si pone il
divieto non ci si preoccupa di creare una società veramente democratica, quel
divieto, alla lunga, non sortirà alcun effetto. E, viceversa, se si ha quella
preoccupazione, il divieto è altrettanto inutile, poiché non sarà in virtù di
esso che i cittadini si comporteranno in maniera non-violenta.
A parte questo, la Chiesa Romana non ha
mai neppure capito (o non lo ha mai voluto capire) il motivo per cui il Cristo
si lasciò giustiziare senza reagire. Lungi dal pensare che il potere dominante
avrebbe più facilmente rinunciato al proprio arbitrio, vedendo un innocente
salire tranquillamente sul patibolo, il Cristo deve, invece, aver atteso
(invano, purtroppo) che la propria liberazione fosse il frutto di una
convinzione largamente popolare, solo in virtù della quale si sarebbe sia
potuto vincere il dominio romano che costruire una nuova società civile.
Imporre il proprio progetto democratico
con colpi di stato, atti terroristici e cose simili non avrebbe certo
significato realizzare un’alternativa alla logica del potere dominante (romano
o ebraico che fosse).
Ora, finalmente, possiamo rispondere alla
suddetta domanda, se il lettore non l’ha già fatto per contro proprio. La
Chiesa è favorevole alla pena di morte sostanzialmente per questa ragione di
tipo “etico-religioso”: essendo la natura dell’uomo intrinsecamente malvagia,
la società ha il diritto, nei confronti di chi cerca di contenere tale
malvagità in una condotta il più possibile irreprensibile e, nonostante questo,
viene ucciso, di considerare la sua morte un delitto assolutamente
imperdonabile.
In altre parole, è intollerabile per la
chiesa veder uccidere un “innocente”, colui cioè che, meglio di altri, combatte
contro gli effetti deleteri del peccato originale (ma anche colui che, essendo
ancora troppo giovane d’età, non ha potuto sperimentare su di sé gli effetti o
le tentazioni di quella colpa). “L’omicida e coloro che volontariamente
cooperano all’uccisione commettono un peccato che grida vendetta al cielo”,
specie nei casi di “infanticidio, fratricidio, parricidio e uccisione
del coniuge” (2268).
Si deve, però, andare al paragrafo 1867
per accorgersi che fra i “peccati che gridano al cielo” non vi è solo
l’omicidio di Abele o la licenziosità dei Sodomiti, ma anche “il
lamento del popolo oppresso in Egitto; il lamento del forestiero, della vedova
e dell’orfano”. Infine, “l’ingiustizia verso il salariato”.
Ma, la cosa più singolare di tutta questa
esegesi del CCC, circa il divieto mosaico e la morte di Gesù, è che nella
seconda parte del capitolo (quella dedicata alla “legittima difesa”)
– e qui veniamo alla motivazione più propriamente politica, – la Chiesa romana,
servendosi delle sentenze dell’Aquinate, arriva a formulare cose del
tutto antievangeliche, che peggiorano persino la durezza della legge mosaica,
la quale prevedeva la pena di morte per i trasgressori di alcuni comandamenti.
Sulla base della motivazione vista sopra,
la Chiesa non ha espresso un parere chiaramente favorevole alla pena di morte.
Essa, infatti, si rende conto che, in quanto istituzione “religiosa”,
dev’essere sempre pronta al perdono.
Tuttavia, la trattazione religiosa
dell’argomento è stata condotta con abile maestria, evitando di esprimere
“giudizi di valore” categorici, sia per mostrare che il divieto mosaico “ha
una validità universale: obbliga tutti e ciascuno, sempre e dappertutto” (2261),
per cui la sua trasgressione non può che comportare gravissime conseguenze, sia
per suscitare nel lettore un senso di forte riprovazione nei confronti del
fatto che, nonostante la palese innocenza di Gesù, vi furono ugualmente delle
persone disposte a crocifiggerlo.
Come restare indifferenti al cospetto di
un’ingiustizia così grande? Il fatto che Cristo non abbia voluto difendersi,
non implica che nessuno debba farlo. Ciò che sul piano etico-religioso può
apparire inaccettabile, può non esserlo sul piano gius-politico.
Infatti, “l’amore verso se stessi
resta un principio fondamentale della moralità. E’, quindi, legittimo far
rispettare il proprio diritto alla vita”, “poiché, – come dice
Tommaso d’Aquino, – un uomo è tenuto di più a provvedere alla propria
vita che alla vita altrui” (2264).
Curiosa questa citazione
dell’illustre Dottore della Chiesa. Egli ha, senza dubbio, ragione
quando afferma che “se nel difendere la propria vita uno usa maggiore
violenza del necessario, il suo atto è illecito”. Ma che dire del fatto che
la legittima difesa venga invocata per tutelare un diritto esclusivamente
soggettivo? Da una Chiesa che pretende di fare dell’ideale “divino” la
sua raison d’être, sinceramente, ci si aspettava qualcosa di più
sublime.
In effetti, se la legittima difesa è il
modo migliore per garantire un proprio diritto, cosa dover pensare di quanti,
nella storia, vi hanno rinunciato per poter meglio affermare un “bene
comune”, cioè un valore, un ideale, un “diritto”, se si vuole,
o, comunque, una causa non puramente soggettiva? Cosa pensare di coloro che,
liberamente e consapevolmente, non perché desiderosi di morire martiri à
tout prix, hanno preferito l’idea del sacrificio personale a quella della
legittima difesa? Erano pazzi, ingenui, illusi o che altro? Il valore etico
(umano, ontologico) di una scelta esistenziale, può essere misurato in termini
meramente giuridici?
Quando poi ci si addentra sul piano più
propriamente politico-istituzionale, i limiti della chiesa cattolica si
evidenziano in tutta la loro crudezza. Se già avevamo messo in dubbio il valore
assoluto della legittima difesa (che va comunque salvaguardata) in nome
dell’interesse soggettivo, ora ci pare ancor più fuorviante l’affermazione
secondo cui la legittima difesa va considerata anche come un dovere da parte di
chi “è responsabile della vita altrui” (2265).
Come spesso succede le parole che si usano
non hanno mai un senso univoco, inequivocabile, ma sono sempre soggette a
fraintendimenti, anche quando si cerca di essere il più possibile aderenti alla
realtà, il più possibile “scientifici”: cioè, esiste sempre la
possibilità di dare alle parole un senso opposto a quello voluto, anche contro
la propria volontà, o, comunque, esiste sempre la possibilità che qualcuno non
ci capisca o non ci voglia capire. E così qui: chi metterebbe in dubbio che le
autorità costituite hanno il dovere di usare lo strumento della legittima
difesa per tutelare l’incolumità (non solo fisica) dei propri cittadini? Ma se
noi dicessimo: le autorità costituite, nell’adempiere al dovere di difendere i
cittadini, hanno il diritto di sostituirsi alla loro volontà, non susciteremmo
forse delle perplessità?
La frase incriminata dalle associazioni
pacifiste è stata la seguente: “la chiesa ha riconosciuto fondato [sottinteso:
"da sempre"] il diritto e il dovere della legittima [o
semplicemente "costituita"?] autorità pubblica di infliggere
pene proporzionate alla gravità del delitto, senza escludere, in casi di
estrema gravità, la pena di morte” (2266).
Si noti il sofisma dell’espressione “pene
proporzionate”: forse il popolo può impedire, nella concezione politica
della Chiesa, che lo Stato usi pene sproporzionate? E come lo potrebbe, visto e
considerato che, per la Chiesa, lo Stato è soggetto non alla “volontà
popolare”, ma solo alle “leggi” (1903), che devono essere
conformi a “un ordine prestabilito da Dio” (1901)?
Se la “volontà popolare” fosse
il principio fondamentale dello “Stato di diritto”, la pena di
morte potrebbe forse essere considerata una “pena proporzionata” a
un qualche particolare delitto? Sarebbe forse giusto dare per scontato che, ad
un certo punto, bisogna assolutamente negare al colpevole qualunque possibilità
di pentimento, ritenendolo unico vero responsabile del suo crimine? E’ forse
questo l’insegnamento del Cristo nell’episodio della “donna adultera” (Gv.
8,1ss.)?
Il fatto è che, – secondo gli autori
del CCC, – la società (e, quindi, la Chiesa) deve, comunque, difendersi da chi
la minaccia con l’uso della forza. Su questo, il CCC è molto esplicito: “i
detentori dell’autorità [qui considerati "sacri e inviolabili"] hanno
il diritto di usare le armi per respingere gli aggressori della comunità
civile…” (2266).
La chiesa non vuole prospettare, neanche
sul piano ipotetico, l’idea che gli aggressori si comportino così proprio
perché si appellano al principio della “legittima difesa” e
che i veri aggressori possano in realtà essere le stesse autorità
costituite. “La pena ha lo scopo di difendere l’ordine pubblico e la
sicurezza delle persone” (2266), sentenzia il CCC. Non ha, quindi,
senso chiedersi se tale difesa sia “sempre” lecita o se non sia meglio mettere
in discussione il valore del cosiddetto “ordine pubblico”.
Thomas More, martire della libertà di
coscienza, santificato dalla Chiesa romana nel 1935, disse nella sua Utopia:
gli Stati fondati sulla proprietà privata e il denaro “allevano dei
ladri per poi punirli con la morte”.
F. Engels, tre secoli dopo, dirà la stessa
cosa in La situazione della classe operaia in Inghilterra: “Se
la società toglie a migliaia di individui il necessario per l’esistenza…; se
mediante la forza della legge li costringe a rimanere in tali condizioni,
finché non sopraggiunga la morte… questo è assassinio… contro il quale nessuno
può difendersi… perché non si vede l’assassino, perché questo assassino sono
tutti e nessuno, perché la morte della vittima appare come una morte naturale e
perché esso non è tanto un peccato di opera, quanto un peccato di omissione”.
Naturalmente, gli esegeti più ipocriti
sostengono che la Chiesa si limita a “riconoscere” agli Stati l’uso estremo
della pena di morte, senza farsi sua diretta sostenitrice. Ciò in realtà è
falso, sia perché la Chiesa ha abolito, de jure, in Vaticano tale
forma di condanna solo nel 1969 (per comodità affaristica di riconoscimenti
nell’Unione Europea), sia perché la necessità di tale pena si evince, – come si
è visto, – dai suoi stessi argomenti di tipo religioso, sia perché, infine, il
Vaticano assai raramente (o mai?) si è pronunciato contro gli Stati che
comminano sentenze capitali (opposizioni alla pena di morte è possibile
riscontrarle solo in chiese locali o nazionali, come, ad esempio, nella Commissione
per la Vita della Conferenza Episcopale Cattolica degli USA).
In realtà, a queste conclusioni assai poco
democratiche, si perviene quando il problema della responsabilità penale viene
affrontato in termini puramente idealistici o giuridici, senza tener conto di
alcun riferimento storico o sociale concreto.
“La pena, –
dice il CCC, – ha valore di espiazione” (2266), in quanto
il colpevole è solo colpevole. Il riferimento qui
và soprattutto al caso dell’omicidio volontario, per il quale non esistono
attenuanti. Solo quando si parla di quello involontario (come se, sul piano
etico, si potesse fare una distinzione così precisa), gli autori del CCC fanno
un’annotazione complementare usando i caratteri piccoli: “Tollerare, –
viene detto, – da parte della società umana, condizioni di miseria che
portano alla morte senza che ci si sforzi di porvi rimedio, è una scandalosa
ingiustizia e una colpa grave”(2269). La Chiesa qui intende riferirsi a
coloro che usano “pratiche usuraie e mercantili”. Costoro,
indirettamente (solo indirettamente in una società capitalistica?) “commettono
un omicidio”.
Il CCC, insomma, non si preoccupa di
“capire” il crimine di chi, sottoposto a condizioni di vita disumane, reagisce
istintivamente facendosi giustizia da sé. Non si preoccupa minimamente di
giustificare coloro che, sottoposti alle medesime condizioni, ad un certo punto
decidono di organizzarsi politicamente per rovesciare i poteri costituiti. Si
preoccupa soltanto di trovare dei “colpevoli”, siano essi volontari o
involontari, diretti o indiretti, lasciando da parte tutte le responsabilità
che possono avere gli Stati e le istituzioni di potere, nonché i gruppi sociali
dominanti di una determinata società.
Ormai, come ognuno si sarà certamente
accorto, le parole non hanno più alcun significato. La Chiesa è disposta ad
affermare tutto ed il contrario di tutto, cioè tutto quanto fa parte del suo
impianto strettamente conservatore e, per essere più credibile, alcune cose che
fanno parte dell’ideologia laica e democratica.
Il problema non sta più nella scelta delle
parole, ma solo nell’atteggiamento che il credente deve tenere nei confronti
della Chiesa. E l’atteggiamento giusto, a quanto pare, visto che nessun alto
esponente della Curia vaticana l’ha contestato, può essere considerato quello
delle cattolicissime Filippine, il cui Parlamento, il 23 febbraio 1993, ha
reintrodotto, nonostante l’opposizione della Conferenza Episcopale
Filippina, la pena di morte, dopo averla abolita nel 1987, proprio facendo
leva sulle affermazioni del Catechismo Universale.
Contenuti
tratti da: http://www.homolaicus.com/teorici/wojtyla/pena_morte.htm
Pigrizia intellettuale e teoria della
responsabilità sociale
In un paese dove vige la pena di morte che
senso può avere la teoria del ragionevole dubbio? Non è forse una
contraddizione in termini?
Se anche dal punto di vista tecnico/materiale,
non vi fossero dubbi circa la consapevolezza di una persona da condannare a
morte, chi ci assicura che non esisterebbero dubbi dal punto di vista morale?
Come si può pensare che un individuo sano
di mente possa compiere un delitto nella più assoluta libertà di scelta?
Se una persona fosse assolutamente libera
di scegliere perché dovrebbe scegliere una cosa che le farebbe perdere la
libertà?
Nessuno vive così isolato dagli altri da
poter dire con sicurezza: “Ho scelto liberamente, senza condizionamenti
di sorta”. Chi vivesse isolato dal mondo, probabilmente, non si porrebbe
neanche il problema di compiere un delitto. Non ne avrebbe motivo. A meno che
l’isolamento non fosse una sorta di punizione inflitta in precedenza: il che
potrebbe portare a risentimenti e a esigenze di vendetta personale.
Viviamo in una società in cui i
condizionamenti sono reciproci: dunque, per quale motivo quando si tratta di
giudicare qualcuno, lo consideriamo come un individuo isolato e lo carichiamo
di responsabilità più grandi di quelle che potrebbe avere nella vita reale?
Gli uomini vivono assieme come tanti
individui isolati: costituiscono una comunità per via indotta,
involontariamente, non per libera scelta (questo senza considerare che la
comunità dovrebbe far parte in maniera naturale della vita di una persona, sin
dalla sua nascita). Nella vita reale, non si è capaci di assumere
reciprocamente le responsabilità altrui. Sicché quando qualcuno commette un
reato, viene lasciato solo, con tutte le sue responsabilità.
Eppure, l’isolamento che si vive in
società è anch’esso una forma di condizionamento, un peso da sopportare. Si
possono commettere azioni criminose non perché si è isolati dalla società,
ma proprio perché si è isolati nella società.
Il crimine è sempre frutto di un
condizionamento sociale: ecco perché, indirettamente, si è tutti colpevoli. Il
crimine dovrebbe essere considerato come occasione per ripensare i criteri del
vivere civile.
Insomma, la teoria del ragionevole dubbio
dovrebbe spingersi sino al concorso morale, indiretto, che può avere la società
nei confronti dell’imputato che ha commesso un reato.
Anche la teoria della presunzione
d’innocenza, in tal senso, andrebbe rivista. Non ha senso sostenere che uno è
innocente finché non si è dimostrata la colpevolezza. Bisognerebbe anzi
sostenere il contrario e, cioè, che in un modo o nell’altro siamo tutti colpevoli
e che quando si tratta di giudicare qualcuno, anzitutto, bisognerebbe chiedersi
che cosa si è fatto per impedire che un determinato reato venisse compiuto.
Bisognerebbe partire da premesse di
colpevolezza sociale, in modo da non far sentire l’imputato un individuo
isolato, un estraniato.
Questo, ovviamente, non significa che il
reato non deve essere punito o che bisogna essere pietisti ad oltranza.
Significa, semplicemente, che, nei confronti del reato, bisogna assumere un
atteggiamento pedagogico.
Il reato è un indizio di malessere
sociale. Dall’analisi dei sintomi, bisogna saper trovare una terapia per
vincere un male che ha radici nella società e nella sua cultura.
Dobbiamo abituarci a considerare i
condizionamenti sociali non come un limite alla libertà, ma come il fondamento
su cui la libertà và costruita.
Siamo liberi, appunto, perché
condizionati.
Il nostro compito è quello di rendere
positivi questi condizionamenti, affinché siano utili alla libertà.
Contenuti
tratti da: http://www.homolaicus.com/teorici/wojtyla/pena_morte.htmL’insegnamento tradizionale della Chiesa
non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della
responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa
fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto
la vita di esseri umani.
Da fonti varie,
a cura di Nino Caliendo
Nella Bibbia
Nella Bibbia sono elencate situazioni in
cui, nelle leggi che Dio dà a Mosé per esporle al popolo ebraico, si stabilisce
la pena capitale come punizione per determinate colpe. Ad esempio, nell’Antico
Testamento è scritto:
“Colui che colpisce un uomo causandone la
morte, sarà messo a morte “ (Esodo 21,12).
Nell’Antico Testamento (Genesi, 2,12-15)
esistono alcuni passi in cui Dio condanna la vendetta umana, minacciando
punizioni peggiori (“sette volte” e
“settanta volte sette”) per chi avesse ucciso Caino e Lamech.
Diversi passi, in prevalenza dell’Antico
Testamento, affermano la legittimità della pena di morte quando è violata la
legge di Mosé. A questi si aggiungono gli episodi di guerra e della storia del
popolo eletto, dove i nemici periscono per volontà divina. Riguardo alla
violazione della legge ebraica, nella Lettera agli Ebrei 10,28: “Quando
qualcuno ha violato la legge di Mosé, viene messo a morte senza pietà sulla
parola di due o tre testimoni”. In Levitico 24,16 viene messo a morte “Chi
bestemmia il nome del Signore”, in Levitico 20,10 chi commette adulterio,
in 27,29 “Nessuna persona votata allo sterminio potrà essere
riscattata; dovrà essere messa a morte” e in Levitico 24,17 “Chi
percuote a morte un uomo”. In Esodo 21,17 viene messo a morte chi maledice
il padre o la madre.
Il passo è ripreso nel Nuovo Testamento,
da Vangelo di Marco 7,10: “…infatti disse: Onora tuo padre e tua madre,
e chi maledice il padre e la madre sia messo a morte”. In Numeri 35,30, si
afferma che non si può accettare un prezzo di riscatto da un omicida: “Se
uno uccide un altro, l’omicida sarà messo a morte in seguito a deposizione di
testimoni, ma un unico testimone non basterà per condannare a morte una
persona. Non accetterete prezzo di riscatto per la vita di un omicida, reo di
morte, perché dovrà essere messo a morte”.
La morte del colpevole avveniva per
lapidazione. Questa forma di esecuzione coinvolge tutta la comunità locale
adulta, che collettivamente è chiamata ad applicare la legge, e risparmia
l’individuazione di un singolo come boia.
Nel Nuovo Testamento, Gesù richiama più
volte al perdono e condanna l’episodio della lapidazione della donna adultera:
“Chi di voi è senza
peccato, scagli per primo la pietra contro di lei” (Giovanni
8,7).
Pensatori cristiani
Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino
sostengono la liceità della pena di morte sulla base del concetto della
conservazione del bene comune. L’argomentazione di Tommaso d’Aquino è la
seguente:
“Come è lecito, anzi
doveroso, estirpare un membro malato per salvare tutto il corpo, così quando
una persona è divenuta un pericolo per la comunità o è causa di corruzione
degli altri, essa viene eliminata per garantire la salvezza della comunità” (Summa
theologiae II-II, q. 29, artt. 37-42).
Il teologo sosteneva, tuttavia, che la
pena andasse inflitta solo al colpevole di gravissimi delitti, mentre,
all’epoca, veniva utilizzata con facilità e grande discrezionalità.
Lo Stato pontificio ha mantenuto nel suo
ordinamento la pena di morte fino al XX secolo.
Dottrina cattolica odierna
Il Catechismo della Chiesa
Cattolica (1997) parla della pena di morte all’interno della
trattazione sul quinto comandamento, “Non uccidere” e, più
specificamente, nel sottotitolo che tratta della legittima difesa.
In questo contesto dice (n. 2266-2267):
“2266: Corrisponde ad un’esigenza
di tutela del bene comune lo sforzo dello Stato inteso a contenere il
diffondersi di comportamenti lesivi dei diritti dell’uomo e delle regole
fondamentali della convivenza civile. La legittima autorità pubblica ha il
diritto ed il dovere di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto.
La pena ha innanzi tutto lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla
colpa. Quando è volontariamente accettata dal colpevole, essa assume valore di
espiazione. La pena poi, oltre che a difendere l’ordine pubblico e a tutelare
la sicurezza delle persone, mira ad uno scopo medicinale: nella misura del
possibile, essa deve contribuire alla correzione del colpevole”.
“2267: L’insegnamento tradizionale
della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della
responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa
fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto
la vita di esseri umani.
Se invece i mezzi incruenti sono
sufficienti per difendere dall’aggressore e per proteggere la sicurezza delle
persone, l’autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio
rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla
dignità della persona umana…”
La pena di morte in Città del Vaticano
venne rimossa dalla Legge Fondamentale solo il 12 febbraio
2001, forse per convenienza UE, visto che l’Unione Europea non ammette la pena
capitale e, di conseguenza, gli Stati che la prevedono.
Nel giugno 2004, l’allora cardinale Joseph
Ratzinger, attuale papa Benedetto XVI, inviò, in qualità di prefetto
della Congregazione per la Dottrina della Fede, una lettera al
cardinale Theodore Edgar McCarrick, – arcivescovo di Washington, – e
all’arcivescovo Wilton Daniel Gregory, – presidente della Conferenza Episcopale
degli Stati Uniti, – nella quale affermava che può tuttavia essere
consentito [...] fare ricorso alla pena di morte
Contenuti
tratti da: http://it.wikipedia.org/wiki/Pena_di_morte
Se l’art. 2261 del Nuovo Catechismo
afferma che: “La Scrittura precisa la proibizione del quinto comandamento:
non far morire l’innocente e il giusto” (Es 23,7), è consequenziale
che: “Il comandamento ‘Non uccidere’ ha valore assoluto quando si
riferisce alla persona innocente” (Evangelium vitae, n° 57) e
valore relativo quando si riferisce alla persona colpevole.
Infatti, l’art. 2267 del Nuovo Catechismo
conferma che: “L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude,
supposto il pieno accertamento dell’ identità e della responsabilità del
colpevole, il ricorso alla pena di morte”.
La Chiesa, dunque, riconosce all’autorità
pubblica il potere di applicare la pena di morte, nei confronti delle persone
colpevoli, perché la “Scrittura” e, più precisamente, il versetto 7 del
capitolo 23 dell’Esodo “non far morire l’innocente e il giusto“,
preciserebbe che il comandamento “Non uccidere” è stato
formulato da Dio per proteggere la vita delle persone innocenti, ma non le
colpevoli.
Ma la Chiesa è proprio certa che questa
dottrina così inumana sia conforme alla legge divina e non sia, piuttosto,
frutto di conformazione umana?
Se di fronte alla legge umana, tutte le persone
sono considerate uguali: “La legge è uguale per tutti”, quanto più,
tutte le persone, dovrebbero essere considerate uguali di fronte alla legge di
Dio, che possiede carattere universale?
Mentre, per il Catechismo, di fronte alla
legge divina: “Non uccidere”, le persone non sono considerata tutte
uguali, ma, a priori, separate le buone dalle cattive e proprio le cattive, per
le quali Dio ha istituita la legge, defraudate dai benefici.
In realtà, la “Scrittura” di cui parla il
Catechismo, che “precisa la proibizione del quinto comandamento”, si riduce ad
un versetto dell’Antico Testamento: “Non far morire l’innocente e il
giusto“, formulato, peraltro, in modo incompleto, infatti, citato per
intero: “Starai lontano dalla parola falsa e non ucciderai l’innocente
e il giusto perché io non dichiaro giusto il colpevole“ (Es 23,7),
rivela la vera intenzione dell’autore sacro, che non è certo quella di voler
precisare la proibizione del quinto comandamento, come dichiara il Catechismo,
ma formare le coscienze umane al giusto comportamento morale che devono
assumere i soggetti giuridici nell’ambito di un processo penale: Dio vieta,
categoricamente, ai giudici e ai testimoni, di ricorrere a parole false per
deviare il corso della giustizia, provocando la condanna dell’innocente e
l’assoluzione del colpevole. Intenzione che, l’autore sacro sottolinea anche
con il versetto precedente: “Non farai deviare il giudizio del povero,
che si rivolge a te nel suo processo“ (Es 23,6).
Tra l’altro, non spetta all’Antico Testamento
stabilire le verità divine in materia di fede e di morale, ma al Nuovo
Testamento e in esso non vi è un solo versetto che autorizzi la Chiesa a
legittimare la pena di morte, una pena di natura vendicativa, assolutamente
contraria al perdono, il quale costituisce il DNA dello spirito cristiano.
Unitamente alla pena di morte, anche la
“tortura” è stata sempre considerata dalla Chiesa moralmente lecita: solo con
il Concilio Vaticano II è stata, finalmente, esclusa e
condannata.
Intanto, prima che fosse rigettata, un
numero infinito di persone, che solo Dio conosce, ha dovuto soffrire atrocità
incredibili e tante di esse sono morte a causa di questa dottrina legittimata
dalla Chiesa.
Ora, però, che il Concilio si
è espresso in modo autentico e ufficiale contro tutte: “…le torture
inflitte al corpo alla mente…ledono grandemente l’onore del creatore” (Gaudim
et spes n° 27) può la Chiesa continuare a considerare lecita la pena di morte?
Non è forse la pena di morte una pratica di tortura inflitta al corpo e alla
mente?
Da: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3721
Il Catechismo e la pena di morte
Cesare Beccaria, a proposito della pena di
morte, nel pamphlet “Dei delitti e delle pene”, nel 1764,
scriveva: “Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della
pubblica volontà, che detestano e puniscano l’omicidio, ne commettano uno esse
medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordini un pubblico
assassinio”.
Il Granducato di Toscana, nel 1786, fu il
primo Stato al mondo ad abolire la pena di morte.
Su iniziativa dell’Italia, l’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite, il 18 Dicembre 2007, ha approvato la risoluzione per
la moratoria universale contro la pena di morte nel mondo.
Ma, il punto 2267 de “Il nuovo
catechismo della Chiesa cattolica” (1992, rivisto nel 1999) così
recita:
“L’insegnamento tradizionale della Chiesa
non esclude (…) il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via
praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di
esseri umani (…). Oggi (…) i casi di assoluta necessità di soppressione del reo
sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti” (quest’ultimo
paragrafo, aggiunto successivamente, proviene dall’enciclica di Giovanni Paolo
II “Evangelium vitae” del 1995).
Ecco l’assurdo! La Chiesa, nella sua dottrina
fondamentale, il Catechismo, mantiene ancora la pena di morte,
anche se edulcorata dall’aggiunta di un paragrafetto dell’enciclica sopradetta.
Le lancette del tempo sembrano essersi
fermate, meno male che la… Santa Inquisizione è lontana!
Eppure, nel Nuovo testamento, Gesù invoca il perdono nell’episodio
della lapidazione della donna adultera: “Chi di voi è senza peccato,
scagli per primo la pietra contro di lei” (Giovanni 1 cap 8,
7).
E Giovanni Paolo II dichiara, durante la
visita negli USA, che la Chiesa è “incondizionatamente a favore della
vita” e che, essendo la nostra società “in possesso dei mezzi
per proteggersi (…), la pena si morte è crudele e non necessaria”.
Insomma, sembra l’applicazione completa
del V comandamento: non uccidere. Ma non è così. Infatti, quando si
afferma che sono rari i casi “di assoluta necessità di soppressione del
reo”, si ammette che in qualche caso la pena di morte è riconosciuta.
Qualcuno scrive che questo vale per
la legittima difesa (punto 2266). Ma quanti innocenti,
nel Far West del mondo civilizzato, vengono uccisi in nome
della legittima difesa? Quando, allora, si può parlare di legittima
difesa, ovvero quale tipo di reato autorizza alla pena capitale?
E, se “la pena di morte è crudele
e non necessaria”, perché viene ancora mantenuto nel Catechismo il punto
2267, che rappresenta un affronto all’etica del perdono e della misericordia e
lascia l’impressione che si possa, in qualche caso, utilizzarlo?
di Governanti
- www.governanti.blogspot.com
Il Catechismo Universale e la pena di
morte
Si è fatto un gran discutere, in ambienti
pacifisti e non-violenti, come, ad esempio Amnesty International,
circa le motivazioni che possono aver indotto la chiesa cattolica ad accettare
– come risulta dal paragrafo 2266 del recente Catechismo Universale (CCC)
– la pena di morte, seppure “in casi di estrema gravità”.
Vediamo le prime.
Al paragrafo 2259, dicono gli autori del
CCC: “La Scrittura, nel racconto dell’uccisione di Abele da parte del
fratello Caino, rivela, fin dagli inizi della storia umana, la presenza
nell’uomo della collera e della cupidigia, conseguenze del peccato originale”.
Il riferimento al cosiddetto “peccato
originale”, ogni qualvolta si deve cercare di spiegare la causa di taluni
malesseri sociali, è praticamente una costante nella teologia cattolica.
Al paragrafo successivo gli autori
ricordano che “l’alleanza [vetero testamentaria] di
Dio e dell’umanità è intessuta di richiami al dono divino della vita umana e
alla violenza omicida dell’uomo”(2260).
Dei due “richiami”, quello che più preme
sottolineare agli autori non è il primo, – come sarebbe naturale per una
istituzione (la Chiesa) che predica la legge dell’amore -, bensì il secondo. E
di questo l’aspetto da essi considerato più significativo non è tanto il puro e
semplice “divieto di non uccidere”, quanto piuttosto il divieto di
uccidere “l’innocente e il giusto” (2261): peccato, questo, “gravemente
contrario alla dignità dell’essere umano”.
Ora, proviamo a chiederci: per quale
ragione la chiesa cattolica ritiene che “l’uccisione volontaria di un
innocente è gravemente contraria alla dignità dell’essere umano” (2261)?
Cioè, per quale ragione essa non si limita ad affermare che l’essere umano in
quanto tale, santo o peccatore che sia, non meriterebbe mai di morire in modo
violento?
La Chiesa Romana, – qui autorevolmente
rappresentata da un Catechismo Universale, -non è in grado di trarre le logiche
conseguenze dalla sua teoria del peccato originale, perché finirebbe in un
groviglio inestricabile di contraddizioni. A noi, invece, interessa mettere in
luce il seguente, inevitabile, sillogismo: se la natura umana è intrinsecamente
malvagia, allora anche Abele era “colpevole”, ma se egli era “colpevole”,
il delitto di Caino, in sé pur grave, va ricompreso sulla base di ogni
possibile attenuante, onde ostacolarne la reiterazione. Qui, naturalmente, non
è il caso di verificare ciò che Caino e Abele simbolicamente rappresentavano
nel racconto del Genesi. Dobbiamo limitarci a considerazioni astratte.
Quel che è certo è che nel racconto
biblico la “dignità dell’essere umano” dipendeva da altro
rispetto alla legge, poiché Caino fu punito prima che venisse formulato il
divieto del quinto comandamento.
Non solo, ma egli venne “marchiato” proprio
per impedire che qualcuno commettesse un secondo delitto, cioè che usasse
vendetta contro di lui. Se a quel tempo avessero dato per scontata l’intrinseca
malvagità umana, alla prima manifestazione di questa non ci sarebbe stata altra
soluzione che l’esecuzione capitale.
Sicché si può tranquillamente affermare
con A. Schenker che ai tempi di Caino era la dignità dell’uomo ad essere
considerata intrinseca all’uomo stesso. Il peccato originale, cioè la
violazione delle modalità del comunismo primitivo, se comportò la nascita
dell’individualismo, non determinò affatto l’impossibilità di opporvisi. Ancora
non esistevano né l’idea dell’espiazione né il principio della retribuzione
come base del sistema della pena. Il divieto di uccidere Caino sta appunto a
testimoniare che, nonostante l’emergere dell’individualismo, i princìpi
democratici del collettivismo non erano stati dimenticati.
Viceversa, il divieto mosaico fa la sua
comparsa in un contesto dove, evidentemente, per rispettare la persona non era
più sufficiente rifarsi alle tradizioni orali, ma occorreva una legge scritta:
segno, questo, che il distacco dai princìpi del comunismo primitivo era
diventato progressivo, forse irreversibile. Di qui, l’esigenza d’imporre al
colpevole una pena proporzionata e di risarcire la vittima del danno subìto. La
giustizia, sempre meno possibile sul piano sociale, doveva almeno apparire su
quello giuridico, cioè su quello formale della legge.
Ora, prima di rispondere adeguatamente
alla domanda che sopra ci siamo posti, dobbiamo continuare a ripercorrere
l’analisi del CCC, che si sposta dall’Antico Testamento (A.T.) al Nuovo,
esaminando la figura chiave di Gesù Cristo.
Per gli autori del CCC, Cristo non sarebbe
che un “nuovo Abele” che porge l’altra guancia, ama i propri nemici, non si
difende da chi lo accusa ingiustamente. etc (2262).
Dopo aver dedicato tre paragrafi (2259-61)
al V.T., il CCC ne dedica uno solo al Nuovo. Perché? Semplicemente perché si
vuole far apparire il Cristo come un “perfezionatore” del divieto mosaico.
Pur di dimostrare che l’uomo è
intrinsecamente malvagio, Cristo, – secondo il CCC, – avrebbe non solo vietato
l’ira, l’odio e la vendetta, oltre che naturalmente l’omicidio, ma si sarebbe
anche offerto volontariamente come “agnello sacrificale” per i
peccati degli uomini. Egli dunque, in un certo senso, sarebbe stato vittima
della sua stessa “legge dell’amore assoluto”, che gli impediva di
trasformarsi in “giustiziere dei malvagi”.
Come si può notare, questa interpretazione
della vita di Cristo è assolutamente fantastica. La chiesa romana non ha qui
saputo cogliere la fondamentale differenza dalla legge mosaica che i vangeli
rappresentano, per i quali il “divieto di uccidere” è una
contraddizione in termini, finché non si pongono le basi sociali che tolgano al
delitto le sue motivazioni di fondo.
In effetti, se nel mentre si pone il
divieto non ci si preoccupa di creare una società veramente democratica, quel
divieto, alla lunga, non sortirà alcun effetto. E, viceversa, se si ha quella
preoccupazione, il divieto è altrettanto inutile, poiché non sarà in virtù di
esso che i cittadini si comporteranno in maniera non-violenta.
A parte questo, la Chiesa Romana non ha
mai neppure capito (o non lo ha mai voluto capire) il motivo per cui il Cristo
si lasciò giustiziare senza reagire. Lungi dal pensare che il potere dominante
avrebbe più facilmente rinunciato al proprio arbitrio, vedendo un innocente
salire tranquillamente sul patibolo, il Cristo deve, invece, aver atteso
(invano, purtroppo) che la propria liberazione fosse il frutto di una
convinzione largamente popolare, solo in virtù della quale si sarebbe sia
potuto vincere il dominio romano che costruire una nuova società civile.
Imporre il proprio progetto democratico
con colpi di stato, atti terroristici e cose simili non avrebbe certo
significato realizzare un’alternativa alla logica del potere dominante (romano
o ebraico che fosse).
Ora, finalmente, possiamo rispondere alla
suddetta domanda, se il lettore non l’ha già fatto per contro proprio. La
Chiesa è favorevole alla pena di morte sostanzialmente per questa ragione di
tipo “etico-religioso”: essendo la natura dell’uomo intrinsecamente malvagia,
la società ha il diritto, nei confronti di chi cerca di contenere tale
malvagità in una condotta il più possibile irreprensibile e, nonostante questo,
viene ucciso, di considerare la sua morte un delitto assolutamente
imperdonabile.
In altre parole, è intollerabile per la
chiesa veder uccidere un “innocente”, colui cioè che, meglio di altri, combatte
contro gli effetti deleteri del peccato originale (ma anche colui che, essendo
ancora troppo giovane d’età, non ha potuto sperimentare su di sé gli effetti o
le tentazioni di quella colpa). “L’omicida e coloro che volontariamente
cooperano all’uccisione commettono un peccato che grida vendetta al cielo”,
specie nei casi di “infanticidio, fratricidio, parricidio e uccisione
del coniuge” (2268).
Si deve, però, andare al paragrafo 1867
per accorgersi che fra i “peccati che gridano al cielo” non vi è solo
l’omicidio di Abele o la licenziosità dei Sodomiti, ma anche “il
lamento del popolo oppresso in Egitto; il lamento del forestiero, della vedova
e dell’orfano”. Infine, “l’ingiustizia verso il salariato”.
Ma, la cosa più singolare di tutta questa
esegesi del CCC, circa il divieto mosaico e la morte di Gesù, è che nella
seconda parte del capitolo (quella dedicata alla “legittima difesa”)
– e qui veniamo alla motivazione più propriamente politica, – la Chiesa romana,
servendosi delle sentenze dell’Aquinate, arriva a formulare cose del
tutto antievangeliche, che peggiorano persino la durezza della legge mosaica,
la quale prevedeva la pena di morte per i trasgressori di alcuni comandamenti.
Sulla base della motivazione vista sopra,
la Chiesa non ha espresso un parere chiaramente favorevole alla pena di morte.
Essa, infatti, si rende conto che, in quanto istituzione “religiosa”,
dev’essere sempre pronta al perdono.
Tuttavia, la trattazione religiosa
dell’argomento è stata condotta con abile maestria, evitando di esprimere
“giudizi di valore” categorici, sia per mostrare che il divieto mosaico “ha
una validità universale: obbliga tutti e ciascuno, sempre e dappertutto” (2261),
per cui la sua trasgressione non può che comportare gravissime conseguenze, sia
per suscitare nel lettore un senso di forte riprovazione nei confronti del
fatto che, nonostante la palese innocenza di Gesù, vi furono ugualmente delle
persone disposte a crocifiggerlo.
Come restare indifferenti al cospetto di
un’ingiustizia così grande? Il fatto che Cristo non abbia voluto difendersi,
non implica che nessuno debba farlo. Ciò che sul piano etico-religioso può
apparire inaccettabile, può non esserlo sul piano gius-politico.
Infatti, “l’amore verso se stessi
resta un principio fondamentale della moralità. E’, quindi, legittimo far
rispettare il proprio diritto alla vita”, “poiché, – come dice
Tommaso d’Aquino, – un uomo è tenuto di più a provvedere alla propria
vita che alla vita altrui” (2264).
Curiosa questa citazione
dell’illustre Dottore della Chiesa. Egli ha, senza dubbio, ragione
quando afferma che “se nel difendere la propria vita uno usa maggiore
violenza del necessario, il suo atto è illecito”. Ma che dire del fatto che
la legittima difesa venga invocata per tutelare un diritto esclusivamente
soggettivo? Da una Chiesa che pretende di fare dell’ideale “divino” la
sua raison d’être, sinceramente, ci si aspettava qualcosa di più
sublime.
In effetti, se la legittima difesa è il
modo migliore per garantire un proprio diritto, cosa dover pensare di quanti,
nella storia, vi hanno rinunciato per poter meglio affermare un “bene
comune”, cioè un valore, un ideale, un “diritto”, se si vuole,
o, comunque, una causa non puramente soggettiva? Cosa pensare di coloro che,
liberamente e consapevolmente, non perché desiderosi di morire martiri à
tout prix, hanno preferito l’idea del sacrificio personale a quella della
legittima difesa? Erano pazzi, ingenui, illusi o che altro? Il valore etico
(umano, ontologico) di una scelta esistenziale, può essere misurato in termini
meramente giuridici?
Quando poi ci si addentra sul piano più
propriamente politico-istituzionale, i limiti della chiesa cattolica si
evidenziano in tutta la loro crudezza. Se già avevamo messo in dubbio il valore
assoluto della legittima difesa (che va comunque salvaguardata) in nome
dell’interesse soggettivo, ora ci pare ancor più fuorviante l’affermazione
secondo cui la legittima difesa va considerata anche come un dovere da parte di
chi “è responsabile della vita altrui” (2265).
Come spesso succede le parole che si usano
non hanno mai un senso univoco, inequivocabile, ma sono sempre soggette a
fraintendimenti, anche quando si cerca di essere il più possibile aderenti alla
realtà, il più possibile “scientifici”: cioè, esiste sempre la
possibilità di dare alle parole un senso opposto a quello voluto, anche contro
la propria volontà, o, comunque, esiste sempre la possibilità che qualcuno non
ci capisca o non ci voglia capire. E così qui: chi metterebbe in dubbio che le
autorità costituite hanno il dovere di usare lo strumento della legittima
difesa per tutelare l’incolumità (non solo fisica) dei propri cittadini? Ma se
noi dicessimo: le autorità costituite, nell’adempiere al dovere di difendere i
cittadini, hanno il diritto di sostituirsi alla loro volontà, non susciteremmo
forse delle perplessità?
La frase incriminata dalle associazioni
pacifiste è stata la seguente: “la chiesa ha riconosciuto fondato [sottinteso:
"da sempre"] il diritto e il dovere della legittima [o
semplicemente "costituita"?] autorità pubblica di infliggere
pene proporzionate alla gravità del delitto, senza escludere, in casi di
estrema gravità, la pena di morte” (2266).
Si noti il sofisma dell’espressione “pene
proporzionate”: forse il popolo può impedire, nella concezione politica
della Chiesa, che lo Stato usi pene sproporzionate? E come lo potrebbe, visto e
considerato che, per la Chiesa, lo Stato è soggetto non alla “volontà
popolare”, ma solo alle “leggi” (1903), che devono essere
conformi a “un ordine prestabilito da Dio” (1901)?
Se la “volontà popolare” fosse
il principio fondamentale dello “Stato di diritto”, la pena di
morte potrebbe forse essere considerata una “pena proporzionata” a
un qualche particolare delitto? Sarebbe forse giusto dare per scontato che, ad
un certo punto, bisogna assolutamente negare al colpevole qualunque possibilità
di pentimento, ritenendolo unico vero responsabile del suo crimine? E’ forse
questo l’insegnamento del Cristo nell’episodio della “donna adultera” (Gv.
8,1ss.)?
Il fatto è che, – secondo gli autori
del CCC, – la società (e, quindi, la Chiesa) deve, comunque, difendersi da chi
la minaccia con l’uso della forza. Su questo, il CCC è molto esplicito: “i
detentori dell’autorità [qui considerati "sacri e inviolabili"] hanno
il diritto di usare le armi per respingere gli aggressori della comunità
civile…” (2266).
La chiesa non vuole prospettare, neanche
sul piano ipotetico, l’idea che gli aggressori si comportino così proprio
perché si appellano al principio della “legittima difesa” e
che i veri aggressori possano in realtà essere le stesse autorità
costituite. “La pena ha lo scopo di difendere l’ordine pubblico e la
sicurezza delle persone” (2266), sentenzia il CCC. Non ha, quindi,
senso chiedersi se tale difesa sia “sempre” lecita o se non sia meglio mettere
in discussione il valore del cosiddetto “ordine pubblico”.
Thomas More, martire della libertà di
coscienza, santificato dalla Chiesa romana nel 1935, disse nella sua Utopia:
gli Stati fondati sulla proprietà privata e il denaro “allevano dei
ladri per poi punirli con la morte”.
F. Engels, tre secoli dopo, dirà la stessa
cosa in La situazione della classe operaia in Inghilterra: “Se
la società toglie a migliaia di individui il necessario per l’esistenza…; se
mediante la forza della legge li costringe a rimanere in tali condizioni,
finché non sopraggiunga la morte… questo è assassinio… contro il quale nessuno
può difendersi… perché non si vede l’assassino, perché questo assassino sono
tutti e nessuno, perché la morte della vittima appare come una morte naturale e
perché esso non è tanto un peccato di opera, quanto un peccato di omissione”.
Naturalmente, gli esegeti più ipocriti
sostengono che la Chiesa si limita a “riconoscere” agli Stati l’uso estremo
della pena di morte, senza farsi sua diretta sostenitrice. Ciò in realtà è
falso, sia perché la Chiesa ha abolito, de jure, in Vaticano tale
forma di condanna solo nel 1969 (per comodità affaristica di riconoscimenti
nell’Unione Europea), sia perché la necessità di tale pena si evince, – come si
è visto, – dai suoi stessi argomenti di tipo religioso, sia perché, infine, il
Vaticano assai raramente (o mai?) si è pronunciato contro gli Stati che
comminano sentenze capitali (opposizioni alla pena di morte è possibile
riscontrarle solo in chiese locali o nazionali, come, ad esempio, nella Commissione
per la Vita della Conferenza Episcopale Cattolica degli USA).
In realtà, a queste conclusioni assai poco
democratiche, si perviene quando il problema della responsabilità penale viene
affrontato in termini puramente idealistici o giuridici, senza tener conto di
alcun riferimento storico o sociale concreto.
“La pena, –
dice il CCC, – ha valore di espiazione” (2266), in quanto
il colpevole è solo colpevole. Il riferimento qui
và soprattutto al caso dell’omicidio volontario, per il quale non esistono
attenuanti. Solo quando si parla di quello involontario (come se, sul piano
etico, si potesse fare una distinzione così precisa), gli autori del CCC fanno
un’annotazione complementare usando i caratteri piccoli: “Tollerare, –
viene detto, – da parte della società umana, condizioni di miseria che
portano alla morte senza che ci si sforzi di porvi rimedio, è una scandalosa
ingiustizia e una colpa grave”(2269). La Chiesa qui intende riferirsi a
coloro che usano “pratiche usuraie e mercantili”. Costoro,
indirettamente (solo indirettamente in una società capitalistica?) “commettono
un omicidio”.
Il CCC, insomma, non si preoccupa di
“capire” il crimine di chi, sottoposto a condizioni di vita disumane, reagisce
istintivamente facendosi giustizia da sé. Non si preoccupa minimamente di
giustificare coloro che, sottoposti alle medesime condizioni, ad un certo punto
decidono di organizzarsi politicamente per rovesciare i poteri costituiti. Si
preoccupa soltanto di trovare dei “colpevoli”, siano essi volontari o
involontari, diretti o indiretti, lasciando da parte tutte le responsabilità
che possono avere gli Stati e le istituzioni di potere, nonché i gruppi sociali
dominanti di una determinata società.
Ormai, come ognuno si sarà certamente
accorto, le parole non hanno più alcun significato. La Chiesa è disposta ad
affermare tutto ed il contrario di tutto, cioè tutto quanto fa parte del suo
impianto strettamente conservatore e, per essere più credibile, alcune cose che
fanno parte dell’ideologia laica e democratica.
Il problema non sta più nella scelta delle
parole, ma solo nell’atteggiamento che il credente deve tenere nei confronti
della Chiesa. E l’atteggiamento giusto, a quanto pare, visto che nessun alto
esponente della Curia vaticana l’ha contestato, può essere considerato quello
delle cattolicissime Filippine, il cui Parlamento, il 23 febbraio 1993, ha
reintrodotto, nonostante l’opposizione della Conferenza Episcopale
Filippina, la pena di morte, dopo averla abolita nel 1987, proprio facendo
leva sulle affermazioni del Catechismo Universale.
Contenuti
tratti da: http://www.homolaicus.com/teorici/wojtyla/pena_morte.htm
Pigrizia intellettuale e teoria della
responsabilità sociale
In un paese dove vige la pena di morte che
senso può avere la teoria del ragionevole dubbio? Non è forse una
contraddizione in termini?
Se anche dal punto di vista tecnico/materiale,
non vi fossero dubbi circa la consapevolezza di una persona da condannare a
morte, chi ci assicura che non esisterebbero dubbi dal punto di vista morale?
Come si può pensare che un individuo sano
di mente possa compiere un delitto nella più assoluta libertà di scelta?
Se una persona fosse assolutamente libera
di scegliere perché dovrebbe scegliere una cosa che le farebbe perdere la
libertà?
Nessuno vive così isolato dagli altri da
poter dire con sicurezza: “Ho scelto liberamente, senza condizionamenti
di sorta”. Chi vivesse isolato dal mondo, probabilmente, non si porrebbe
neanche il problema di compiere un delitto. Non ne avrebbe motivo. A meno che
l’isolamento non fosse una sorta di punizione inflitta in precedenza: il che
potrebbe portare a risentimenti e a esigenze di vendetta personale.
Viviamo in una società in cui i
condizionamenti sono reciproci: dunque, per quale motivo quando si tratta di
giudicare qualcuno, lo consideriamo come un individuo isolato e lo carichiamo
di responsabilità più grandi di quelle che potrebbe avere nella vita reale?
Gli uomini vivono assieme come tanti
individui isolati: costituiscono una comunità per via indotta,
involontariamente, non per libera scelta (questo senza considerare che la
comunità dovrebbe far parte in maniera naturale della vita di una persona, sin
dalla sua nascita). Nella vita reale, non si è capaci di assumere
reciprocamente le responsabilità altrui. Sicché quando qualcuno commette un
reato, viene lasciato solo, con tutte le sue responsabilità.
Eppure, l’isolamento che si vive in
società è anch’esso una forma di condizionamento, un peso da sopportare. Si
possono commettere azioni criminose non perché si è isolati dalla società,
ma proprio perché si è isolati nella società.
Il crimine è sempre frutto di un
condizionamento sociale: ecco perché, indirettamente, si è tutti colpevoli. Il
crimine dovrebbe essere considerato come occasione per ripensare i criteri del
vivere civile.
Insomma, la teoria del ragionevole dubbio
dovrebbe spingersi sino al concorso morale, indiretto, che può avere la società
nei confronti dell’imputato che ha commesso un reato.
Anche la teoria della presunzione
d’innocenza, in tal senso, andrebbe rivista. Non ha senso sostenere che uno è
innocente finché non si è dimostrata la colpevolezza. Bisognerebbe anzi
sostenere il contrario e, cioè, che in un modo o nell’altro siamo tutti colpevoli
e che quando si tratta di giudicare qualcuno, anzitutto, bisognerebbe chiedersi
che cosa si è fatto per impedire che un determinato reato venisse compiuto.
Bisognerebbe partire da premesse di
colpevolezza sociale, in modo da non far sentire l’imputato un individuo
isolato, un estraniato.
Questo, ovviamente, non significa che il
reato non deve essere punito o che bisogna essere pietisti ad oltranza.
Significa, semplicemente, che, nei confronti del reato, bisogna assumere un
atteggiamento pedagogico.
Il reato è un indizio di malessere
sociale. Dall’analisi dei sintomi, bisogna saper trovare una terapia per
vincere un male che ha radici nella società e nella sua cultura.
Dobbiamo abituarci a considerare i
condizionamenti sociali non come un limite alla libertà, ma come il fondamento
su cui la libertà và costruita.
Siamo liberi, appunto, perché
condizionati.
Il nostro compito è quello di rendere
positivi questi condizionamenti, affinché siano utili alla libertà.
Contenuti
tratti da: http://www.homolaicus.com/teorici/wojtyla/pena_morte.htmL’insegnamento tradizionale della Chiesa
non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della
responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa
fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto
la vita di esseri umani.
Da fonti varie,
a cura di Nino Caliendo
Nella Bibbia
Nella Bibbia sono elencate situazioni in
cui, nelle leggi che Dio dà a Mosé per esporle al popolo ebraico, si stabilisce
la pena capitale come punizione per determinate colpe. Ad esempio, nell’Antico
Testamento è scritto:
“Colui che colpisce un uomo causandone la
morte, sarà messo a morte “ (Esodo 21,12).
Nell’Antico Testamento (Genesi, 2,12-15)
esistono alcuni passi in cui Dio condanna la vendetta umana, minacciando
punizioni peggiori (“sette volte” e
“settanta volte sette”) per chi avesse ucciso Caino e Lamech.
Diversi passi, in prevalenza dell’Antico
Testamento, affermano la legittimità della pena di morte quando è violata la
legge di Mosé. A questi si aggiungono gli episodi di guerra e della storia del
popolo eletto, dove i nemici periscono per volontà divina. Riguardo alla
violazione della legge ebraica, nella Lettera agli Ebrei 10,28: “Quando
qualcuno ha violato la legge di Mosé, viene messo a morte senza pietà sulla
parola di due o tre testimoni”. In Levitico 24,16 viene messo a morte “Chi
bestemmia il nome del Signore”, in Levitico 20,10 chi commette adulterio,
in 27,29 “Nessuna persona votata allo sterminio potrà essere
riscattata; dovrà essere messa a morte” e in Levitico 24,17 “Chi
percuote a morte un uomo”. In Esodo 21,17 viene messo a morte chi maledice
il padre o la madre.
Il passo è ripreso nel Nuovo Testamento,
da Vangelo di Marco 7,10: “…infatti disse: Onora tuo padre e tua madre,
e chi maledice il padre e la madre sia messo a morte”. In Numeri 35,30, si
afferma che non si può accettare un prezzo di riscatto da un omicida: “Se
uno uccide un altro, l’omicida sarà messo a morte in seguito a deposizione di
testimoni, ma un unico testimone non basterà per condannare a morte una
persona. Non accetterete prezzo di riscatto per la vita di un omicida, reo di
morte, perché dovrà essere messo a morte”.
La morte del colpevole avveniva per
lapidazione. Questa forma di esecuzione coinvolge tutta la comunità locale
adulta, che collettivamente è chiamata ad applicare la legge, e risparmia
l’individuazione di un singolo come boia.
Nel Nuovo Testamento, Gesù richiama più
volte al perdono e condanna l’episodio della lapidazione della donna adultera:
“Chi di voi è senza
peccato, scagli per primo la pietra contro di lei” (Giovanni
8,7).
Pensatori cristiani
Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino
sostengono la liceità della pena di morte sulla base del concetto della
conservazione del bene comune. L’argomentazione di Tommaso d’Aquino è la
seguente:
“Come è lecito, anzi
doveroso, estirpare un membro malato per salvare tutto il corpo, così quando
una persona è divenuta un pericolo per la comunità o è causa di corruzione
degli altri, essa viene eliminata per garantire la salvezza della comunità” (Summa
theologiae II-II, q. 29, artt. 37-42).
Il teologo sosteneva, tuttavia, che la
pena andasse inflitta solo al colpevole di gravissimi delitti, mentre,
all’epoca, veniva utilizzata con facilità e grande discrezionalità.
Lo Stato pontificio ha mantenuto nel suo
ordinamento la pena di morte fino al XX secolo.
Dottrina cattolica odierna
Il Catechismo della Chiesa
Cattolica (1997) parla della pena di morte all’interno della
trattazione sul quinto comandamento, “Non uccidere” e, più
specificamente, nel sottotitolo che tratta della legittima difesa.
In questo contesto dice (n. 2266-2267):
“2266: Corrisponde ad un’esigenza
di tutela del bene comune lo sforzo dello Stato inteso a contenere il
diffondersi di comportamenti lesivi dei diritti dell’uomo e delle regole
fondamentali della convivenza civile. La legittima autorità pubblica ha il
diritto ed il dovere di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto.
La pena ha innanzi tutto lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla
colpa. Quando è volontariamente accettata dal colpevole, essa assume valore di
espiazione. La pena poi, oltre che a difendere l’ordine pubblico e a tutelare
la sicurezza delle persone, mira ad uno scopo medicinale: nella misura del
possibile, essa deve contribuire alla correzione del colpevole”.
“2267: L’insegnamento tradizionale
della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della
responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa
fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto
la vita di esseri umani.
Se invece i mezzi incruenti sono
sufficienti per difendere dall’aggressore e per proteggere la sicurezza delle
persone, l’autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio
rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla
dignità della persona umana…”
La pena di morte in Città del Vaticano
venne rimossa dalla Legge Fondamentale solo il 12 febbraio
2001, forse per convenienza UE, visto che l’Unione Europea non ammette la pena
capitale e, di conseguenza, gli Stati che la prevedono.
Nel giugno 2004, l’allora cardinale Joseph
Ratzinger, attuale papa Benedetto XVI, inviò, in qualità di prefetto
della Congregazione per la Dottrina della Fede, una lettera al
cardinale Theodore Edgar McCarrick, – arcivescovo di Washington, – e
all’arcivescovo Wilton Daniel Gregory, – presidente della Conferenza Episcopale
degli Stati Uniti, – nella quale affermava che può tuttavia essere
consentito [...] fare ricorso alla pena di morte
Contenuti
tratti da: http://it.wikipedia.org/wiki/Pena_di_morte
Se l’art. 2261 del Nuovo Catechismo
afferma che: “La Scrittura precisa la proibizione del quinto comandamento:
non far morire l’innocente e il giusto” (Es 23,7), è consequenziale
che: “Il comandamento ‘Non uccidere’ ha valore assoluto quando si
riferisce alla persona innocente” (Evangelium vitae, n° 57) e
valore relativo quando si riferisce alla persona colpevole.
Infatti, l’art. 2267 del Nuovo Catechismo
conferma che: “L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude,
supposto il pieno accertamento dell’ identità e della responsabilità del
colpevole, il ricorso alla pena di morte”.
La Chiesa, dunque, riconosce all’autorità
pubblica il potere di applicare la pena di morte, nei confronti delle persone
colpevoli, perché la “Scrittura” e, più precisamente, il versetto 7 del
capitolo 23 dell’Esodo “non far morire l’innocente e il giusto“,
preciserebbe che il comandamento “Non uccidere” è stato
formulato da Dio per proteggere la vita delle persone innocenti, ma non le
colpevoli.
Ma la Chiesa è proprio certa che questa
dottrina così inumana sia conforme alla legge divina e non sia, piuttosto,
frutto di conformazione umana?
Se di fronte alla legge umana, tutte le persone
sono considerate uguali: “La legge è uguale per tutti”, quanto più,
tutte le persone, dovrebbero essere considerate uguali di fronte alla legge di
Dio, che possiede carattere universale?
Mentre, per il Catechismo, di fronte alla
legge divina: “Non uccidere”, le persone non sono considerata tutte
uguali, ma, a priori, separate le buone dalle cattive e proprio le cattive, per
le quali Dio ha istituita la legge, defraudate dai benefici.
In realtà, la “Scrittura” di cui parla il
Catechismo, che “precisa la proibizione del quinto comandamento”, si riduce ad
un versetto dell’Antico Testamento: “Non far morire l’innocente e il
giusto“, formulato, peraltro, in modo incompleto, infatti, citato per
intero: “Starai lontano dalla parola falsa e non ucciderai l’innocente
e il giusto perché io non dichiaro giusto il colpevole“ (Es 23,7),
rivela la vera intenzione dell’autore sacro, che non è certo quella di voler
precisare la proibizione del quinto comandamento, come dichiara il Catechismo,
ma formare le coscienze umane al giusto comportamento morale che devono
assumere i soggetti giuridici nell’ambito di un processo penale: Dio vieta,
categoricamente, ai giudici e ai testimoni, di ricorrere a parole false per
deviare il corso della giustizia, provocando la condanna dell’innocente e
l’assoluzione del colpevole. Intenzione che, l’autore sacro sottolinea anche
con il versetto precedente: “Non farai deviare il giudizio del povero,
che si rivolge a te nel suo processo“ (Es 23,6).
Tra l’altro, non spetta all’Antico Testamento
stabilire le verità divine in materia di fede e di morale, ma al Nuovo
Testamento e in esso non vi è un solo versetto che autorizzi la Chiesa a
legittimare la pena di morte, una pena di natura vendicativa, assolutamente
contraria al perdono, il quale costituisce il DNA dello spirito cristiano.
Unitamente alla pena di morte, anche la
“tortura” è stata sempre considerata dalla Chiesa moralmente lecita: solo con
il Concilio Vaticano II è stata, finalmente, esclusa e
condannata.
Intanto, prima che fosse rigettata, un
numero infinito di persone, che solo Dio conosce, ha dovuto soffrire atrocità
incredibili e tante di esse sono morte a causa di questa dottrina legittimata
dalla Chiesa.
Ora, però, che il Concilio si
è espresso in modo autentico e ufficiale contro tutte: “…le torture
inflitte al corpo alla mente…ledono grandemente l’onore del creatore” (Gaudim
et spes n° 27) può la Chiesa continuare a considerare lecita la pena di morte?
Non è forse la pena di morte una pratica di tortura inflitta al corpo e alla
mente?
Da: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3721
Il Catechismo e la pena di morte
Cesare Beccaria, a proposito della pena di
morte, nel pamphlet “Dei delitti e delle pene”, nel 1764,
scriveva: “Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della
pubblica volontà, che detestano e puniscano l’omicidio, ne commettano uno esse
medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordini un pubblico
assassinio”.
Il Granducato di Toscana, nel 1786, fu il
primo Stato al mondo ad abolire la pena di morte.
Su iniziativa dell’Italia, l’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite, il 18 Dicembre 2007, ha approvato la risoluzione per
la moratoria universale contro la pena di morte nel mondo.
Ma, il punto 2267 de “Il nuovo
catechismo della Chiesa cattolica” (1992, rivisto nel 1999) così
recita:
“L’insegnamento tradizionale della Chiesa
non esclude (…) il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via
praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di
esseri umani (…). Oggi (…) i casi di assoluta necessità di soppressione del reo
sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti” (quest’ultimo
paragrafo, aggiunto successivamente, proviene dall’enciclica di Giovanni Paolo
II “Evangelium vitae” del 1995).
Ecco l’assurdo! La Chiesa, nella sua dottrina
fondamentale, il Catechismo, mantiene ancora la pena di morte,
anche se edulcorata dall’aggiunta di un paragrafetto dell’enciclica sopradetta.
Le lancette del tempo sembrano essersi
fermate, meno male che la… Santa Inquisizione è lontana!
Eppure, nel Nuovo testamento, Gesù invoca il perdono nell’episodio
della lapidazione della donna adultera: “Chi di voi è senza peccato,
scagli per primo la pietra contro di lei” (Giovanni 1 cap 8,
7).
E Giovanni Paolo II dichiara, durante la
visita negli USA, che la Chiesa è “incondizionatamente a favore della
vita” e che, essendo la nostra società “in possesso dei mezzi
per proteggersi (…), la pena si morte è crudele e non necessaria”.
Insomma, sembra l’applicazione completa
del V comandamento: non uccidere. Ma non è così. Infatti, quando si
afferma che sono rari i casi “di assoluta necessità di soppressione del
reo”, si ammette che in qualche caso la pena di morte è riconosciuta.
Qualcuno scrive che questo vale per
la legittima difesa (punto 2266). Ma quanti innocenti,
nel Far West del mondo civilizzato, vengono uccisi in nome
della legittima difesa? Quando, allora, si può parlare di legittima
difesa, ovvero quale tipo di reato autorizza alla pena capitale?
E, se “la pena di morte è crudele
e non necessaria”, perché viene ancora mantenuto nel Catechismo il punto
2267, che rappresenta un affronto all’etica del perdono e della misericordia e
lascia l’impressione che si possa, in qualche caso, utilizzarlo?
di Governanti
- www.governanti.blogspot.com
Il Catechismo Universale e la pena di
morte
Si è fatto un gran discutere, in ambienti
pacifisti e non-violenti, come, ad esempio Amnesty International,
circa le motivazioni che possono aver indotto la chiesa cattolica ad accettare
– come risulta dal paragrafo 2266 del recente Catechismo Universale (CCC)
– la pena di morte, seppure “in casi di estrema gravità”.
Vediamo le prime.
Al paragrafo 2259, dicono gli autori del
CCC: “La Scrittura, nel racconto dell’uccisione di Abele da parte del
fratello Caino, rivela, fin dagli inizi della storia umana, la presenza
nell’uomo della collera e della cupidigia, conseguenze del peccato originale”.
Il riferimento al cosiddetto “peccato
originale”, ogni qualvolta si deve cercare di spiegare la causa di taluni
malesseri sociali, è praticamente una costante nella teologia cattolica.
Al paragrafo successivo gli autori
ricordano che “l’alleanza [vetero testamentaria] di
Dio e dell’umanità è intessuta di richiami al dono divino della vita umana e
alla violenza omicida dell’uomo”(2260).
Dei due “richiami”, quello che più preme
sottolineare agli autori non è il primo, – come sarebbe naturale per una
istituzione (la Chiesa) che predica la legge dell’amore -, bensì il secondo. E
di questo l’aspetto da essi considerato più significativo non è tanto il puro e
semplice “divieto di non uccidere”, quanto piuttosto il divieto di
uccidere “l’innocente e il giusto” (2261): peccato, questo, “gravemente
contrario alla dignità dell’essere umano”.
Ora, proviamo a chiederci: per quale
ragione la chiesa cattolica ritiene che “l’uccisione volontaria di un
innocente è gravemente contraria alla dignità dell’essere umano” (2261)?
Cioè, per quale ragione essa non si limita ad affermare che l’essere umano in
quanto tale, santo o peccatore che sia, non meriterebbe mai di morire in modo
violento?
La Chiesa Romana, – qui autorevolmente
rappresentata da un Catechismo Universale, -non è in grado di trarre le logiche
conseguenze dalla sua teoria del peccato originale, perché finirebbe in un
groviglio inestricabile di contraddizioni. A noi, invece, interessa mettere in
luce il seguente, inevitabile, sillogismo: se la natura umana è intrinsecamente
malvagia, allora anche Abele era “colpevole”, ma se egli era “colpevole”,
il delitto di Caino, in sé pur grave, va ricompreso sulla base di ogni
possibile attenuante, onde ostacolarne la reiterazione. Qui, naturalmente, non
è il caso di verificare ciò che Caino e Abele simbolicamente rappresentavano
nel racconto del Genesi. Dobbiamo limitarci a considerazioni astratte.
Quel che è certo è che nel racconto
biblico la “dignità dell’essere umano” dipendeva da altro
rispetto alla legge, poiché Caino fu punito prima che venisse formulato il
divieto del quinto comandamento.
Non solo, ma egli venne “marchiato” proprio
per impedire che qualcuno commettesse un secondo delitto, cioè che usasse
vendetta contro di lui. Se a quel tempo avessero dato per scontata l’intrinseca
malvagità umana, alla prima manifestazione di questa non ci sarebbe stata altra
soluzione che l’esecuzione capitale.
Sicché si può tranquillamente affermare
con A. Schenker che ai tempi di Caino era la dignità dell’uomo ad essere
considerata intrinseca all’uomo stesso. Il peccato originale, cioè la
violazione delle modalità del comunismo primitivo, se comportò la nascita
dell’individualismo, non determinò affatto l’impossibilità di opporvisi. Ancora
non esistevano né l’idea dell’espiazione né il principio della retribuzione
come base del sistema della pena. Il divieto di uccidere Caino sta appunto a
testimoniare che, nonostante l’emergere dell’individualismo, i princìpi
democratici del collettivismo non erano stati dimenticati.
Viceversa, il divieto mosaico fa la sua
comparsa in un contesto dove, evidentemente, per rispettare la persona non era
più sufficiente rifarsi alle tradizioni orali, ma occorreva una legge scritta:
segno, questo, che il distacco dai princìpi del comunismo primitivo era
diventato progressivo, forse irreversibile. Di qui, l’esigenza d’imporre al
colpevole una pena proporzionata e di risarcire la vittima del danno subìto. La
giustizia, sempre meno possibile sul piano sociale, doveva almeno apparire su
quello giuridico, cioè su quello formale della legge.
Ora, prima di rispondere adeguatamente
alla domanda che sopra ci siamo posti, dobbiamo continuare a ripercorrere
l’analisi del CCC, che si sposta dall’Antico Testamento (A.T.) al Nuovo,
esaminando la figura chiave di Gesù Cristo.
Per gli autori del CCC, Cristo non sarebbe
che un “nuovo Abele” che porge l’altra guancia, ama i propri nemici, non si
difende da chi lo accusa ingiustamente. etc (2262).
Dopo aver dedicato tre paragrafi (2259-61)
al V.T., il CCC ne dedica uno solo al Nuovo. Perché? Semplicemente perché si
vuole far apparire il Cristo come un “perfezionatore” del divieto mosaico.
Pur di dimostrare che l’uomo è
intrinsecamente malvagio, Cristo, – secondo il CCC, – avrebbe non solo vietato
l’ira, l’odio e la vendetta, oltre che naturalmente l’omicidio, ma si sarebbe
anche offerto volontariamente come “agnello sacrificale” per i
peccati degli uomini. Egli dunque, in un certo senso, sarebbe stato vittima
della sua stessa “legge dell’amore assoluto”, che gli impediva di
trasformarsi in “giustiziere dei malvagi”.
Come si può notare, questa interpretazione
della vita di Cristo è assolutamente fantastica. La chiesa romana non ha qui
saputo cogliere la fondamentale differenza dalla legge mosaica che i vangeli
rappresentano, per i quali il “divieto di uccidere” è una
contraddizione in termini, finché non si pongono le basi sociali che tolgano al
delitto le sue motivazioni di fondo.
In effetti, se nel mentre si pone il
divieto non ci si preoccupa di creare una società veramente democratica, quel
divieto, alla lunga, non sortirà alcun effetto. E, viceversa, se si ha quella
preoccupazione, il divieto è altrettanto inutile, poiché non sarà in virtù di
esso che i cittadini si comporteranno in maniera non-violenta.
A parte questo, la Chiesa Romana non ha
mai neppure capito (o non lo ha mai voluto capire) il motivo per cui il Cristo
si lasciò giustiziare senza reagire. Lungi dal pensare che il potere dominante
avrebbe più facilmente rinunciato al proprio arbitrio, vedendo un innocente
salire tranquillamente sul patibolo, il Cristo deve, invece, aver atteso
(invano, purtroppo) che la propria liberazione fosse il frutto di una
convinzione largamente popolare, solo in virtù della quale si sarebbe sia
potuto vincere il dominio romano che costruire una nuova società civile.
Imporre il proprio progetto democratico
con colpi di stato, atti terroristici e cose simili non avrebbe certo
significato realizzare un’alternativa alla logica del potere dominante (romano
o ebraico che fosse).
Ora, finalmente, possiamo rispondere alla
suddetta domanda, se il lettore non l’ha già fatto per contro proprio. La
Chiesa è favorevole alla pena di morte sostanzialmente per questa ragione di
tipo “etico-religioso”: essendo la natura dell’uomo intrinsecamente malvagia,
la società ha il diritto, nei confronti di chi cerca di contenere tale
malvagità in una condotta il più possibile irreprensibile e, nonostante questo,
viene ucciso, di considerare la sua morte un delitto assolutamente
imperdonabile.
In altre parole, è intollerabile per la
chiesa veder uccidere un “innocente”, colui cioè che, meglio di altri, combatte
contro gli effetti deleteri del peccato originale (ma anche colui che, essendo
ancora troppo giovane d’età, non ha potuto sperimentare su di sé gli effetti o
le tentazioni di quella colpa). “L’omicida e coloro che volontariamente
cooperano all’uccisione commettono un peccato che grida vendetta al cielo”,
specie nei casi di “infanticidio, fratricidio, parricidio e uccisione
del coniuge” (2268).
Si deve, però, andare al paragrafo 1867
per accorgersi che fra i “peccati che gridano al cielo” non vi è solo
l’omicidio di Abele o la licenziosità dei Sodomiti, ma anche “il
lamento del popolo oppresso in Egitto; il lamento del forestiero, della vedova
e dell’orfano”. Infine, “l’ingiustizia verso il salariato”.
Ma, la cosa più singolare di tutta questa
esegesi del CCC, circa il divieto mosaico e la morte di Gesù, è che nella
seconda parte del capitolo (quella dedicata alla “legittima difesa”)
– e qui veniamo alla motivazione più propriamente politica, – la Chiesa romana,
servendosi delle sentenze dell’Aquinate, arriva a formulare cose del
tutto antievangeliche, che peggiorano persino la durezza della legge mosaica,
la quale prevedeva la pena di morte per i trasgressori di alcuni comandamenti.
Sulla base della motivazione vista sopra,
la Chiesa non ha espresso un parere chiaramente favorevole alla pena di morte.
Essa, infatti, si rende conto che, in quanto istituzione “religiosa”,
dev’essere sempre pronta al perdono.
Tuttavia, la trattazione religiosa
dell’argomento è stata condotta con abile maestria, evitando di esprimere
“giudizi di valore” categorici, sia per mostrare che il divieto mosaico “ha
una validità universale: obbliga tutti e ciascuno, sempre e dappertutto” (2261),
per cui la sua trasgressione non può che comportare gravissime conseguenze, sia
per suscitare nel lettore un senso di forte riprovazione nei confronti del
fatto che, nonostante la palese innocenza di Gesù, vi furono ugualmente delle
persone disposte a crocifiggerlo.
Come restare indifferenti al cospetto di
un’ingiustizia così grande? Il fatto che Cristo non abbia voluto difendersi,
non implica che nessuno debba farlo. Ciò che sul piano etico-religioso può
apparire inaccettabile, può non esserlo sul piano gius-politico.
Infatti, “l’amore verso se stessi
resta un principio fondamentale della moralità. E’, quindi, legittimo far
rispettare il proprio diritto alla vita”, “poiché, – come dice
Tommaso d’Aquino, – un uomo è tenuto di più a provvedere alla propria
vita che alla vita altrui” (2264).
Curiosa questa citazione
dell’illustre Dottore della Chiesa. Egli ha, senza dubbio, ragione
quando afferma che “se nel difendere la propria vita uno usa maggiore
violenza del necessario, il suo atto è illecito”. Ma che dire del fatto che
la legittima difesa venga invocata per tutelare un diritto esclusivamente
soggettivo? Da una Chiesa che pretende di fare dell’ideale “divino” la
sua raison d’être, sinceramente, ci si aspettava qualcosa di più
sublime.
In effetti, se la legittima difesa è il
modo migliore per garantire un proprio diritto, cosa dover pensare di quanti,
nella storia, vi hanno rinunciato per poter meglio affermare un “bene
comune”, cioè un valore, un ideale, un “diritto”, se si vuole,
o, comunque, una causa non puramente soggettiva? Cosa pensare di coloro che,
liberamente e consapevolmente, non perché desiderosi di morire martiri à
tout prix, hanno preferito l’idea del sacrificio personale a quella della
legittima difesa? Erano pazzi, ingenui, illusi o che altro? Il valore etico
(umano, ontologico) di una scelta esistenziale, può essere misurato in termini
meramente giuridici?
Quando poi ci si addentra sul piano più
propriamente politico-istituzionale, i limiti della chiesa cattolica si
evidenziano in tutta la loro crudezza. Se già avevamo messo in dubbio il valore
assoluto della legittima difesa (che va comunque salvaguardata) in nome
dell’interesse soggettivo, ora ci pare ancor più fuorviante l’affermazione
secondo cui la legittima difesa va considerata anche come un dovere da parte di
chi “è responsabile della vita altrui” (2265).
Come spesso succede le parole che si usano
non hanno mai un senso univoco, inequivocabile, ma sono sempre soggette a
fraintendimenti, anche quando si cerca di essere il più possibile aderenti alla
realtà, il più possibile “scientifici”: cioè, esiste sempre la
possibilità di dare alle parole un senso opposto a quello voluto, anche contro
la propria volontà, o, comunque, esiste sempre la possibilità che qualcuno non
ci capisca o non ci voglia capire. E così qui: chi metterebbe in dubbio che le
autorità costituite hanno il dovere di usare lo strumento della legittima
difesa per tutelare l’incolumità (non solo fisica) dei propri cittadini? Ma se
noi dicessimo: le autorità costituite, nell’adempiere al dovere di difendere i
cittadini, hanno il diritto di sostituirsi alla loro volontà, non susciteremmo
forse delle perplessità?
La frase incriminata dalle associazioni
pacifiste è stata la seguente: “la chiesa ha riconosciuto fondato [sottinteso:
"da sempre"] il diritto e il dovere della legittima [o
semplicemente "costituita"?] autorità pubblica di infliggere
pene proporzionate alla gravità del delitto, senza escludere, in casi di
estrema gravità, la pena di morte” (2266).
Si noti il sofisma dell’espressione “pene
proporzionate”: forse il popolo può impedire, nella concezione politica
della Chiesa, che lo Stato usi pene sproporzionate? E come lo potrebbe, visto e
considerato che, per la Chiesa, lo Stato è soggetto non alla “volontà
popolare”, ma solo alle “leggi” (1903), che devono essere
conformi a “un ordine prestabilito da Dio” (1901)?
Se la “volontà popolare” fosse
il principio fondamentale dello “Stato di diritto”, la pena di
morte potrebbe forse essere considerata una “pena proporzionata” a
un qualche particolare delitto? Sarebbe forse giusto dare per scontato che, ad
un certo punto, bisogna assolutamente negare al colpevole qualunque possibilità
di pentimento, ritenendolo unico vero responsabile del suo crimine? E’ forse
questo l’insegnamento del Cristo nell’episodio della “donna adultera” (Gv.
8,1ss.)?
Il fatto è che, – secondo gli autori
del CCC, – la società (e, quindi, la Chiesa) deve, comunque, difendersi da chi
la minaccia con l’uso della forza. Su questo, il CCC è molto esplicito: “i
detentori dell’autorità [qui considerati "sacri e inviolabili"] hanno
il diritto di usare le armi per respingere gli aggressori della comunità
civile…” (2266).
La chiesa non vuole prospettare, neanche
sul piano ipotetico, l’idea che gli aggressori si comportino così proprio
perché si appellano al principio della “legittima difesa” e
che i veri aggressori possano in realtà essere le stesse autorità
costituite. “La pena ha lo scopo di difendere l’ordine pubblico e la
sicurezza delle persone” (2266), sentenzia il CCC. Non ha, quindi,
senso chiedersi se tale difesa sia “sempre” lecita o se non sia meglio mettere
in discussione il valore del cosiddetto “ordine pubblico”.
Thomas More, martire della libertà di
coscienza, santificato dalla Chiesa romana nel 1935, disse nella sua Utopia:
gli Stati fondati sulla proprietà privata e il denaro “allevano dei
ladri per poi punirli con la morte”.
F. Engels, tre secoli dopo, dirà la stessa
cosa in La situazione della classe operaia in Inghilterra: “Se
la società toglie a migliaia di individui il necessario per l’esistenza…; se
mediante la forza della legge li costringe a rimanere in tali condizioni,
finché non sopraggiunga la morte… questo è assassinio… contro il quale nessuno
può difendersi… perché non si vede l’assassino, perché questo assassino sono
tutti e nessuno, perché la morte della vittima appare come una morte naturale e
perché esso non è tanto un peccato di opera, quanto un peccato di omissione”.
Naturalmente, gli esegeti più ipocriti
sostengono che la Chiesa si limita a “riconoscere” agli Stati l’uso estremo
della pena di morte, senza farsi sua diretta sostenitrice. Ciò in realtà è
falso, sia perché la Chiesa ha abolito, de jure, in Vaticano tale
forma di condanna solo nel 1969 (per comodità affaristica di riconoscimenti
nell’Unione Europea), sia perché la necessità di tale pena si evince, – come si
è visto, – dai suoi stessi argomenti di tipo religioso, sia perché, infine, il
Vaticano assai raramente (o mai?) si è pronunciato contro gli Stati che
comminano sentenze capitali (opposizioni alla pena di morte è possibile
riscontrarle solo in chiese locali o nazionali, come, ad esempio, nella Commissione
per la Vita della Conferenza Episcopale Cattolica degli USA).
In realtà, a queste conclusioni assai poco
democratiche, si perviene quando il problema della responsabilità penale viene
affrontato in termini puramente idealistici o giuridici, senza tener conto di
alcun riferimento storico o sociale concreto.
“La pena, –
dice il CCC, – ha valore di espiazione” (2266), in quanto
il colpevole è solo colpevole. Il riferimento qui
và soprattutto al caso dell’omicidio volontario, per il quale non esistono
attenuanti. Solo quando si parla di quello involontario (come se, sul piano
etico, si potesse fare una distinzione così precisa), gli autori del CCC fanno
un’annotazione complementare usando i caratteri piccoli: “Tollerare, –
viene detto, – da parte della società umana, condizioni di miseria che
portano alla morte senza che ci si sforzi di porvi rimedio, è una scandalosa
ingiustizia e una colpa grave”(2269). La Chiesa qui intende riferirsi a
coloro che usano “pratiche usuraie e mercantili”. Costoro,
indirettamente (solo indirettamente in una società capitalistica?) “commettono
un omicidio”.
Il CCC, insomma, non si preoccupa di
“capire” il crimine di chi, sottoposto a condizioni di vita disumane, reagisce
istintivamente facendosi giustizia da sé. Non si preoccupa minimamente di
giustificare coloro che, sottoposti alle medesime condizioni, ad un certo punto
decidono di organizzarsi politicamente per rovesciare i poteri costituiti. Si
preoccupa soltanto di trovare dei “colpevoli”, siano essi volontari o
involontari, diretti o indiretti, lasciando da parte tutte le responsabilità
che possono avere gli Stati e le istituzioni di potere, nonché i gruppi sociali
dominanti di una determinata società.
Ormai, come ognuno si sarà certamente
accorto, le parole non hanno più alcun significato. La Chiesa è disposta ad
affermare tutto ed il contrario di tutto, cioè tutto quanto fa parte del suo
impianto strettamente conservatore e, per essere più credibile, alcune cose che
fanno parte dell’ideologia laica e democratica.
Il problema non sta più nella scelta delle
parole, ma solo nell’atteggiamento che il credente deve tenere nei confronti
della Chiesa. E l’atteggiamento giusto, a quanto pare, visto che nessun alto
esponente della Curia vaticana l’ha contestato, può essere considerato quello
delle cattolicissime Filippine, il cui Parlamento, il 23 febbraio 1993, ha
reintrodotto, nonostante l’opposizione della Conferenza Episcopale
Filippina, la pena di morte, dopo averla abolita nel 1987, proprio facendo
leva sulle affermazioni del Catechismo Universale.
Contenuti
tratti da: http://www.homolaicus.com/teorici/wojtyla/pena_morte.htm
Pigrizia intellettuale e teoria della
responsabilità sociale
In un paese dove vige la pena di morte che
senso può avere la teoria del ragionevole dubbio? Non è forse una
contraddizione in termini?
Se anche dal punto di vista tecnico/materiale,
non vi fossero dubbi circa la consapevolezza di una persona da condannare a
morte, chi ci assicura che non esisterebbero dubbi dal punto di vista morale?
Come si può pensare che un individuo sano
di mente possa compiere un delitto nella più assoluta libertà di scelta?
Se una persona fosse assolutamente libera
di scegliere perché dovrebbe scegliere una cosa che le farebbe perdere la
libertà?
Nessuno vive così isolato dagli altri da
poter dire con sicurezza: “Ho scelto liberamente, senza condizionamenti
di sorta”. Chi vivesse isolato dal mondo, probabilmente, non si porrebbe
neanche il problema di compiere un delitto. Non ne avrebbe motivo. A meno che
l’isolamento non fosse una sorta di punizione inflitta in precedenza: il che
potrebbe portare a risentimenti e a esigenze di vendetta personale.
Viviamo in una società in cui i
condizionamenti sono reciproci: dunque, per quale motivo quando si tratta di
giudicare qualcuno, lo consideriamo come un individuo isolato e lo carichiamo
di responsabilità più grandi di quelle che potrebbe avere nella vita reale?
Gli uomini vivono assieme come tanti
individui isolati: costituiscono una comunità per via indotta,
involontariamente, non per libera scelta (questo senza considerare che la
comunità dovrebbe far parte in maniera naturale della vita di una persona, sin
dalla sua nascita). Nella vita reale, non si è capaci di assumere
reciprocamente le responsabilità altrui. Sicché quando qualcuno commette un
reato, viene lasciato solo, con tutte le sue responsabilità.
Eppure, l’isolamento che si vive in
società è anch’esso una forma di condizionamento, un peso da sopportare. Si
possono commettere azioni criminose non perché si è isolati dalla società,
ma proprio perché si è isolati nella società.
Il crimine è sempre frutto di un
condizionamento sociale: ecco perché, indirettamente, si è tutti colpevoli. Il
crimine dovrebbe essere considerato come occasione per ripensare i criteri del
vivere civile.
Insomma, la teoria del ragionevole dubbio
dovrebbe spingersi sino al concorso morale, indiretto, che può avere la società
nei confronti dell’imputato che ha commesso un reato.
Anche la teoria della presunzione
d’innocenza, in tal senso, andrebbe rivista. Non ha senso sostenere che uno è
innocente finché non si è dimostrata la colpevolezza. Bisognerebbe anzi
sostenere il contrario e, cioè, che in un modo o nell’altro siamo tutti colpevoli
e che quando si tratta di giudicare qualcuno, anzitutto, bisognerebbe chiedersi
che cosa si è fatto per impedire che un determinato reato venisse compiuto.
Bisognerebbe partire da premesse di
colpevolezza sociale, in modo da non far sentire l’imputato un individuo
isolato, un estraniato.
Questo, ovviamente, non significa che il
reato non deve essere punito o che bisogna essere pietisti ad oltranza.
Significa, semplicemente, che, nei confronti del reato, bisogna assumere un
atteggiamento pedagogico.
Il reato è un indizio di malessere
sociale. Dall’analisi dei sintomi, bisogna saper trovare una terapia per
vincere un male che ha radici nella società e nella sua cultura.
Dobbiamo abituarci a considerare i
condizionamenti sociali non come un limite alla libertà, ma come il fondamento
su cui la libertà và costruita.
Siamo liberi, appunto, perché
condizionati.
Il nostro compito è quello di rendere
positivi questi condizionamenti, affinché siano utili alla libertà.
Contenuti
tratti da: http://www.homolaicus.com/teorici/wojtyla/pena_morte.htmL’insegnamento tradizionale della Chiesa
non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della
responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa
fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto
la vita di esseri umani.
Da fonti varie,
a cura di Nino Caliendo
Nella Bibbia
Nella Bibbia sono elencate situazioni in
cui, nelle leggi che Dio dà a Mosé per esporle al popolo ebraico, si stabilisce
la pena capitale come punizione per determinate colpe. Ad esempio, nell’Antico
Testamento è scritto:
“Colui che colpisce un uomo causandone la
morte, sarà messo a morte “ (Esodo 21,12).
Nell’Antico Testamento (Genesi, 2,12-15)
esistono alcuni passi in cui Dio condanna la vendetta umana, minacciando
punizioni peggiori (“sette volte” e
“settanta volte sette”) per chi avesse ucciso Caino e Lamech.
Diversi passi, in prevalenza dell’Antico
Testamento, affermano la legittimità della pena di morte quando è violata la
legge di Mosé. A questi si aggiungono gli episodi di guerra e della storia del
popolo eletto, dove i nemici periscono per volontà divina. Riguardo alla
violazione della legge ebraica, nella Lettera agli Ebrei 10,28: “Quando
qualcuno ha violato la legge di Mosé, viene messo a morte senza pietà sulla
parola di due o tre testimoni”. In Levitico 24,16 viene messo a morte “Chi
bestemmia il nome del Signore”, in Levitico 20,10 chi commette adulterio,
in 27,29 “Nessuna persona votata allo sterminio potrà essere
riscattata; dovrà essere messa a morte” e in Levitico 24,17 “Chi
percuote a morte un uomo”. In Esodo 21,17 viene messo a morte chi maledice
il padre o la madre.
Il passo è ripreso nel Nuovo Testamento,
da Vangelo di Marco 7,10: “…infatti disse: Onora tuo padre e tua madre,
e chi maledice il padre e la madre sia messo a morte”. In Numeri 35,30, si
afferma che non si può accettare un prezzo di riscatto da un omicida: “Se
uno uccide un altro, l’omicida sarà messo a morte in seguito a deposizione di
testimoni, ma un unico testimone non basterà per condannare a morte una
persona. Non accetterete prezzo di riscatto per la vita di un omicida, reo di
morte, perché dovrà essere messo a morte”.
La morte del colpevole avveniva per
lapidazione. Questa forma di esecuzione coinvolge tutta la comunità locale
adulta, che collettivamente è chiamata ad applicare la legge, e risparmia
l’individuazione di un singolo come boia.
Nel Nuovo Testamento, Gesù richiama più
volte al perdono e condanna l’episodio della lapidazione della donna adultera:
“Chi di voi è senza
peccato, scagli per primo la pietra contro di lei” (Giovanni
8,7).
Pensatori cristiani
Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino
sostengono la liceità della pena di morte sulla base del concetto della
conservazione del bene comune. L’argomentazione di Tommaso d’Aquino è la
seguente:
“Come è lecito, anzi
doveroso, estirpare un membro malato per salvare tutto il corpo, così quando
una persona è divenuta un pericolo per la comunità o è causa di corruzione
degli altri, essa viene eliminata per garantire la salvezza della comunità” (Summa
theologiae II-II, q. 29, artt. 37-42).
Il teologo sosteneva, tuttavia, che la
pena andasse inflitta solo al colpevole di gravissimi delitti, mentre,
all’epoca, veniva utilizzata con facilità e grande discrezionalità.
Lo Stato pontificio ha mantenuto nel suo
ordinamento la pena di morte fino al XX secolo.
Dottrina cattolica odierna
Il Catechismo della Chiesa
Cattolica (1997) parla della pena di morte all’interno della
trattazione sul quinto comandamento, “Non uccidere” e, più
specificamente, nel sottotitolo che tratta della legittima difesa.
In questo contesto dice (n. 2266-2267):
“2266: Corrisponde ad un’esigenza
di tutela del bene comune lo sforzo dello Stato inteso a contenere il
diffondersi di comportamenti lesivi dei diritti dell’uomo e delle regole
fondamentali della convivenza civile. La legittima autorità pubblica ha il
diritto ed il dovere di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto.
La pena ha innanzi tutto lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla
colpa. Quando è volontariamente accettata dal colpevole, essa assume valore di
espiazione. La pena poi, oltre che a difendere l’ordine pubblico e a tutelare
la sicurezza delle persone, mira ad uno scopo medicinale: nella misura del
possibile, essa deve contribuire alla correzione del colpevole”.
“2267: L’insegnamento tradizionale
della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della
responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa
fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto
la vita di esseri umani.
Se invece i mezzi incruenti sono
sufficienti per difendere dall’aggressore e per proteggere la sicurezza delle
persone, l’autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio
rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla
dignità della persona umana…”
La pena di morte in Città del Vaticano
venne rimossa dalla Legge Fondamentale solo il 12 febbraio
2001, forse per convenienza UE, visto che l’Unione Europea non ammette la pena
capitale e, di conseguenza, gli Stati che la prevedono.
Nel giugno 2004, l’allora cardinale Joseph
Ratzinger, attuale papa Benedetto XVI, inviò, in qualità di prefetto
della Congregazione per la Dottrina della Fede, una lettera al
cardinale Theodore Edgar McCarrick, – arcivescovo di Washington, – e
all’arcivescovo Wilton Daniel Gregory, – presidente della Conferenza Episcopale
degli Stati Uniti, – nella quale affermava che può tuttavia essere
consentito [...] fare ricorso alla pena di morte
Contenuti
tratti da: http://it.wikipedia.org/wiki/Pena_di_morte
Se l’art. 2261 del Nuovo Catechismo
afferma che: “La Scrittura precisa la proibizione del quinto comandamento:
non far morire l’innocente e il giusto” (Es 23,7), è consequenziale
che: “Il comandamento ‘Non uccidere’ ha valore assoluto quando si
riferisce alla persona innocente” (Evangelium vitae, n° 57) e
valore relativo quando si riferisce alla persona colpevole.
Infatti, l’art. 2267 del Nuovo Catechismo
conferma che: “L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude,
supposto il pieno accertamento dell’ identità e della responsabilità del
colpevole, il ricorso alla pena di morte”.
La Chiesa, dunque, riconosce all’autorità
pubblica il potere di applicare la pena di morte, nei confronti delle persone
colpevoli, perché la “Scrittura” e, più precisamente, il versetto 7 del
capitolo 23 dell’Esodo “non far morire l’innocente e il giusto“,
preciserebbe che il comandamento “Non uccidere” è stato
formulato da Dio per proteggere la vita delle persone innocenti, ma non le
colpevoli.
Ma la Chiesa è proprio certa che questa
dottrina così inumana sia conforme alla legge divina e non sia, piuttosto,
frutto di conformazione umana?
Se di fronte alla legge umana, tutte le persone
sono considerate uguali: “La legge è uguale per tutti”, quanto più,
tutte le persone, dovrebbero essere considerate uguali di fronte alla legge di
Dio, che possiede carattere universale?
Mentre, per il Catechismo, di fronte alla
legge divina: “Non uccidere”, le persone non sono considerata tutte
uguali, ma, a priori, separate le buone dalle cattive e proprio le cattive, per
le quali Dio ha istituita la legge, defraudate dai benefici.
In realtà, la “Scrittura” di cui parla il
Catechismo, che “precisa la proibizione del quinto comandamento”, si riduce ad
un versetto dell’Antico Testamento: “Non far morire l’innocente e il
giusto“, formulato, peraltro, in modo incompleto, infatti, citato per
intero: “Starai lontano dalla parola falsa e non ucciderai l’innocente
e il giusto perché io non dichiaro giusto il colpevole“ (Es 23,7),
rivela la vera intenzione dell’autore sacro, che non è certo quella di voler
precisare la proibizione del quinto comandamento, come dichiara il Catechismo,
ma formare le coscienze umane al giusto comportamento morale che devono
assumere i soggetti giuridici nell’ambito di un processo penale: Dio vieta,
categoricamente, ai giudici e ai testimoni, di ricorrere a parole false per
deviare il corso della giustizia, provocando la condanna dell’innocente e
l’assoluzione del colpevole. Intenzione che, l’autore sacro sottolinea anche
con il versetto precedente: “Non farai deviare il giudizio del povero,
che si rivolge a te nel suo processo“ (Es 23,6).
Tra l’altro, non spetta all’Antico Testamento
stabilire le verità divine in materia di fede e di morale, ma al Nuovo
Testamento e in esso non vi è un solo versetto che autorizzi la Chiesa a
legittimare la pena di morte, una pena di natura vendicativa, assolutamente
contraria al perdono, il quale costituisce il DNA dello spirito cristiano.
Unitamente alla pena di morte, anche la
“tortura” è stata sempre considerata dalla Chiesa moralmente lecita: solo con
il Concilio Vaticano II è stata, finalmente, esclusa e
condannata.
Intanto, prima che fosse rigettata, un
numero infinito di persone, che solo Dio conosce, ha dovuto soffrire atrocità
incredibili e tante di esse sono morte a causa di questa dottrina legittimata
dalla Chiesa.
Ora, però, che il Concilio si
è espresso in modo autentico e ufficiale contro tutte: “…le torture
inflitte al corpo alla mente…ledono grandemente l’onore del creatore” (Gaudim
et spes n° 27) può la Chiesa continuare a considerare lecita la pena di morte?
Non è forse la pena di morte una pratica di tortura inflitta al corpo e alla
mente?
Da: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3721
Il Catechismo e la pena di morte
Cesare Beccaria, a proposito della pena di
morte, nel pamphlet “Dei delitti e delle pene”, nel 1764,
scriveva: “Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della
pubblica volontà, che detestano e puniscano l’omicidio, ne commettano uno esse
medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordini un pubblico
assassinio”.
Il Granducato di Toscana, nel 1786, fu il
primo Stato al mondo ad abolire la pena di morte.
Su iniziativa dell’Italia, l’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite, il 18 Dicembre 2007, ha approvato la risoluzione per
la moratoria universale contro la pena di morte nel mondo.
Ma, il punto 2267 de “Il nuovo
catechismo della Chiesa cattolica” (1992, rivisto nel 1999) così
recita:
“L’insegnamento tradizionale della Chiesa
non esclude (…) il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via
praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di
esseri umani (…). Oggi (…) i casi di assoluta necessità di soppressione del reo
sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti” (quest’ultimo
paragrafo, aggiunto successivamente, proviene dall’enciclica di Giovanni Paolo
II “Evangelium vitae” del 1995).
Ecco l’assurdo! La Chiesa, nella sua dottrina
fondamentale, il Catechismo, mantiene ancora la pena di morte,
anche se edulcorata dall’aggiunta di un paragrafetto dell’enciclica sopradetta.
Le lancette del tempo sembrano essersi
fermate, meno male che la… Santa Inquisizione è lontana!
Eppure, nel Nuovo testamento, Gesù invoca il perdono nell’episodio
della lapidazione della donna adultera: “Chi di voi è senza peccato,
scagli per primo la pietra contro di lei” (Giovanni 1 cap 8,
7).
E Giovanni Paolo II dichiara, durante la
visita negli USA, che la Chiesa è “incondizionatamente a favore della
vita” e che, essendo la nostra società “in possesso dei mezzi
per proteggersi (…), la pena si morte è crudele e non necessaria”.
Insomma, sembra l’applicazione completa
del V comandamento: non uccidere. Ma non è così. Infatti, quando si
afferma che sono rari i casi “di assoluta necessità di soppressione del
reo”, si ammette che in qualche caso la pena di morte è riconosciuta.
Qualcuno scrive che questo vale per
la legittima difesa (punto 2266). Ma quanti innocenti,
nel Far West del mondo civilizzato, vengono uccisi in nome
della legittima difesa? Quando, allora, si può parlare di legittima
difesa, ovvero quale tipo di reato autorizza alla pena capitale?
E, se “la pena di morte è crudele
e non necessaria”, perché viene ancora mantenuto nel Catechismo il punto
2267, che rappresenta un affronto all’etica del perdono e della misericordia e
lascia l’impressione che si possa, in qualche caso, utilizzarlo?
di Governanti
- www.governanti.blogspot.com
Il Catechismo Universale e la pena di
morte
Si è fatto un gran discutere, in ambienti
pacifisti e non-violenti, come, ad esempio Amnesty International,
circa le motivazioni che possono aver indotto la chiesa cattolica ad accettare
– come risulta dal paragrafo 2266 del recente Catechismo Universale (CCC)
– la pena di morte, seppure “in casi di estrema gravità”.
Vediamo le prime.
Al paragrafo 2259, dicono gli autori del
CCC: “La Scrittura, nel racconto dell’uccisione di Abele da parte del
fratello Caino, rivela, fin dagli inizi della storia umana, la presenza
nell’uomo della collera e della cupidigia, conseguenze del peccato originale”.
Il riferimento al cosiddetto “peccato
originale”, ogni qualvolta si deve cercare di spiegare la causa di taluni
malesseri sociali, è praticamente una costante nella teologia cattolica.
Al paragrafo successivo gli autori
ricordano che “l’alleanza [vetero testamentaria] di
Dio e dell’umanità è intessuta di richiami al dono divino della vita umana e
alla violenza omicida dell’uomo”(2260).
Dei due “richiami”, quello che più preme
sottolineare agli autori non è il primo, – come sarebbe naturale per una
istituzione (la Chiesa) che predica la legge dell’amore -, bensì il secondo. E
di questo l’aspetto da essi considerato più significativo non è tanto il puro e
semplice “divieto di non uccidere”, quanto piuttosto il divieto di
uccidere “l’innocente e il giusto” (2261): peccato, questo, “gravemente
contrario alla dignità dell’essere umano”.
Ora, proviamo a chiederci: per quale
ragione la chiesa cattolica ritiene che “l’uccisione volontaria di un
innocente è gravemente contraria alla dignità dell’essere umano” (2261)?
Cioè, per quale ragione essa non si limita ad affermare che l’essere umano in
quanto tale, santo o peccatore che sia, non meriterebbe mai di morire in modo
violento?
La Chiesa Romana, – qui autorevolmente
rappresentata da un Catechismo Universale, -non è in grado di trarre le logiche
conseguenze dalla sua teoria del peccato originale, perché finirebbe in un
groviglio inestricabile di contraddizioni. A noi, invece, interessa mettere in
luce il seguente, inevitabile, sillogismo: se la natura umana è intrinsecamente
malvagia, allora anche Abele era “colpevole”, ma se egli era “colpevole”,
il delitto di Caino, in sé pur grave, va ricompreso sulla base di ogni
possibile attenuante, onde ostacolarne la reiterazione. Qui, naturalmente, non
è il caso di verificare ciò che Caino e Abele simbolicamente rappresentavano
nel racconto del Genesi. Dobbiamo limitarci a considerazioni astratte.
Quel che è certo è che nel racconto
biblico la “dignità dell’essere umano” dipendeva da altro
rispetto alla legge, poiché Caino fu punito prima che venisse formulato il
divieto del quinto comandamento.
Non solo, ma egli venne “marchiato” proprio
per impedire che qualcuno commettesse un secondo delitto, cioè che usasse
vendetta contro di lui. Se a quel tempo avessero dato per scontata l’intrinseca
malvagità umana, alla prima manifestazione di questa non ci sarebbe stata altra
soluzione che l’esecuzione capitale.
Sicché si può tranquillamente affermare
con A. Schenker che ai tempi di Caino era la dignità dell’uomo ad essere
considerata intrinseca all’uomo stesso. Il peccato originale, cioè la
violazione delle modalità del comunismo primitivo, se comportò la nascita
dell’individualismo, non determinò affatto l’impossibilità di opporvisi. Ancora
non esistevano né l’idea dell’espiazione né il principio della retribuzione
come base del sistema della pena. Il divieto di uccidere Caino sta appunto a
testimoniare che, nonostante l’emergere dell’individualismo, i princìpi
democratici del collettivismo non erano stati dimenticati.
Viceversa, il divieto mosaico fa la sua
comparsa in un contesto dove, evidentemente, per rispettare la persona non era
più sufficiente rifarsi alle tradizioni orali, ma occorreva una legge scritta:
segno, questo, che il distacco dai princìpi del comunismo primitivo era
diventato progressivo, forse irreversibile. Di qui, l’esigenza d’imporre al
colpevole una pena proporzionata e di risarcire la vittima del danno subìto. La
giustizia, sempre meno possibile sul piano sociale, doveva almeno apparire su
quello giuridico, cioè su quello formale della legge.
Ora, prima di rispondere adeguatamente
alla domanda che sopra ci siamo posti, dobbiamo continuare a ripercorrere
l’analisi del CCC, che si sposta dall’Antico Testamento (A.T.) al Nuovo,
esaminando la figura chiave di Gesù Cristo.
Per gli autori del CCC, Cristo non sarebbe
che un “nuovo Abele” che porge l’altra guancia, ama i propri nemici, non si
difende da chi lo accusa ingiustamente. etc (2262).
Dopo aver dedicato tre paragrafi (2259-61)
al V.T., il CCC ne dedica uno solo al Nuovo. Perché? Semplicemente perché si
vuole far apparire il Cristo come un “perfezionatore” del divieto mosaico.
Pur di dimostrare che l’uomo è
intrinsecamente malvagio, Cristo, – secondo il CCC, – avrebbe non solo vietato
l’ira, l’odio e la vendetta, oltre che naturalmente l’omicidio, ma si sarebbe
anche offerto volontariamente come “agnello sacrificale” per i
peccati degli uomini. Egli dunque, in un certo senso, sarebbe stato vittima
della sua stessa “legge dell’amore assoluto”, che gli impediva di
trasformarsi in “giustiziere dei malvagi”.
Come si può notare, questa interpretazione
della vita di Cristo è assolutamente fantastica. La chiesa romana non ha qui
saputo cogliere la fondamentale differenza dalla legge mosaica che i vangeli
rappresentano, per i quali il “divieto di uccidere” è una
contraddizione in termini, finché non si pongono le basi sociali che tolgano al
delitto le sue motivazioni di fondo.
In effetti, se nel mentre si pone il
divieto non ci si preoccupa di creare una società veramente democratica, quel
divieto, alla lunga, non sortirà alcun effetto. E, viceversa, se si ha quella
preoccupazione, il divieto è altrettanto inutile, poiché non sarà in virtù di
esso che i cittadini si comporteranno in maniera non-violenta.
A parte questo, la Chiesa Romana non ha
mai neppure capito (o non lo ha mai voluto capire) il motivo per cui il Cristo
si lasciò giustiziare senza reagire. Lungi dal pensare che il potere dominante
avrebbe più facilmente rinunciato al proprio arbitrio, vedendo un innocente
salire tranquillamente sul patibolo, il Cristo deve, invece, aver atteso
(invano, purtroppo) che la propria liberazione fosse il frutto di una
convinzione largamente popolare, solo in virtù della quale si sarebbe sia
potuto vincere il dominio romano che costruire una nuova società civile.
Imporre il proprio progetto democratico
con colpi di stato, atti terroristici e cose simili non avrebbe certo
significato realizzare un’alternativa alla logica del potere dominante (romano
o ebraico che fosse).
Ora, finalmente, possiamo rispondere alla
suddetta domanda, se il lettore non l’ha già fatto per contro proprio. La
Chiesa è favorevole alla pena di morte sostanzialmente per questa ragione di
tipo “etico-religioso”: essendo la natura dell’uomo intrinsecamente malvagia,
la società ha il diritto, nei confronti di chi cerca di contenere tale
malvagità in una condotta il più possibile irreprensibile e, nonostante questo,
viene ucciso, di considerare la sua morte un delitto assolutamente
imperdonabile.
In altre parole, è intollerabile per la
chiesa veder uccidere un “innocente”, colui cioè che, meglio di altri, combatte
contro gli effetti deleteri del peccato originale (ma anche colui che, essendo
ancora troppo giovane d’età, non ha potuto sperimentare su di sé gli effetti o
le tentazioni di quella colpa). “L’omicida e coloro che volontariamente
cooperano all’uccisione commettono un peccato che grida vendetta al cielo”,
specie nei casi di “infanticidio, fratricidio, parricidio e uccisione
del coniuge” (2268).
Si deve, però, andare al paragrafo 1867
per accorgersi che fra i “peccati che gridano al cielo” non vi è solo
l’omicidio di Abele o la licenziosità dei Sodomiti, ma anche “il
lamento del popolo oppresso in Egitto; il lamento del forestiero, della vedova
e dell’orfano”. Infine, “l’ingiustizia verso il salariato”.
Ma, la cosa più singolare di tutta questa
esegesi del CCC, circa il divieto mosaico e la morte di Gesù, è che nella
seconda parte del capitolo (quella dedicata alla “legittima difesa”)
– e qui veniamo alla motivazione più propriamente politica, – la Chiesa romana,
servendosi delle sentenze dell’Aquinate, arriva a formulare cose del
tutto antievangeliche, che peggiorano persino la durezza della legge mosaica,
la quale prevedeva la pena di morte per i trasgressori di alcuni comandamenti.
Sulla base della motivazione vista sopra,
la Chiesa non ha espresso un parere chiaramente favorevole alla pena di morte.
Essa, infatti, si rende conto che, in quanto istituzione “religiosa”,
dev’essere sempre pronta al perdono.
Tuttavia, la trattazione religiosa
dell’argomento è stata condotta con abile maestria, evitando di esprimere
“giudizi di valore” categorici, sia per mostrare che il divieto mosaico “ha
una validità universale: obbliga tutti e ciascuno, sempre e dappertutto” (2261),
per cui la sua trasgressione non può che comportare gravissime conseguenze, sia
per suscitare nel lettore un senso di forte riprovazione nei confronti del
fatto che, nonostante la palese innocenza di Gesù, vi furono ugualmente delle
persone disposte a crocifiggerlo.
Come restare indifferenti al cospetto di
un’ingiustizia così grande? Il fatto che Cristo non abbia voluto difendersi,
non implica che nessuno debba farlo. Ciò che sul piano etico-religioso può
apparire inaccettabile, può non esserlo sul piano gius-politico.
Infatti, “l’amore verso se stessi
resta un principio fondamentale della moralità. E’, quindi, legittimo far
rispettare il proprio diritto alla vita”, “poiché, – come dice
Tommaso d’Aquino, – un uomo è tenuto di più a provvedere alla propria
vita che alla vita altrui” (2264).
Curiosa questa citazione
dell’illustre Dottore della Chiesa. Egli ha, senza dubbio, ragione
quando afferma che “se nel difendere la propria vita uno usa maggiore
violenza del necessario, il suo atto è illecito”. Ma che dire del fatto che
la legittima difesa venga invocata per tutelare un diritto esclusivamente
soggettivo? Da una Chiesa che pretende di fare dell’ideale “divino” la
sua raison d’être, sinceramente, ci si aspettava qualcosa di più
sublime.
In effetti, se la legittima difesa è il
modo migliore per garantire un proprio diritto, cosa dover pensare di quanti,
nella storia, vi hanno rinunciato per poter meglio affermare un “bene
comune”, cioè un valore, un ideale, un “diritto”, se si vuole,
o, comunque, una causa non puramente soggettiva? Cosa pensare di coloro che,
liberamente e consapevolmente, non perché desiderosi di morire martiri à
tout prix, hanno preferito l’idea del sacrificio personale a quella della
legittima difesa? Erano pazzi, ingenui, illusi o che altro? Il valore etico
(umano, ontologico) di una scelta esistenziale, può essere misurato in termini
meramente giuridici?
Quando poi ci si addentra sul piano più
propriamente politico-istituzionale, i limiti della chiesa cattolica si
evidenziano in tutta la loro crudezza. Se già avevamo messo in dubbio il valore
assoluto della legittima difesa (che va comunque salvaguardata) in nome
dell’interesse soggettivo, ora ci pare ancor più fuorviante l’affermazione
secondo cui la legittima difesa va considerata anche come un dovere da parte di
chi “è responsabile della vita altrui” (2265).
Come spesso succede le parole che si usano
non hanno mai un senso univoco, inequivocabile, ma sono sempre soggette a
fraintendimenti, anche quando si cerca di essere il più possibile aderenti alla
realtà, il più possibile “scientifici”: cioè, esiste sempre la
possibilità di dare alle parole un senso opposto a quello voluto, anche contro
la propria volontà, o, comunque, esiste sempre la possibilità che qualcuno non
ci capisca o non ci voglia capire. E così qui: chi metterebbe in dubbio che le
autorità costituite hanno il dovere di usare lo strumento della legittima
difesa per tutelare l’incolumità (non solo fisica) dei propri cittadini? Ma se
noi dicessimo: le autorità costituite, nell’adempiere al dovere di difendere i
cittadini, hanno il diritto di sostituirsi alla loro volontà, non susciteremmo
forse delle perplessità?
La frase incriminata dalle associazioni
pacifiste è stata la seguente: “la chiesa ha riconosciuto fondato [sottinteso:
"da sempre"] il diritto e il dovere della legittima [o
semplicemente "costituita"?] autorità pubblica di infliggere
pene proporzionate alla gravità del delitto, senza escludere, in casi di
estrema gravità, la pena di morte” (2266).
Si noti il sofisma dell’espressione “pene
proporzionate”: forse il popolo può impedire, nella concezione politica
della Chiesa, che lo Stato usi pene sproporzionate? E come lo potrebbe, visto e
considerato che, per la Chiesa, lo Stato è soggetto non alla “volontà
popolare”, ma solo alle “leggi” (1903), che devono essere
conformi a “un ordine prestabilito da Dio” (1901)?
Se la “volontà popolare” fosse
il principio fondamentale dello “Stato di diritto”, la pena di
morte potrebbe forse essere considerata una “pena proporzionata” a
un qualche particolare delitto? Sarebbe forse giusto dare per scontato che, ad
un certo punto, bisogna assolutamente negare al colpevole qualunque possibilità
di pentimento, ritenendolo unico vero responsabile del suo crimine? E’ forse
questo l’insegnamento del Cristo nell’episodio della “donna adultera” (Gv.
8,1ss.)?
Il fatto è che, – secondo gli autori
del CCC, – la società (e, quindi, la Chiesa) deve, comunque, difendersi da chi
la minaccia con l’uso della forza. Su questo, il CCC è molto esplicito: “i
detentori dell’autorità [qui considerati "sacri e inviolabili"] hanno
il diritto di usare le armi per respingere gli aggressori della comunità
civile…” (2266).
La chiesa non vuole prospettare, neanche
sul piano ipotetico, l’idea che gli aggressori si comportino così proprio
perché si appellano al principio della “legittima difesa” e
che i veri aggressori possano in realtà essere le stesse autorità
costituite. “La pena ha lo scopo di difendere l’ordine pubblico e la
sicurezza delle persone” (2266), sentenzia il CCC. Non ha, quindi,
senso chiedersi se tale difesa sia “sempre” lecita o se non sia meglio mettere
in discussione il valore del cosiddetto “ordine pubblico”.
Thomas More, martire della libertà di
coscienza, santificato dalla Chiesa romana nel 1935, disse nella sua Utopia:
gli Stati fondati sulla proprietà privata e il denaro “allevano dei
ladri per poi punirli con la morte”.
F. Engels, tre secoli dopo, dirà la stessa
cosa in La situazione della classe operaia in Inghilterra: “Se
la società toglie a migliaia di individui il necessario per l’esistenza…; se
mediante la forza della legge li costringe a rimanere in tali condizioni,
finché non sopraggiunga la morte… questo è assassinio… contro il quale nessuno
può difendersi… perché non si vede l’assassino, perché questo assassino sono
tutti e nessuno, perché la morte della vittima appare come una morte naturale e
perché esso non è tanto un peccato di opera, quanto un peccato di omissione”.
Naturalmente, gli esegeti più ipocriti
sostengono che la Chiesa si limita a “riconoscere” agli Stati l’uso estremo
della pena di morte, senza farsi sua diretta sostenitrice. Ciò in realtà è
falso, sia perché la Chiesa ha abolito, de jure, in Vaticano tale
forma di condanna solo nel 1969 (per comodità affaristica di riconoscimenti
nell’Unione Europea), sia perché la necessità di tale pena si evince, – come si
è visto, – dai suoi stessi argomenti di tipo religioso, sia perché, infine, il
Vaticano assai raramente (o mai?) si è pronunciato contro gli Stati che
comminano sentenze capitali (opposizioni alla pena di morte è possibile
riscontrarle solo in chiese locali o nazionali, come, ad esempio, nella Commissione
per la Vita della Conferenza Episcopale Cattolica degli USA).
In realtà, a queste conclusioni assai poco
democratiche, si perviene quando il problema della responsabilità penale viene
affrontato in termini puramente idealistici o giuridici, senza tener conto di
alcun riferimento storico o sociale concreto.
“La pena, –
dice il CCC, – ha valore di espiazione” (2266), in quanto
il colpevole è solo colpevole. Il riferimento qui
và soprattutto al caso dell’omicidio volontario, per il quale non esistono
attenuanti. Solo quando si parla di quello involontario (come se, sul piano
etico, si potesse fare una distinzione così precisa), gli autori del CCC fanno
un’annotazione complementare usando i caratteri piccoli: “Tollerare, –
viene detto, – da parte della società umana, condizioni di miseria che
portano alla morte senza che ci si sforzi di porvi rimedio, è una scandalosa
ingiustizia e una colpa grave”(2269). La Chiesa qui intende riferirsi a
coloro che usano “pratiche usuraie e mercantili”. Costoro,
indirettamente (solo indirettamente in una società capitalistica?) “commettono
un omicidio”.
Il CCC, insomma, non si preoccupa di
“capire” il crimine di chi, sottoposto a condizioni di vita disumane, reagisce
istintivamente facendosi giustizia da sé. Non si preoccupa minimamente di
giustificare coloro che, sottoposti alle medesime condizioni, ad un certo punto
decidono di organizzarsi politicamente per rovesciare i poteri costituiti. Si
preoccupa soltanto di trovare dei “colpevoli”, siano essi volontari o
involontari, diretti o indiretti, lasciando da parte tutte le responsabilità
che possono avere gli Stati e le istituzioni di potere, nonché i gruppi sociali
dominanti di una determinata società.
Ormai, come ognuno si sarà certamente
accorto, le parole non hanno più alcun significato. La Chiesa è disposta ad
affermare tutto ed il contrario di tutto, cioè tutto quanto fa parte del suo
impianto strettamente conservatore e, per essere più credibile, alcune cose che
fanno parte dell’ideologia laica e democratica.
Il problema non sta più nella scelta delle
parole, ma solo nell’atteggiamento che il credente deve tenere nei confronti
della Chiesa. E l’atteggiamento giusto, a quanto pare, visto che nessun alto
esponente della Curia vaticana l’ha contestato, può essere considerato quello
delle cattolicissime Filippine, il cui Parlamento, il 23 febbraio 1993, ha
reintrodotto, nonostante l’opposizione della Conferenza Episcopale
Filippina, la pena di morte, dopo averla abolita nel 1987, proprio facendo
leva sulle affermazioni del Catechismo Universale.
Contenuti
tratti da: http://www.homolaicus.com/teorici/wojtyla/pena_morte.htm
Pigrizia intellettuale e teoria della
responsabilità sociale
In un paese dove vige la pena di morte che
senso può avere la teoria del ragionevole dubbio? Non è forse una
contraddizione in termini?
Se anche dal punto di vista tecnico/materiale,
non vi fossero dubbi circa la consapevolezza di una persona da condannare a
morte, chi ci assicura che non esisterebbero dubbi dal punto di vista morale?
Come si può pensare che un individuo sano
di mente possa compiere un delitto nella più assoluta libertà di scelta?
Se una persona fosse assolutamente libera
di scegliere perché dovrebbe scegliere una cosa che le farebbe perdere la
libertà?
Nessuno vive così isolato dagli altri da
poter dire con sicurezza: “Ho scelto liberamente, senza condizionamenti
di sorta”. Chi vivesse isolato dal mondo, probabilmente, non si porrebbe
neanche il problema di compiere un delitto. Non ne avrebbe motivo. A meno che
l’isolamento non fosse una sorta di punizione inflitta in precedenza: il che
potrebbe portare a risentimenti e a esigenze di vendetta personale.
Viviamo in una società in cui i
condizionamenti sono reciproci: dunque, per quale motivo quando si tratta di
giudicare qualcuno, lo consideriamo come un individuo isolato e lo carichiamo
di responsabilità più grandi di quelle che potrebbe avere nella vita reale?
Gli uomini vivono assieme come tanti
individui isolati: costituiscono una comunità per via indotta,
involontariamente, non per libera scelta (questo senza considerare che la
comunità dovrebbe far parte in maniera naturale della vita di una persona, sin
dalla sua nascita). Nella vita reale, non si è capaci di assumere
reciprocamente le responsabilità altrui. Sicché quando qualcuno commette un
reato, viene lasciato solo, con tutte le sue responsabilità.
Eppure, l’isolamento che si vive in
società è anch’esso una forma di condizionamento, un peso da sopportare. Si
possono commettere azioni criminose non perché si è isolati dalla società,
ma proprio perché si è isolati nella società.
Il crimine è sempre frutto di un
condizionamento sociale: ecco perché, indirettamente, si è tutti colpevoli. Il
crimine dovrebbe essere considerato come occasione per ripensare i criteri del
vivere civile.
Insomma, la teoria del ragionevole dubbio
dovrebbe spingersi sino al concorso morale, indiretto, che può avere la società
nei confronti dell’imputato che ha commesso un reato.
Anche la teoria della presunzione
d’innocenza, in tal senso, andrebbe rivista. Non ha senso sostenere che uno è
innocente finché non si è dimostrata la colpevolezza. Bisognerebbe anzi
sostenere il contrario e, cioè, che in un modo o nell’altro siamo tutti colpevoli
e che quando si tratta di giudicare qualcuno, anzitutto, bisognerebbe chiedersi
che cosa si è fatto per impedire che un determinato reato venisse compiuto.
Bisognerebbe partire da premesse di
colpevolezza sociale, in modo da non far sentire l’imputato un individuo
isolato, un estraniato.
Questo, ovviamente, non significa che il
reato non deve essere punito o che bisogna essere pietisti ad oltranza.
Significa, semplicemente, che, nei confronti del reato, bisogna assumere un
atteggiamento pedagogico.
Il reato è un indizio di malessere
sociale. Dall’analisi dei sintomi, bisogna saper trovare una terapia per
vincere un male che ha radici nella società e nella sua cultura.
Dobbiamo abituarci a considerare i
condizionamenti sociali non come un limite alla libertà, ma come il fondamento
su cui la libertà và costruita.
Siamo liberi, appunto, perché
condizionati.
Il nostro compito è quello di rendere
positivi questi condizionamenti, affinché siano utili alla libertà.
Contenuti
tratti da: http://www.homolaicus.com/teorici/wojtyla/pena_morte.htmL’insegnamento tradizionale della Chiesa
non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della
responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa
fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto
la vita di esseri umani.
Da fonti varie,
a cura di Nino Caliendo
Nella Bibbia
Nella Bibbia sono elencate situazioni in
cui, nelle leggi che Dio dà a Mosé per esporle al popolo ebraico, si stabilisce
la pena capitale come punizione per determinate colpe. Ad esempio, nell’Antico
Testamento è scritto:
“Colui che colpisce un uomo causandone la
morte, sarà messo a morte “ (Esodo 21,12).
Nell’Antico Testamento (Genesi, 2,12-15)
esistono alcuni passi in cui Dio condanna la vendetta umana, minacciando
punizioni peggiori (“sette volte” e
“settanta volte sette”) per chi avesse ucciso Caino e Lamech.
Diversi passi, in prevalenza dell’Antico
Testamento, affermano la legittimità della pena di morte quando è violata la
legge di Mosé. A questi si aggiungono gli episodi di guerra e della storia del
popolo eletto, dove i nemici periscono per volontà divina. Riguardo alla
violazione della legge ebraica, nella Lettera agli Ebrei 10,28: “Quando
qualcuno ha violato la legge di Mosé, viene messo a morte senza pietà sulla
parola di due o tre testimoni”. In Levitico 24,16 viene messo a morte “Chi
bestemmia il nome del Signore”, in Levitico 20,10 chi commette adulterio,
in 27,29 “Nessuna persona votata allo sterminio potrà essere
riscattata; dovrà essere messa a morte” e in Levitico 24,17 “Chi
percuote a morte un uomo”. In Esodo 21,17 viene messo a morte chi maledice
il padre o la madre.
Il passo è ripreso nel Nuovo Testamento,
da Vangelo di Marco 7,10: “…infatti disse: Onora tuo padre e tua madre,
e chi maledice il padre e la madre sia messo a morte”. In Numeri 35,30, si
afferma che non si può accettare un prezzo di riscatto da un omicida: “Se
uno uccide un altro, l’omicida sarà messo a morte in seguito a deposizione di
testimoni, ma un unico testimone non basterà per condannare a morte una
persona. Non accetterete prezzo di riscatto per la vita di un omicida, reo di
morte, perché dovrà essere messo a morte”.
La morte del colpevole avveniva per
lapidazione. Questa forma di esecuzione coinvolge tutta la comunità locale
adulta, che collettivamente è chiamata ad applicare la legge, e risparmia
l’individuazione di un singolo come boia.
Nel Nuovo Testamento, Gesù richiama più
volte al perdono e condanna l’episodio della lapidazione della donna adultera:
“Chi di voi è senza
peccato, scagli per primo la pietra contro di lei” (Giovanni
8,7).
Pensatori cristiani
Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino
sostengono la liceità della pena di morte sulla base del concetto della
conservazione del bene comune. L’argomentazione di Tommaso d’Aquino è la
seguente:
“Come è lecito, anzi
doveroso, estirpare un membro malato per salvare tutto il corpo, così quando
una persona è divenuta un pericolo per la comunità o è causa di corruzione
degli altri, essa viene eliminata per garantire la salvezza della comunità” (Summa
theologiae II-II, q. 29, artt. 37-42).
Il teologo sosteneva, tuttavia, che la
pena andasse inflitta solo al colpevole di gravissimi delitti, mentre,
all’epoca, veniva utilizzata con facilità e grande discrezionalità.
Lo Stato pontificio ha mantenuto nel suo
ordinamento la pena di morte fino al XX secolo.
Dottrina cattolica odierna
Il Catechismo della Chiesa
Cattolica (1997) parla della pena di morte all’interno della
trattazione sul quinto comandamento, “Non uccidere” e, più
specificamente, nel sottotitolo che tratta della legittima difesa.
In questo contesto dice (n. 2266-2267):
“2266: Corrisponde ad un’esigenza
di tutela del bene comune lo sforzo dello Stato inteso a contenere il
diffondersi di comportamenti lesivi dei diritti dell’uomo e delle regole
fondamentali della convivenza civile. La legittima autorità pubblica ha il
diritto ed il dovere di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto.
La pena ha innanzi tutto lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla
colpa. Quando è volontariamente accettata dal colpevole, essa assume valore di
espiazione. La pena poi, oltre che a difendere l’ordine pubblico e a tutelare
la sicurezza delle persone, mira ad uno scopo medicinale: nella misura del
possibile, essa deve contribuire alla correzione del colpevole”.
“2267: L’insegnamento tradizionale
della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della
responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa
fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto
la vita di esseri umani.
Se invece i mezzi incruenti sono
sufficienti per difendere dall’aggressore e per proteggere la sicurezza delle
persone, l’autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio
rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla
dignità della persona umana…”
La pena di morte in Città del Vaticano
venne rimossa dalla Legge Fondamentale solo il 12 febbraio
2001, forse per convenienza UE, visto che l’Unione Europea non ammette la pena
capitale e, di conseguenza, gli Stati che la prevedono.
Nel giugno 2004, l’allora cardinale Joseph
Ratzinger, attuale papa Benedetto XVI, inviò, in qualità di prefetto
della Congregazione per la Dottrina della Fede, una lettera al
cardinale Theodore Edgar McCarrick, – arcivescovo di Washington, – e
all’arcivescovo Wilton Daniel Gregory, – presidente della Conferenza Episcopale
degli Stati Uniti, – nella quale affermava che può tuttavia essere
consentito [...] fare ricorso alla pena di morte
Contenuti
tratti da: http://it.wikipedia.org/wiki/Pena_di_morte
Se l’art. 2261 del Nuovo Catechismo
afferma che: “La Scrittura precisa la proibizione del quinto comandamento:
non far morire l’innocente e il giusto” (Es 23,7), è consequenziale
che: “Il comandamento ‘Non uccidere’ ha valore assoluto quando si
riferisce alla persona innocente” (Evangelium vitae, n° 57) e
valore relativo quando si riferisce alla persona colpevole.
Infatti, l’art. 2267 del Nuovo Catechismo
conferma che: “L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude,
supposto il pieno accertamento dell’ identità e della responsabilità del
colpevole, il ricorso alla pena di morte”.
La Chiesa, dunque, riconosce all’autorità
pubblica il potere di applicare la pena di morte, nei confronti delle persone
colpevoli, perché la “Scrittura” e, più precisamente, il versetto 7 del
capitolo 23 dell’Esodo “non far morire l’innocente e il giusto“,
preciserebbe che il comandamento “Non uccidere” è stato
formulato da Dio per proteggere la vita delle persone innocenti, ma non le
colpevoli.
Ma la Chiesa è proprio certa che questa
dottrina così inumana sia conforme alla legge divina e non sia, piuttosto,
frutto di conformazione umana?
Se di fronte alla legge umana, tutte le persone
sono considerate uguali: “La legge è uguale per tutti”, quanto più,
tutte le persone, dovrebbero essere considerate uguali di fronte alla legge di
Dio, che possiede carattere universale?
Mentre, per il Catechismo, di fronte alla
legge divina: “Non uccidere”, le persone non sono considerata tutte
uguali, ma, a priori, separate le buone dalle cattive e proprio le cattive, per
le quali Dio ha istituita la legge, defraudate dai benefici.
In realtà, la “Scrittura” di cui parla il
Catechismo, che “precisa la proibizione del quinto comandamento”, si riduce ad
un versetto dell’Antico Testamento: “Non far morire l’innocente e il
giusto“, formulato, peraltro, in modo incompleto, infatti, citato per
intero: “Starai lontano dalla parola falsa e non ucciderai l’innocente
e il giusto perché io non dichiaro giusto il colpevole“ (Es 23,7),
rivela la vera intenzione dell’autore sacro, che non è certo quella di voler
precisare la proibizione del quinto comandamento, come dichiara il Catechismo,
ma formare le coscienze umane al giusto comportamento morale che devono
assumere i soggetti giuridici nell’ambito di un processo penale: Dio vieta,
categoricamente, ai giudici e ai testimoni, di ricorrere a parole false per
deviare il corso della giustizia, provocando la condanna dell’innocente e
l’assoluzione del colpevole. Intenzione che, l’autore sacro sottolinea anche
con il versetto precedente: “Non farai deviare il giudizio del povero,
che si rivolge a te nel suo processo“ (Es 23,6).
Tra l’altro, non spetta all’Antico Testamento
stabilire le verità divine in materia di fede e di morale, ma al Nuovo
Testamento e in esso non vi è un solo versetto che autorizzi la Chiesa a
legittimare la pena di morte, una pena di natura vendicativa, assolutamente
contraria al perdono, il quale costituisce il DNA dello spirito cristiano.
Unitamente alla pena di morte, anche la
“tortura” è stata sempre considerata dalla Chiesa moralmente lecita: solo con
il Concilio Vaticano II è stata, finalmente, esclusa e
condannata.
Intanto, prima che fosse rigettata, un
numero infinito di persone, che solo Dio conosce, ha dovuto soffrire atrocità
incredibili e tante di esse sono morte a causa di questa dottrina legittimata
dalla Chiesa.
Ora, però, che il Concilio si
è espresso in modo autentico e ufficiale contro tutte: “…le torture
inflitte al corpo alla mente…ledono grandemente l’onore del creatore” (Gaudim
et spes n° 27) può la Chiesa continuare a considerare lecita la pena di morte?
Non è forse la pena di morte una pratica di tortura inflitta al corpo e alla
mente?
Da: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3721
Il Catechismo e la pena di morte
Cesare Beccaria, a proposito della pena di
morte, nel pamphlet “Dei delitti e delle pene”, nel 1764,
scriveva: “Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della
pubblica volontà, che detestano e puniscano l’omicidio, ne commettano uno esse
medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordini un pubblico
assassinio”.
Il Granducato di Toscana, nel 1786, fu il
primo Stato al mondo ad abolire la pena di morte.
Su iniziativa dell’Italia, l’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite, il 18 Dicembre 2007, ha approvato la risoluzione per
la moratoria universale contro la pena di morte nel mondo.
Ma, il punto 2267 de “Il nuovo
catechismo della Chiesa cattolica” (1992, rivisto nel 1999) così
recita:
“L’insegnamento tradizionale della Chiesa
non esclude (…) il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via
praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di
esseri umani (…). Oggi (…) i casi di assoluta necessità di soppressione del reo
sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti” (quest’ultimo
paragrafo, aggiunto successivamente, proviene dall’enciclica di Giovanni Paolo
II “Evangelium vitae” del 1995).
Ecco l’assurdo! La Chiesa, nella sua dottrina
fondamentale, il Catechismo, mantiene ancora la pena di morte,
anche se edulcorata dall’aggiunta di un paragrafetto dell’enciclica sopradetta.
Le lancette del tempo sembrano essersi
fermate, meno male che la… Santa Inquisizione è lontana!
Eppure, nel Nuovo testamento, Gesù invoca il perdono nell’episodio
della lapidazione della donna adultera: “Chi di voi è senza peccato,
scagli per primo la pietra contro di lei” (Giovanni 1 cap 8,
7).
E Giovanni Paolo II dichiara, durante la
visita negli USA, che la Chiesa è “incondizionatamente a favore della
vita” e che, essendo la nostra società “in possesso dei mezzi
per proteggersi (…), la pena si morte è crudele e non necessaria”.
Insomma, sembra l’applicazione completa
del V comandamento: non uccidere. Ma non è così. Infatti, quando si
afferma che sono rari i casi “di assoluta necessità di soppressione del
reo”, si ammette che in qualche caso la pena di morte è riconosciuta.
Qualcuno scrive che questo vale per
la legittima difesa (punto 2266). Ma quanti innocenti,
nel Far West del mondo civilizzato, vengono uccisi in nome
della legittima difesa? Quando, allora, si può parlare di legittima
difesa, ovvero quale tipo di reato autorizza alla pena capitale?
E, se “la pena di morte è crudele
e non necessaria”, perché viene ancora mantenuto nel Catechismo il punto
2267, che rappresenta un affronto all’etica del perdono e della misericordia e
lascia l’impressione che si possa, in qualche caso, utilizzarlo?
di Governanti
- www.governanti.blogspot.com
Il Catechismo Universale e la pena di
morte
Si è fatto un gran discutere, in ambienti
pacifisti e non-violenti, come, ad esempio Amnesty International,
circa le motivazioni che possono aver indotto la chiesa cattolica ad accettare
– come risulta dal paragrafo 2266 del recente Catechismo Universale (CCC)
– la pena di morte, seppure “in casi di estrema gravità”.
Vediamo le prime.
Al paragrafo 2259, dicono gli autori del
CCC: “La Scrittura, nel racconto dell’uccisione di Abele da parte del
fratello Caino, rivela, fin dagli inizi della storia umana, la presenza
nell’uomo della collera e della cupidigia, conseguenze del peccato originale”.
Il riferimento al cosiddetto “peccato
originale”, ogni qualvolta si deve cercare di spiegare la causa di taluni
malesseri sociali, è praticamente una costante nella teologia cattolica.
Al paragrafo successivo gli autori
ricordano che “l’alleanza [vetero testamentaria] di
Dio e dell’umanità è intessuta di richiami al dono divino della vita umana e
alla violenza omicida dell’uomo”(2260).
Dei due “richiami”, quello che più preme
sottolineare agli autori non è il primo, – come sarebbe naturale per una
istituzione (la Chiesa) che predica la legge dell’amore -, bensì il secondo. E
di questo l’aspetto da essi considerato più significativo non è tanto il puro e
semplice “divieto di non uccidere”, quanto piuttosto il divieto di
uccidere “l’innocente e il giusto” (2261): peccato, questo, “gravemente
contrario alla dignità dell’essere umano”.
Ora, proviamo a chiederci: per quale
ragione la chiesa cattolica ritiene che “l’uccisione volontaria di un
innocente è gravemente contraria alla dignità dell’essere umano” (2261)?
Cioè, per quale ragione essa non si limita ad affermare che l’essere umano in
quanto tale, santo o peccatore che sia, non meriterebbe mai di morire in modo
violento?
La Chiesa Romana, – qui autorevolmente
rappresentata da un Catechismo Universale, -non è in grado di trarre le logiche
conseguenze dalla sua teoria del peccato originale, perché finirebbe in un
groviglio inestricabile di contraddizioni. A noi, invece, interessa mettere in
luce il seguente, inevitabile, sillogismo: se la natura umana è intrinsecamente
malvagia, allora anche Abele era “colpevole”, ma se egli era “colpevole”,
il delitto di Caino, in sé pur grave, va ricompreso sulla base di ogni
possibile attenuante, onde ostacolarne la reiterazione. Qui, naturalmente, non
è il caso di verificare ciò che Caino e Abele simbolicamente rappresentavano
nel racconto del Genesi. Dobbiamo limitarci a considerazioni astratte.
Quel che è certo è che nel racconto
biblico la “dignità dell’essere umano” dipendeva da altro
rispetto alla legge, poiché Caino fu punito prima che venisse formulato il
divieto del quinto comandamento.
Non solo, ma egli venne “marchiato” proprio
per impedire che qualcuno commettesse un secondo delitto, cioè che usasse
vendetta contro di lui. Se a quel tempo avessero dato per scontata l’intrinseca
malvagità umana, alla prima manifestazione di questa non ci sarebbe stata altra
soluzione che l’esecuzione capitale.
Sicché si può tranquillamente affermare
con A. Schenker che ai tempi di Caino era la dignità dell’uomo ad essere
considerata intrinseca all’uomo stesso. Il peccato originale, cioè la
violazione delle modalità del comunismo primitivo, se comportò la nascita
dell’individualismo, non determinò affatto l’impossibilità di opporvisi. Ancora
non esistevano né l’idea dell’espiazione né il principio della retribuzione
come base del sistema della pena. Il divieto di uccidere Caino sta appunto a
testimoniare che, nonostante l’emergere dell’individualismo, i princìpi
democratici del collettivismo non erano stati dimenticati.
Viceversa, il divieto mosaico fa la sua
comparsa in un contesto dove, evidentemente, per rispettare la persona non era
più sufficiente rifarsi alle tradizioni orali, ma occorreva una legge scritta:
segno, questo, che il distacco dai princìpi del comunismo primitivo era
diventato progressivo, forse irreversibile. Di qui, l’esigenza d’imporre al
colpevole una pena proporzionata e di risarcire la vittima del danno subìto. La
giustizia, sempre meno possibile sul piano sociale, doveva almeno apparire su
quello giuridico, cioè su quello formale della legge.
Ora, prima di rispondere adeguatamente
alla domanda che sopra ci siamo posti, dobbiamo continuare a ripercorrere
l’analisi del CCC, che si sposta dall’Antico Testamento (A.T.) al Nuovo,
esaminando la figura chiave di Gesù Cristo.
Per gli autori del CCC, Cristo non sarebbe
che un “nuovo Abele” che porge l’altra guancia, ama i propri nemici, non si
difende da chi lo accusa ingiustamente. etc (2262).
Dopo aver dedicato tre paragrafi (2259-61)
al V.T., il CCC ne dedica uno solo al Nuovo. Perché? Semplicemente perché si
vuole far apparire il Cristo come un “perfezionatore” del divieto mosaico.
Pur di dimostrare che l’uomo è
intrinsecamente malvagio, Cristo, – secondo il CCC, – avrebbe non solo vietato
l’ira, l’odio e la vendetta, oltre che naturalmente l’omicidio, ma si sarebbe
anche offerto volontariamente come “agnello sacrificale” per i
peccati degli uomini. Egli dunque, in un certo senso, sarebbe stato vittima
della sua stessa “legge dell’amore assoluto”, che gli impediva di
trasformarsi in “giustiziere dei malvagi”.
Come si può notare, questa interpretazione
della vita di Cristo è assolutamente fantastica. La chiesa romana non ha qui
saputo cogliere la fondamentale differenza dalla legge mosaica che i vangeli
rappresentano, per i quali il “divieto di uccidere” è una
contraddizione in termini, finché non si pongono le basi sociali che tolgano al
delitto le sue motivazioni di fondo.
In effetti, se nel mentre si pone il
divieto non ci si preoccupa di creare una società veramente democratica, quel
divieto, alla lunga, non sortirà alcun effetto. E, viceversa, se si ha quella
preoccupazione, il divieto è altrettanto inutile, poiché non sarà in virtù di
esso che i cittadini si comporteranno in maniera non-violenta.
A parte questo, la Chiesa Romana non ha
mai neppure capito (o non lo ha mai voluto capire) il motivo per cui il Cristo
si lasciò giustiziare senza reagire. Lungi dal pensare che il potere dominante
avrebbe più facilmente rinunciato al proprio arbitrio, vedendo un innocente
salire tranquillamente sul patibolo, il Cristo deve, invece, aver atteso
(invano, purtroppo) che la propria liberazione fosse il frutto di una
convinzione largamente popolare, solo in virtù della quale si sarebbe sia
potuto vincere il dominio romano che costruire una nuova società civile.
Imporre il proprio progetto democratico
con colpi di stato, atti terroristici e cose simili non avrebbe certo
significato realizzare un’alternativa alla logica del potere dominante (romano
o ebraico che fosse).
Ora, finalmente, possiamo rispondere alla
suddetta domanda, se il lettore non l’ha già fatto per contro proprio. La
Chiesa è favorevole alla pena di morte sostanzialmente per questa ragione di
tipo “etico-religioso”: essendo la natura dell’uomo intrinsecamente malvagia,
la società ha il diritto, nei confronti di chi cerca di contenere tale
malvagità in una condotta il più possibile irreprensibile e, nonostante questo,
viene ucciso, di considerare la sua morte un delitto assolutamente
imperdonabile.
In altre parole, è intollerabile per la
chiesa veder uccidere un “innocente”, colui cioè che, meglio di altri, combatte
contro gli effetti deleteri del peccato originale (ma anche colui che, essendo
ancora troppo giovane d’età, non ha potuto sperimentare su di sé gli effetti o
le tentazioni di quella colpa). “L’omicida e coloro che volontariamente
cooperano all’uccisione commettono un peccato che grida vendetta al cielo”,
specie nei casi di “infanticidio, fratricidio, parricidio e uccisione
del coniuge” (2268).
Si deve, però, andare al paragrafo 1867
per accorgersi che fra i “peccati che gridano al cielo” non vi è solo
l’omicidio di Abele o la licenziosità dei Sodomiti, ma anche “il
lamento del popolo oppresso in Egitto; il lamento del forestiero, della vedova
e dell’orfano”. Infine, “l’ingiustizia verso il salariato”.
Ma, la cosa più singolare di tutta questa
esegesi del CCC, circa il divieto mosaico e la morte di Gesù, è che nella
seconda parte del capitolo (quella dedicata alla “legittima difesa”)
– e qui veniamo alla motivazione più propriamente politica, – la Chiesa romana,
servendosi delle sentenze dell’Aquinate, arriva a formulare cose del
tutto antievangeliche, che peggiorano persino la durezza della legge mosaica,
la quale prevedeva la pena di morte per i trasgressori di alcuni comandamenti.
Sulla base della motivazione vista sopra,
la Chiesa non ha espresso un parere chiaramente favorevole alla pena di morte.
Essa, infatti, si rende conto che, in quanto istituzione “religiosa”,
dev’essere sempre pronta al perdono.
Tuttavia, la trattazione religiosa
dell’argomento è stata condotta con abile maestria, evitando di esprimere
“giudizi di valore” categorici, sia per mostrare che il divieto mosaico “ha
una validità universale: obbliga tutti e ciascuno, sempre e dappertutto” (2261),
per cui la sua trasgressione non può che comportare gravissime conseguenze, sia
per suscitare nel lettore un senso di forte riprovazione nei confronti del
fatto che, nonostante la palese innocenza di Gesù, vi furono ugualmente delle
persone disposte a crocifiggerlo.
Come restare indifferenti al cospetto di
un’ingiustizia così grande? Il fatto che Cristo non abbia voluto difendersi,
non implica che nessuno debba farlo. Ciò che sul piano etico-religioso può
apparire inaccettabile, può non esserlo sul piano gius-politico.
Infatti, “l’amore verso se stessi
resta un principio fondamentale della moralità. E’, quindi, legittimo far
rispettare il proprio diritto alla vita”, “poiché, – come dice
Tommaso d’Aquino, – un uomo è tenuto di più a provvedere alla propria
vita che alla vita altrui” (2264).
Curiosa questa citazione
dell’illustre Dottore della Chiesa. Egli ha, senza dubbio, ragione
quando afferma che “se nel difendere la propria vita uno usa maggiore
violenza del necessario, il suo atto è illecito”. Ma che dire del fatto che
la legittima difesa venga invocata per tutelare un diritto esclusivamente
soggettivo? Da una Chiesa che pretende di fare dell’ideale “divino” la
sua raison d’être, sinceramente, ci si aspettava qualcosa di più
sublime.
In effetti, se la legittima difesa è il
modo migliore per garantire un proprio diritto, cosa dover pensare di quanti,
nella storia, vi hanno rinunciato per poter meglio affermare un “bene
comune”, cioè un valore, un ideale, un “diritto”, se si vuole,
o, comunque, una causa non puramente soggettiva? Cosa pensare di coloro che,
liberamente e consapevolmente, non perché desiderosi di morire martiri à
tout prix, hanno preferito l’idea del sacrificio personale a quella della
legittima difesa? Erano pazzi, ingenui, illusi o che altro? Il valore etico
(umano, ontologico) di una scelta esistenziale, può essere misurato in termini
meramente giuridici?
Quando poi ci si addentra sul piano più
propriamente politico-istituzionale, i limiti della chiesa cattolica si
evidenziano in tutta la loro crudezza. Se già avevamo messo in dubbio il valore
assoluto della legittima difesa (che va comunque salvaguardata) in nome
dell’interesse soggettivo, ora ci pare ancor più fuorviante l’affermazione
secondo cui la legittima difesa va considerata anche come un dovere da parte di
chi “è responsabile della vita altrui” (2265).
Come spesso succede le parole che si usano
non hanno mai un senso univoco, inequivocabile, ma sono sempre soggette a
fraintendimenti, anche quando si cerca di essere il più possibile aderenti alla
realtà, il più possibile “scientifici”: cioè, esiste sempre la
possibilità di dare alle parole un senso opposto a quello voluto, anche contro
la propria volontà, o, comunque, esiste sempre la possibilità che qualcuno non
ci capisca o non ci voglia capire. E così qui: chi metterebbe in dubbio che le
autorità costituite hanno il dovere di usare lo strumento della legittima
difesa per tutelare l’incolumità (non solo fisica) dei propri cittadini? Ma se
noi dicessimo: le autorità costituite, nell’adempiere al dovere di difendere i
cittadini, hanno il diritto di sostituirsi alla loro volontà, non susciteremmo
forse delle perplessità?
La frase incriminata dalle associazioni
pacifiste è stata la seguente: “la chiesa ha riconosciuto fondato [sottinteso:
"da sempre"] il diritto e il dovere della legittima [o
semplicemente "costituita"?] autorità pubblica di infliggere
pene proporzionate alla gravità del delitto, senza escludere, in casi di
estrema gravità, la pena di morte” (2266).
Si noti il sofisma dell’espressione “pene
proporzionate”: forse il popolo può impedire, nella concezione politica
della Chiesa, che lo Stato usi pene sproporzionate? E come lo potrebbe, visto e
considerato che, per la Chiesa, lo Stato è soggetto non alla “volontà
popolare”, ma solo alle “leggi” (1903), che devono essere
conformi a “un ordine prestabilito da Dio” (1901)?
Se la “volontà popolare” fosse
il principio fondamentale dello “Stato di diritto”, la pena di
morte potrebbe forse essere considerata una “pena proporzionata” a
un qualche particolare delitto? Sarebbe forse giusto dare per scontato che, ad
un certo punto, bisogna assolutamente negare al colpevole qualunque possibilità
di pentimento, ritenendolo unico vero responsabile del suo crimine? E’ forse
questo l’insegnamento del Cristo nell’episodio della “donna adultera” (Gv.
8,1ss.)?
Il fatto è che, – secondo gli autori
del CCC, – la società (e, quindi, la Chiesa) deve, comunque, difendersi da chi
la minaccia con l’uso della forza. Su questo, il CCC è molto esplicito: “i
detentori dell’autorità [qui considerati "sacri e inviolabili"] hanno
il diritto di usare le armi per respingere gli aggressori della comunità
civile…” (2266).
La chiesa non vuole prospettare, neanche
sul piano ipotetico, l’idea che gli aggressori si comportino così proprio
perché si appellano al principio della “legittima difesa” e
che i veri aggressori possano in realtà essere le stesse autorità
costituite. “La pena ha lo scopo di difendere l’ordine pubblico e la
sicurezza delle persone” (2266), sentenzia il CCC. Non ha, quindi,
senso chiedersi se tale difesa sia “sempre” lecita o se non sia meglio mettere
in discussione il valore del cosiddetto “ordine pubblico”.
Thomas More, martire della libertà di
coscienza, santificato dalla Chiesa romana nel 1935, disse nella sua Utopia:
gli Stati fondati sulla proprietà privata e il denaro “allevano dei
ladri per poi punirli con la morte”.
F. Engels, tre secoli dopo, dirà la stessa
cosa in La situazione della classe operaia in Inghilterra: “Se
la società toglie a migliaia di individui il necessario per l’esistenza…; se
mediante la forza della legge li costringe a rimanere in tali condizioni,
finché non sopraggiunga la morte… questo è assassinio… contro il quale nessuno
può difendersi… perché non si vede l’assassino, perché questo assassino sono
tutti e nessuno, perché la morte della vittima appare come una morte naturale e
perché esso non è tanto un peccato di opera, quanto un peccato di omissione”.
Naturalmente, gli esegeti più ipocriti
sostengono che la Chiesa si limita a “riconoscere” agli Stati l’uso estremo
della pena di morte, senza farsi sua diretta sostenitrice. Ciò in realtà è
falso, sia perché la Chiesa ha abolito, de jure, in Vaticano tale
forma di condanna solo nel 1969 (per comodità affaristica di riconoscimenti
nell’Unione Europea), sia perché la necessità di tale pena si evince, – come si
è visto, – dai suoi stessi argomenti di tipo religioso, sia perché, infine, il
Vaticano assai raramente (o mai?) si è pronunciato contro gli Stati che
comminano sentenze capitali (opposizioni alla pena di morte è possibile
riscontrarle solo in chiese locali o nazionali, come, ad esempio, nella Commissione
per la Vita della Conferenza Episcopale Cattolica degli USA).
In realtà, a queste conclusioni assai poco
democratiche, si perviene quando il problema della responsabilità penale viene
affrontato in termini puramente idealistici o giuridici, senza tener conto di
alcun riferimento storico o sociale concreto.
“La pena, –
dice il CCC, – ha valore di espiazione” (2266), in quanto
il colpevole è solo colpevole. Il riferimento qui
và soprattutto al caso dell’omicidio volontario, per il quale non esistono
attenuanti. Solo quando si parla di quello involontario (come se, sul piano
etico, si potesse fare una distinzione così precisa), gli autori del CCC fanno
un’annotazione complementare usando i caratteri piccoli: “Tollerare, –
viene detto, – da parte della società umana, condizioni di miseria che
portano alla morte senza che ci si sforzi di porvi rimedio, è una scandalosa
ingiustizia e una colpa grave”(2269). La Chiesa qui intende riferirsi a
coloro che usano “pratiche usuraie e mercantili”. Costoro,
indirettamente (solo indirettamente in una società capitalistica?) “commettono
un omicidio”.
Il CCC, insomma, non si preoccupa di
“capire” il crimine di chi, sottoposto a condizioni di vita disumane, reagisce
istintivamente facendosi giustizia da sé. Non si preoccupa minimamente di
giustificare coloro che, sottoposti alle medesime condizioni, ad un certo punto
decidono di organizzarsi politicamente per rovesciare i poteri costituiti. Si
preoccupa soltanto di trovare dei “colpevoli”, siano essi volontari o
involontari, diretti o indiretti, lasciando da parte tutte le responsabilità
che possono avere gli Stati e le istituzioni di potere, nonché i gruppi sociali
dominanti di una determinata società.
Ormai, come ognuno si sarà certamente
accorto, le parole non hanno più alcun significato. La Chiesa è disposta ad
affermare tutto ed il contrario di tutto, cioè tutto quanto fa parte del suo
impianto strettamente conservatore e, per essere più credibile, alcune cose che
fanno parte dell’ideologia laica e democratica.
Il problema non sta più nella scelta delle
parole, ma solo nell’atteggiamento che il credente deve tenere nei confronti
della Chiesa. E l’atteggiamento giusto, a quanto pare, visto che nessun alto
esponente della Curia vaticana l’ha contestato, può essere considerato quello
delle cattolicissime Filippine, il cui Parlamento, il 23 febbraio 1993, ha
reintrodotto, nonostante l’opposizione della Conferenza Episcopale
Filippina, la pena di morte, dopo averla abolita nel 1987, proprio facendo
leva sulle affermazioni del Catechismo Universale.
Contenuti
tratti da: http://www.homolaicus.com/teorici/wojtyla/pena_morte.htm
Pigrizia intellettuale e teoria della
responsabilità sociale
In un paese dove vige la pena di morte che
senso può avere la teoria del ragionevole dubbio? Non è forse una
contraddizione in termini?
Se anche dal punto di vista tecnico/materiale,
non vi fossero dubbi circa la consapevolezza di una persona da condannare a
morte, chi ci assicura che non esisterebbero dubbi dal punto di vista morale?
Come si può pensare che un individuo sano
di mente possa compiere un delitto nella più assoluta libertà di scelta?
Se una persona fosse assolutamente libera
di scegliere perché dovrebbe scegliere una cosa che le farebbe perdere la
libertà?
Nessuno vive così isolato dagli altri da
poter dire con sicurezza: “Ho scelto liberamente, senza condizionamenti
di sorta”. Chi vivesse isolato dal mondo, probabilmente, non si porrebbe
neanche il problema di compiere un delitto. Non ne avrebbe motivo. A meno che
l’isolamento non fosse una sorta di punizione inflitta in precedenza: il che
potrebbe portare a risentimenti e a esigenze di vendetta personale.
Viviamo in una società in cui i
condizionamenti sono reciproci: dunque, per quale motivo quando si tratta di
giudicare qualcuno, lo consideriamo come un individuo isolato e lo carichiamo
di responsabilità più grandi di quelle che potrebbe avere nella vita reale?
Gli uomini vivono assieme come tanti
individui isolati: costituiscono una comunità per via indotta,
involontariamente, non per libera scelta (questo senza considerare che la
comunità dovrebbe far parte in maniera naturale della vita di una persona, sin
dalla sua nascita). Nella vita reale, non si è capaci di assumere
reciprocamente le responsabilità altrui. Sicché quando qualcuno commette un
reato, viene lasciato solo, con tutte le sue responsabilità.
Eppure, l’isolamento che si vive in
società è anch’esso una forma di condizionamento, un peso da sopportare. Si
possono commettere azioni criminose non perché si è isolati dalla società,
ma proprio perché si è isolati nella società.
Il crimine è sempre frutto di un
condizionamento sociale: ecco perché, indirettamente, si è tutti colpevoli. Il
crimine dovrebbe essere considerato come occasione per ripensare i criteri del
vivere civile.
Insomma, la teoria del ragionevole dubbio
dovrebbe spingersi sino al concorso morale, indiretto, che può avere la società
nei confronti dell’imputato che ha commesso un reato.
Anche la teoria della presunzione
d’innocenza, in tal senso, andrebbe rivista. Non ha senso sostenere che uno è
innocente finché non si è dimostrata la colpevolezza. Bisognerebbe anzi
sostenere il contrario e, cioè, che in un modo o nell’altro siamo tutti colpevoli
e che quando si tratta di giudicare qualcuno, anzitutto, bisognerebbe chiedersi
che cosa si è fatto per impedire che un determinato reato venisse compiuto.
Bisognerebbe partire da premesse di
colpevolezza sociale, in modo da non far sentire l’imputato un individuo
isolato, un estraniato.
Questo, ovviamente, non significa che il
reato non deve essere punito o che bisogna essere pietisti ad oltranza.
Significa, semplicemente, che, nei confronti del reato, bisogna assumere un
atteggiamento pedagogico.
Il reato è un indizio di malessere
sociale. Dall’analisi dei sintomi, bisogna saper trovare una terapia per
vincere un male che ha radici nella società e nella sua cultura.
Dobbiamo abituarci a considerare i
condizionamenti sociali non come un limite alla libertà, ma come il fondamento
su cui la libertà và costruita.
Siamo liberi, appunto, perché
condizionati.
Il nostro compito è quello di rendere
positivi questi condizionamenti, affinché siano utili alla libertà.
Contenuti
tratti da: http://www.homolaicus.com/teorici/wojtyla/pena_morte.htmL’insegnamento tradizionale della Chiesa
non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della
responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa
fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto
la vita di esseri umani.
Da fonti varie,
a cura di Nino Caliendo
Nella Bibbia
Nella Bibbia sono elencate situazioni in
cui, nelle leggi che Dio dà a Mosé per esporle al popolo ebraico, si stabilisce
la pena capitale come punizione per determinate colpe. Ad esempio, nell’Antico
Testamento è scritto:
“Colui che colpisce un uomo causandone la
morte, sarà messo a morte “ (Esodo 21,12).
Nell’Antico Testamento (Genesi, 2,12-15)
esistono alcuni passi in cui Dio condanna la vendetta umana, minacciando
punizioni peggiori (“sette volte” e
“settanta volte sette”) per chi avesse ucciso Caino e Lamech.
Diversi passi, in prevalenza dell’Antico
Testamento, affermano la legittimità della pena di morte quando è violata la
legge di Mosé. A questi si aggiungono gli episodi di guerra e della storia del
popolo eletto, dove i nemici periscono per volontà divina. Riguardo alla
violazione della legge ebraica, nella Lettera agli Ebrei 10,28: “Quando
qualcuno ha violato la legge di Mosé, viene messo a morte senza pietà sulla
parola di due o tre testimoni”. In Levitico 24,16 viene messo a morte “Chi
bestemmia il nome del Signore”, in Levitico 20,10 chi commette adulterio,
in 27,29 “Nessuna persona votata allo sterminio potrà essere
riscattata; dovrà essere messa a morte” e in Levitico 24,17 “Chi
percuote a morte un uomo”. In Esodo 21,17 viene messo a morte chi maledice
il padre o la madre.
Il passo è ripreso nel Nuovo Testamento,
da Vangelo di Marco 7,10: “…infatti disse: Onora tuo padre e tua madre,
e chi maledice il padre e la madre sia messo a morte”. In Numeri 35,30, si
afferma che non si può accettare un prezzo di riscatto da un omicida: “Se
uno uccide un altro, l’omicida sarà messo a morte in seguito a deposizione di
testimoni, ma un unico testimone non basterà per condannare a morte una
persona. Non accetterete prezzo di riscatto per la vita di un omicida, reo di
morte, perché dovrà essere messo a morte”.
La morte del colpevole avveniva per
lapidazione. Questa forma di esecuzione coinvolge tutta la comunità locale
adulta, che collettivamente è chiamata ad applicare la legge, e risparmia
l’individuazione di un singolo come boia.
Nel Nuovo Testamento, Gesù richiama più
volte al perdono e condanna l’episodio della lapidazione della donna adultera:
“Chi di voi è senza
peccato, scagli per primo la pietra contro di lei” (Giovanni
8,7).
Pensatori cristiani
Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino
sostengono la liceità della pena di morte sulla base del concetto della
conservazione del bene comune. L’argomentazione di Tommaso d’Aquino è la
seguente:
“Come è lecito, anzi
doveroso, estirpare un membro malato per salvare tutto il corpo, così quando
una persona è divenuta un pericolo per la comunità o è causa di corruzione
degli altri, essa viene eliminata per garantire la salvezza della comunità” (Summa
theologiae II-II, q. 29, artt. 37-42).
Il teologo sosteneva, tuttavia, che la
pena andasse inflitta solo al colpevole di gravissimi delitti, mentre,
all’epoca, veniva utilizzata con facilità e grande discrezionalità.
Lo Stato pontificio ha mantenuto nel suo
ordinamento la pena di morte fino al XX secolo.
Dottrina cattolica odierna
Il Catechismo della Chiesa
Cattolica (1997) parla della pena di morte all’interno della
trattazione sul quinto comandamento, “Non uccidere” e, più
specificamente, nel sottotitolo che tratta della legittima difesa.
In questo contesto dice (n. 2266-2267):
“2266: Corrisponde ad un’esigenza
di tutela del bene comune lo sforzo dello Stato inteso a contenere il
diffondersi di comportamenti lesivi dei diritti dell’uomo e delle regole
fondamentali della convivenza civile. La legittima autorità pubblica ha il
diritto ed il dovere di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto.
La pena ha innanzi tutto lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla
colpa. Quando è volontariamente accettata dal colpevole, essa assume valore di
espiazione. La pena poi, oltre che a difendere l’ordine pubblico e a tutelare
la sicurezza delle persone, mira ad uno scopo medicinale: nella misura del
possibile, essa deve contribuire alla correzione del colpevole”.
“2267: L’insegnamento tradizionale
della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della
responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa
fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto
la vita di esseri umani.
Se invece i mezzi incruenti sono
sufficienti per difendere dall’aggressore e per proteggere la sicurezza delle
persone, l’autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio
rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla
dignità della persona umana…”
La pena di morte in Città del Vaticano
venne rimossa dalla Legge Fondamentale solo il 12 febbraio
2001, forse per convenienza UE, visto che l’Unione Europea non ammette la pena
capitale e, di conseguenza, gli Stati che la prevedono.
Nel giugno 2004, l’allora cardinale Joseph
Ratzinger, attuale papa Benedetto XVI, inviò, in qualità di prefetto
della Congregazione per la Dottrina della Fede, una lettera al
cardinale Theodore Edgar McCarrick, – arcivescovo di Washington, – e
all’arcivescovo Wilton Daniel Gregory, – presidente della Conferenza Episcopale
degli Stati Uniti, – nella quale affermava che può tuttavia essere
consentito [...] fare ricorso alla pena di morte
Contenuti
tratti da: http://it.wikipedia.org/wiki/Pena_di_morte
Se l’art. 2261 del Nuovo Catechismo
afferma che: “La Scrittura precisa la proibizione del quinto comandamento:
non far morire l’innocente e il giusto” (Es 23,7), è consequenziale
che: “Il comandamento ‘Non uccidere’ ha valore assoluto quando si
riferisce alla persona innocente” (Evangelium vitae, n° 57) e
valore relativo quando si riferisce alla persona colpevole.
Infatti, l’art. 2267 del Nuovo Catechismo
conferma che: “L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude,
supposto il pieno accertamento dell’ identità e della responsabilità del
colpevole, il ricorso alla pena di morte”.
La Chiesa, dunque, riconosce all’autorità
pubblica il potere di applicare la pena di morte, nei confronti delle persone
colpevoli, perché la “Scrittura” e, più precisamente, il versetto 7 del
capitolo 23 dell’Esodo “non far morire l’innocente e il giusto“,
preciserebbe che il comandamento “Non uccidere” è stato
formulato da Dio per proteggere la vita delle persone innocenti, ma non le
colpevoli.
Ma la Chiesa è proprio certa che questa
dottrina così inumana sia conforme alla legge divina e non sia, piuttosto,
frutto di conformazione umana?
Se di fronte alla legge umana, tutte le persone
sono considerate uguali: “La legge è uguale per tutti”, quanto più,
tutte le persone, dovrebbero essere considerate uguali di fronte alla legge di
Dio, che possiede carattere universale?
Mentre, per il Catechismo, di fronte alla
legge divina: “Non uccidere”, le persone non sono considerata tutte
uguali, ma, a priori, separate le buone dalle cattive e proprio le cattive, per
le quali Dio ha istituita la legge, defraudate dai benefici.
In realtà, la “Scrittura” di cui parla il
Catechismo, che “precisa la proibizione del quinto comandamento”, si riduce ad
un versetto dell’Antico Testamento: “Non far morire l’innocente e il
giusto“, formulato, peraltro, in modo incompleto, infatti, citato per
intero: “Starai lontano dalla parola falsa e non ucciderai l’innocente
e il giusto perché io non dichiaro giusto il colpevole“ (Es 23,7),
rivela la vera intenzione dell’autore sacro, che non è certo quella di voler
precisare la proibizione del quinto comandamento, come dichiara il Catechismo,
ma formare le coscienze umane al giusto comportamento morale che devono
assumere i soggetti giuridici nell’ambito di un processo penale: Dio vieta,
categoricamente, ai giudici e ai testimoni, di ricorrere a parole false per
deviare il corso della giustizia, provocando la condanna dell’innocente e
l’assoluzione del colpevole. Intenzione che, l’autore sacro sottolinea anche
con il versetto precedente: “Non farai deviare il giudizio del povero,
che si rivolge a te nel suo processo“ (Es 23,6).
Tra l’altro, non spetta all’Antico Testamento
stabilire le verità divine in materia di fede e di morale, ma al Nuovo
Testamento e in esso non vi è un solo versetto che autorizzi la Chiesa a
legittimare la pena di morte, una pena di natura vendicativa, assolutamente
contraria al perdono, il quale costituisce il DNA dello spirito cristiano.
Unitamente alla pena di morte, anche la
“tortura” è stata sempre considerata dalla Chiesa moralmente lecita: solo con
il Concilio Vaticano II è stata, finalmente, esclusa e
condannata.
Intanto, prima che fosse rigettata, un
numero infinito di persone, che solo Dio conosce, ha dovuto soffrire atrocità
incredibili e tante di esse sono morte a causa di questa dottrina legittimata
dalla Chiesa.
Ora, però, che il Concilio si
è espresso in modo autentico e ufficiale contro tutte: “…le torture
inflitte al corpo alla mente…ledono grandemente l’onore del creatore” (Gaudim
et spes n° 27) può la Chiesa continuare a considerare lecita la pena di morte?
Non è forse la pena di morte una pratica di tortura inflitta al corpo e alla
mente?
Da: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3721
Il Catechismo e la pena di morte
Cesare Beccaria, a proposito della pena di
morte, nel pamphlet “Dei delitti e delle pene”, nel 1764,
scriveva: “Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della
pubblica volontà, che detestano e puniscano l’omicidio, ne commettano uno esse
medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordini un pubblico
assassinio”.
Il Granducato di Toscana, nel 1786, fu il
primo Stato al mondo ad abolire la pena di morte.
Su iniziativa dell’Italia, l’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite, il 18 Dicembre 2007, ha approvato la risoluzione per
la moratoria universale contro la pena di morte nel mondo.
Ma, il punto 2267 de “Il nuovo
catechismo della Chiesa cattolica” (1992, rivisto nel 1999) così
recita:
“L’insegnamento tradizionale della Chiesa
non esclude (…) il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via
praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di
esseri umani (…). Oggi (…) i casi di assoluta necessità di soppressione del reo
sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti” (quest’ultimo
paragrafo, aggiunto successivamente, proviene dall’enciclica di Giovanni Paolo
II “Evangelium vitae” del 1995).
Ecco l’assurdo! La Chiesa, nella sua dottrina
fondamentale, il Catechismo, mantiene ancora la pena di morte,
anche se edulcorata dall’aggiunta di un paragrafetto dell’enciclica sopradetta.
Le lancette del tempo sembrano essersi
fermate, meno male che la… Santa Inquisizione è lontana!
Eppure, nel Nuovo testamento, Gesù invoca il perdono nell’episodio
della lapidazione della donna adultera: “Chi di voi è senza peccato,
scagli per primo la pietra contro di lei” (Giovanni 1 cap 8,
7).
E Giovanni Paolo II dichiara, durante la
visita negli USA, che la Chiesa è “incondizionatamente a favore della
vita” e che, essendo la nostra società “in possesso dei mezzi
per proteggersi (…), la pena si morte è crudele e non necessaria”.
Insomma, sembra l’applicazione completa
del V comandamento: non uccidere. Ma non è così. Infatti, quando si
afferma che sono rari i casi “di assoluta necessità di soppressione del
reo”, si ammette che in qualche caso la pena di morte è riconosciuta.
Qualcuno scrive che questo vale per
la legittima difesa (punto 2266). Ma quanti innocenti,
nel Far West del mondo civilizzato, vengono uccisi in nome
della legittima difesa? Quando, allora, si può parlare di legittima
difesa, ovvero quale tipo di reato autorizza alla pena capitale?
E, se “la pena di morte è crudele
e non necessaria”, perché viene ancora mantenuto nel Catechismo il punto
2267, che rappresenta un affronto all’etica del perdono e della misericordia e
lascia l’impressione che si possa, in qualche caso, utilizzarlo?
di Governanti
- www.governanti.blogspot.com
Il Catechismo Universale e la pena di
morte
Si è fatto un gran discutere, in ambienti
pacifisti e non-violenti, come, ad esempio Amnesty International,
circa le motivazioni che possono aver indotto la chiesa cattolica ad accettare
– come risulta dal paragrafo 2266 del recente Catechismo Universale (CCC)
– la pena di morte, seppure “in casi di estrema gravità”.
Vediamo le prime.
Al paragrafo 2259, dicono gli autori del
CCC: “La Scrittura, nel racconto dell’uccisione di Abele da parte del
fratello Caino, rivela, fin dagli inizi della storia umana, la presenza
nell’uomo della collera e della cupidigia, conseguenze del peccato originale”.
Il riferimento al cosiddetto “peccato
originale”, ogni qualvolta si deve cercare di spiegare la causa di taluni
malesseri sociali, è praticamente una costante nella teologia cattolica.
Al paragrafo successivo gli autori
ricordano che “l’alleanza [vetero testamentaria] di
Dio e dell’umanità è intessuta di richiami al dono divino della vita umana e
alla violenza omicida dell’uomo”(2260).
Dei due “richiami”, quello che più preme
sottolineare agli autori non è il primo, – come sarebbe naturale per una
istituzione (la Chiesa) che predica la legge dell’amore -, bensì il secondo. E
di questo l’aspetto da essi considerato più significativo non è tanto il puro e
semplice “divieto di non uccidere”, quanto piuttosto il divieto di
uccidere “l’innocente e il giusto” (2261): peccato, questo, “gravemente
contrario alla dignità dell’essere umano”.
Ora, proviamo a chiederci: per quale
ragione la chiesa cattolica ritiene che “l’uccisione volontaria di un
innocente è gravemente contraria alla dignità dell’essere umano” (2261)?
Cioè, per quale ragione essa non si limita ad affermare che l’essere umano in
quanto tale, santo o peccatore che sia, non meriterebbe mai di morire in modo
violento?
La Chiesa Romana, – qui autorevolmente
rappresentata da un Catechismo Universale, -non è in grado di trarre le logiche
conseguenze dalla sua teoria del peccato originale, perché finirebbe in un
groviglio inestricabile di contraddizioni. A noi, invece, interessa mettere in
luce il seguente, inevitabile, sillogismo: se la natura umana è intrinsecamente
malvagia, allora anche Abele era “colpevole”, ma se egli era “colpevole”,
il delitto di Caino, in sé pur grave, va ricompreso sulla base di ogni
possibile attenuante, onde ostacolarne la reiterazione. Qui, naturalmente, non
è il caso di verificare ciò che Caino e Abele simbolicamente rappresentavano
nel racconto del Genesi. Dobbiamo limitarci a considerazioni astratte.
Quel che è certo è che nel racconto
biblico la “dignità dell’essere umano” dipendeva da altro
rispetto alla legge, poiché Caino fu punito prima che venisse formulato il
divieto del quinto comandamento.
Non solo, ma egli venne “marchiato” proprio
per impedire che qualcuno commettesse un secondo delitto, cioè che usasse
vendetta contro di lui. Se a quel tempo avessero dato per scontata l’intrinseca
malvagità umana, alla prima manifestazione di questa non ci sarebbe stata altra
soluzione che l’esecuzione capitale.
Sicché si può tranquillamente affermare
con A. Schenker che ai tempi di Caino era la dignità dell’uomo ad essere
considerata intrinseca all’uomo stesso. Il peccato originale, cioè la
violazione delle modalità del comunismo primitivo, se comportò la nascita
dell’individualismo, non determinò affatto l’impossibilità di opporvisi. Ancora
non esistevano né l’idea dell’espiazione né il principio della retribuzione
come base del sistema della pena. Il divieto di uccidere Caino sta appunto a
testimoniare che, nonostante l’emergere dell’individualismo, i princìpi
democratici del collettivismo non erano stati dimenticati.
Viceversa, il divieto mosaico fa la sua
comparsa in un contesto dove, evidentemente, per rispettare la persona non era
più sufficiente rifarsi alle tradizioni orali, ma occorreva una legge scritta:
segno, questo, che il distacco dai princìpi del comunismo primitivo era
diventato progressivo, forse irreversibile. Di qui, l’esigenza d’imporre al
colpevole una pena proporzionata e di risarcire la vittima del danno subìto. La
giustizia, sempre meno possibile sul piano sociale, doveva almeno apparire su
quello giuridico, cioè su quello formale della legge.
Ora, prima di rispondere adeguatamente
alla domanda che sopra ci siamo posti, dobbiamo continuare a ripercorrere
l’analisi del CCC, che si sposta dall’Antico Testamento (A.T.) al Nuovo,
esaminando la figura chiave di Gesù Cristo.
Per gli autori del CCC, Cristo non sarebbe
che un “nuovo Abele” che porge l’altra guancia, ama i propri nemici, non si
difende da chi lo accusa ingiustamente. etc (2262).
Dopo aver dedicato tre paragrafi (2259-61)
al V.T., il CCC ne dedica uno solo al Nuovo. Perché? Semplicemente perché si
vuole far apparire il Cristo come un “perfezionatore” del divieto mosaico.
Pur di dimostrare che l’uomo è
intrinsecamente malvagio, Cristo, – secondo il CCC, – avrebbe non solo vietato
l’ira, l’odio e la vendetta, oltre che naturalmente l’omicidio, ma si sarebbe
anche offerto volontariamente come “agnello sacrificale” per i
peccati degli uomini. Egli dunque, in un certo senso, sarebbe stato vittima
della sua stessa “legge dell’amore assoluto”, che gli impediva di
trasformarsi in “giustiziere dei malvagi”.
Come si può notare, questa interpretazione
della vita di Cristo è assolutamente fantastica. La chiesa romana non ha qui
saputo cogliere la fondamentale differenza dalla legge mosaica che i vangeli
rappresentano, per i quali il “divieto di uccidere” è una
contraddizione in termini, finché non si pongono le basi sociali che tolgano al
delitto le sue motivazioni di fondo.
In effetti, se nel mentre si pone il
divieto non ci si preoccupa di creare una società veramente democratica, quel
divieto, alla lunga, non sortirà alcun effetto. E, viceversa, se si ha quella
preoccupazione, il divieto è altrettanto inutile, poiché non sarà in virtù di
esso che i cittadini si comporteranno in maniera non-violenta.
A parte questo, la Chiesa Romana non ha
mai neppure capito (o non lo ha mai voluto capire) il motivo per cui il Cristo
si lasciò giustiziare senza reagire. Lungi dal pensare che il potere dominante
avrebbe più facilmente rinunciato al proprio arbitrio, vedendo un innocente
salire tranquillamente sul patibolo, il Cristo deve, invece, aver atteso
(invano, purtroppo) che la propria liberazione fosse il frutto di una
convinzione largamente popolare, solo in virtù della quale si sarebbe sia
potuto vincere il dominio romano che costruire una nuova società civile.
Imporre il proprio progetto democratico
con colpi di stato, atti terroristici e cose simili non avrebbe certo
significato realizzare un’alternativa alla logica del potere dominante (romano
o ebraico che fosse).
Ora, finalmente, possiamo rispondere alla
suddetta domanda, se il lettore non l’ha già fatto per contro proprio. La
Chiesa è favorevole alla pena di morte sostanzialmente per questa ragione di
tipo “etico-religioso”: essendo la natura dell’uomo intrinsecamente malvagia,
la società ha il diritto, nei confronti di chi cerca di contenere tale
malvagità in una condotta il più possibile irreprensibile e, nonostante questo,
viene ucciso, di considerare la sua morte un delitto assolutamente
imperdonabile.
In altre parole, è intollerabile per la
chiesa veder uccidere un “innocente”, colui cioè che, meglio di altri, combatte
contro gli effetti deleteri del peccato originale (ma anche colui che, essendo
ancora troppo giovane d’età, non ha potuto sperimentare su di sé gli effetti o
le tentazioni di quella colpa). “L’omicida e coloro che volontariamente
cooperano all’uccisione commettono un peccato che grida vendetta al cielo”,
specie nei casi di “infanticidio, fratricidio, parricidio e uccisione
del coniuge” (2268).
Si deve, però, andare al paragrafo 1867
per accorgersi che fra i “peccati che gridano al cielo” non vi è solo
l’omicidio di Abele o la licenziosità dei Sodomiti, ma anche “il
lamento del popolo oppresso in Egitto; il lamento del forestiero, della vedova
e dell’orfano”. Infine, “l’ingiustizia verso il salariato”.
Ma, la cosa più singolare di tutta questa
esegesi del CCC, circa il divieto mosaico e la morte di Gesù, è che nella
seconda parte del capitolo (quella dedicata alla “legittima difesa”)
– e qui veniamo alla motivazione più propriamente politica, – la Chiesa romana,
servendosi delle sentenze dell’Aquinate, arriva a formulare cose del
tutto antievangeliche, che peggiorano persino la durezza della legge mosaica,
la quale prevedeva la pena di morte per i trasgressori di alcuni comandamenti.
Sulla base della motivazione vista sopra,
la Chiesa non ha espresso un parere chiaramente favorevole alla pena di morte.
Essa, infatti, si rende conto che, in quanto istituzione “religiosa”,
dev’essere sempre pronta al perdono.
Tuttavia, la trattazione religiosa
dell’argomento è stata condotta con abile maestria, evitando di esprimere
“giudizi di valore” categorici, sia per mostrare che il divieto mosaico “ha
una validità universale: obbliga tutti e ciascuno, sempre e dappertutto” (2261),
per cui la sua trasgressione non può che comportare gravissime conseguenze, sia
per suscitare nel lettore un senso di forte riprovazione nei confronti del
fatto che, nonostante la palese innocenza di Gesù, vi furono ugualmente delle
persone disposte a crocifiggerlo.
Come restare indifferenti al cospetto di
un’ingiustizia così grande? Il fatto che Cristo non abbia voluto difendersi,
non implica che nessuno debba farlo. Ciò che sul piano etico-religioso può
apparire inaccettabile, può non esserlo sul piano gius-politico.
Infatti, “l’amore verso se stessi
resta un principio fondamentale della moralità. E’, quindi, legittimo far
rispettare il proprio diritto alla vita”, “poiché, – come dice
Tommaso d’Aquino, – un uomo è tenuto di più a provvedere alla propria
vita che alla vita altrui” (2264).
Curiosa questa citazione
dell’illustre Dottore della Chiesa. Egli ha, senza dubbio, ragione
quando afferma che “se nel difendere la propria vita uno usa maggiore
violenza del necessario, il suo atto è illecito”. Ma che dire del fatto che
la legittima difesa venga invocata per tutelare un diritto esclusivamente
soggettivo? Da una Chiesa che pretende di fare dell’ideale “divino” la
sua raison d’être, sinceramente, ci si aspettava qualcosa di più
sublime.
In effetti, se la legittima difesa è il
modo migliore per garantire un proprio diritto, cosa dover pensare di quanti,
nella storia, vi hanno rinunciato per poter meglio affermare un “bene
comune”, cioè un valore, un ideale, un “diritto”, se si vuole,
o, comunque, una causa non puramente soggettiva? Cosa pensare di coloro che,
liberamente e consapevolmente, non perché desiderosi di morire martiri à
tout prix, hanno preferito l’idea del sacrificio personale a quella della
legittima difesa? Erano pazzi, ingenui, illusi o che altro? Il valore etico
(umano, ontologico) di una scelta esistenziale, può essere misurato in termini
meramente giuridici?
Quando poi ci si addentra sul piano più
propriamente politico-istituzionale, i limiti della chiesa cattolica si
evidenziano in tutta la loro crudezza. Se già avevamo messo in dubbio il valore
assoluto della legittima difesa (che va comunque salvaguardata) in nome
dell’interesse soggettivo, ora ci pare ancor più fuorviante l’affermazione
secondo cui la legittima difesa va considerata anche come un dovere da parte di
chi “è responsabile della vita altrui” (2265).
Come spesso succede le parole che si usano
non hanno mai un senso univoco, inequivocabile, ma sono sempre soggette a
fraintendimenti, anche quando si cerca di essere il più possibile aderenti alla
realtà, il più possibile “scientifici”: cioè, esiste sempre la
possibilità di dare alle parole un senso opposto a quello voluto, anche contro
la propria volontà, o, comunque, esiste sempre la possibilità che qualcuno non
ci capisca o non ci voglia capire. E così qui: chi metterebbe in dubbio che le
autorità costituite hanno il dovere di usare lo strumento della legittima
difesa per tutelare l’incolumità (non solo fisica) dei propri cittadini? Ma se
noi dicessimo: le autorità costituite, nell’adempiere al dovere di difendere i
cittadini, hanno il diritto di sostituirsi alla loro volontà, non susciteremmo
forse delle perplessità?
La frase incriminata dalle associazioni
pacifiste è stata la seguente: “la chiesa ha riconosciuto fondato [sottinteso:
"da sempre"] il diritto e il dovere della legittima [o
semplicemente "costituita"?] autorità pubblica di infliggere
pene proporzionate alla gravità del delitto, senza escludere, in casi di
estrema gravità, la pena di morte” (2266).
Si noti il sofisma dell’espressione “pene
proporzionate”: forse il popolo può impedire, nella concezione politica
della Chiesa, che lo Stato usi pene sproporzionate? E come lo potrebbe, visto e
considerato che, per la Chiesa, lo Stato è soggetto non alla “volontà
popolare”, ma solo alle “leggi” (1903), che devono essere
conformi a “un ordine prestabilito da Dio” (1901)?
Se la “volontà popolare” fosse
il principio fondamentale dello “Stato di diritto”, la pena di
morte potrebbe forse essere considerata una “pena proporzionata” a
un qualche particolare delitto? Sarebbe forse giusto dare per scontato che, ad
un certo punto, bisogna assolutamente negare al colpevole qualunque possibilità
di pentimento, ritenendolo unico vero responsabile del suo crimine? E’ forse
questo l’insegnamento del Cristo nell’episodio della “donna adultera” (Gv.
8,1ss.)?
Il fatto è che, – secondo gli autori
del CCC, – la società (e, quindi, la Chiesa) deve, comunque, difendersi da chi
la minaccia con l’uso della forza. Su questo, il CCC è molto esplicito: “i
detentori dell’autorità [qui considerati "sacri e inviolabili"] hanno
il diritto di usare le armi per respingere gli aggressori della comunità
civile…” (2266).
La chiesa non vuole prospettare, neanche
sul piano ipotetico, l’idea che gli aggressori si comportino così proprio
perché si appellano al principio della “legittima difesa” e
che i veri aggressori possano in realtà essere le stesse autorità
costituite. “La pena ha lo scopo di difendere l’ordine pubblico e la
sicurezza delle persone” (2266), sentenzia il CCC. Non ha, quindi,
senso chiedersi se tale difesa sia “sempre” lecita o se non sia meglio mettere
in discussione il valore del cosiddetto “ordine pubblico”.
Thomas More, martire della libertà di
coscienza, santificato dalla Chiesa romana nel 1935, disse nella sua Utopia:
gli Stati fondati sulla proprietà privata e il denaro “allevano dei
ladri per poi punirli con la morte”.
F. Engels, tre secoli dopo, dirà la stessa
cosa in La situazione della classe operaia in Inghilterra: “Se
la società toglie a migliaia di individui il necessario per l’esistenza…; se
mediante la forza della legge li costringe a rimanere in tali condizioni,
finché non sopraggiunga la morte… questo è assassinio… contro il quale nessuno
può difendersi… perché non si vede l’assassino, perché questo assassino sono
tutti e nessuno, perché la morte della vittima appare come una morte naturale e
perché esso non è tanto un peccato di opera, quanto un peccato di omissione”.
Naturalmente, gli esegeti più ipocriti
sostengono che la Chiesa si limita a “riconoscere” agli Stati l’uso estremo
della pena di morte, senza farsi sua diretta sostenitrice. Ciò in realtà è
falso, sia perché la Chiesa ha abolito, de jure, in Vaticano tale
forma di condanna solo nel 1969 (per comodità affaristica di riconoscimenti
nell’Unione Europea), sia perché la necessità di tale pena si evince, – come si
è visto, – dai suoi stessi argomenti di tipo religioso, sia perché, infine, il
Vaticano assai raramente (o mai?) si è pronunciato contro gli Stati che
comminano sentenze capitali (opposizioni alla pena di morte è possibile
riscontrarle solo in chiese locali o nazionali, come, ad esempio, nella Commissione
per la Vita della Conferenza Episcopale Cattolica degli USA).
In realtà, a queste conclusioni assai poco
democratiche, si perviene quando il problema della responsabilità penale viene
affrontato in termini puramente idealistici o giuridici, senza tener conto di
alcun riferimento storico o sociale concreto.
“La pena, –
dice il CCC, – ha valore di espiazione” (2266), in quanto
il colpevole è solo colpevole. Il riferimento qui
và soprattutto al caso dell’omicidio volontario, per il quale non esistono
attenuanti. Solo quando si parla di quello involontario (come se, sul piano
etico, si potesse fare una distinzione così precisa), gli autori del CCC fanno
un’annotazione complementare usando i caratteri piccoli: “Tollerare, –
viene detto, – da parte della società umana, condizioni di miseria che
portano alla morte senza che ci si sforzi di porvi rimedio, è una scandalosa
ingiustizia e una colpa grave”(2269). La Chiesa qui intende riferirsi a
coloro che usano “pratiche usuraie e mercantili”. Costoro,
indirettamente (solo indirettamente in una società capitalistica?) “commettono
un omicidio”.
Il CCC, insomma, non si preoccupa di
“capire” il crimine di chi, sottoposto a condizioni di vita disumane, reagisce
istintivamente facendosi giustizia da sé. Non si preoccupa minimamente di
giustificare coloro che, sottoposti alle medesime condizioni, ad un certo punto
decidono di organizzarsi politicamente per rovesciare i poteri costituiti. Si
preoccupa soltanto di trovare dei “colpevoli”, siano essi volontari o
involontari, diretti o indiretti, lasciando da parte tutte le responsabilità
che possono avere gli Stati e le istituzioni di potere, nonché i gruppi sociali
dominanti di una determinata società.
Ormai, come ognuno si sarà certamente
accorto, le parole non hanno più alcun significato. La Chiesa è disposta ad
affermare tutto ed il contrario di tutto, cioè tutto quanto fa parte del suo
impianto strettamente conservatore e, per essere più credibile, alcune cose che
fanno parte dell’ideologia laica e democratica.
Il problema non sta più nella scelta delle
parole, ma solo nell’atteggiamento che il credente deve tenere nei confronti
della Chiesa. E l’atteggiamento giusto, a quanto pare, visto che nessun alto
esponente della Curia vaticana l’ha contestato, può essere considerato quello
delle cattolicissime Filippine, il cui Parlamento, il 23 febbraio 1993, ha
reintrodotto, nonostante l’opposizione della Conferenza Episcopale
Filippina, la pena di morte, dopo averla abolita nel 1987, proprio facendo
leva sulle affermazioni del Catechismo Universale.
Contenuti
tratti da: http://www.homolaicus.com/teorici/wojtyla/pena_morte.htm
Pigrizia intellettuale e teoria della
responsabilità sociale
In un paese dove vige la pena di morte che
senso può avere la teoria del ragionevole dubbio? Non è forse una
contraddizione in termini?
Se anche dal punto di vista tecnico/materiale,
non vi fossero dubbi circa la consapevolezza di una persona da condannare a
morte, chi ci assicura che non esisterebbero dubbi dal punto di vista morale?
Come si può pensare che un individuo sano
di mente possa compiere un delitto nella più assoluta libertà di scelta?
Se una persona fosse assolutamente libera
di scegliere perché dovrebbe scegliere una cosa che le farebbe perdere la
libertà?
Nessuno vive così isolato dagli altri da
poter dire con sicurezza: “Ho scelto liberamente, senza condizionamenti
di sorta”. Chi vivesse isolato dal mondo, probabilmente, non si porrebbe
neanche il problema di compiere un delitto. Non ne avrebbe motivo. A meno che
l’isolamento non fosse una sorta di punizione inflitta in precedenza: il che
potrebbe portare a risentimenti e a esigenze di vendetta personale.
Viviamo in una società in cui i
condizionamenti sono reciproci: dunque, per quale motivo quando si tratta di
giudicare qualcuno, lo consideriamo come un individuo isolato e lo carichiamo
di responsabilità più grandi di quelle che potrebbe avere nella vita reale?
Gli uomini vivono assieme come tanti
individui isolati: costituiscono una comunità per via indotta,
involontariamente, non per libera scelta (questo senza considerare che la
comunità dovrebbe far parte in maniera naturale della vita di una persona, sin
dalla sua nascita). Nella vita reale, non si è capaci di assumere
reciprocamente le responsabilità altrui. Sicché quando qualcuno commette un
reato, viene lasciato solo, con tutte le sue responsabilità.
Eppure, l’isolamento che si vive in
società è anch’esso una forma di condizionamento, un peso da sopportare. Si
possono commettere azioni criminose non perché si è isolati dalla società,
ma proprio perché si è isolati nella società.
Il crimine è sempre frutto di un
condizionamento sociale: ecco perché, indirettamente, si è tutti colpevoli. Il
crimine dovrebbe essere considerato come occasione per ripensare i criteri del
vivere civile.
Insomma, la teoria del ragionevole dubbio
dovrebbe spingersi sino al concorso morale, indiretto, che può avere la società
nei confronti dell’imputato che ha commesso un reato.
Anche la teoria della presunzione
d’innocenza, in tal senso, andrebbe rivista. Non ha senso sostenere che uno è
innocente finché non si è dimostrata la colpevolezza. Bisognerebbe anzi
sostenere il contrario e, cioè, che in un modo o nell’altro siamo tutti colpevoli
e che quando si tratta di giudicare qualcuno, anzitutto, bisognerebbe chiedersi
che cosa si è fatto per impedire che un determinato reato venisse compiuto.
Bisognerebbe partire da premesse di
colpevolezza sociale, in modo da non far sentire l’imputato un individuo
isolato, un estraniato.
Questo, ovviamente, non significa che il
reato non deve essere punito o che bisogna essere pietisti ad oltranza.
Significa, semplicemente, che, nei confronti del reato, bisogna assumere un
atteggiamento pedagogico.
Il reato è un indizio di malessere
sociale. Dall’analisi dei sintomi, bisogna saper trovare una terapia per
vincere un male che ha radici nella società e nella sua cultura.
Dobbiamo abituarci a considerare i
condizionamenti sociali non come un limite alla libertà, ma come il fondamento
su cui la libertà và costruita.
Siamo liberi, appunto, perché
condizionati.
Il nostro compito è quello di rendere
positivi questi condizionamenti, affinché siano utili alla libertà.
Contenuti
tratti da: http://www.homolaicus.com/teorici/wojtyla/pena_morte.htmL’insegnamento tradizionale della Chiesa
non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della
responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa
fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto
la vita di esseri umani.
Da fonti varie,
a cura di Nino Caliendo
Nella Bibbia
Nella Bibbia sono elencate situazioni in
cui, nelle leggi che Dio dà a Mosé per esporle al popolo ebraico, si stabilisce
la pena capitale come punizione per determinate colpe. Ad esempio, nell’Antico
Testamento è scritto:
“Colui che colpisce un uomo causandone la
morte, sarà messo a morte “ (Esodo 21,12).
Nell’Antico Testamento (Genesi, 2,12-15)
esistono alcuni passi in cui Dio condanna la vendetta umana, minacciando
punizioni peggiori (“sette volte” e
“settanta volte sette”) per chi avesse ucciso Caino e Lamech.
Diversi passi, in prevalenza dell’Antico
Testamento, affermano la legittimità della pena di morte quando è violata la
legge di Mosé. A questi si aggiungono gli episodi di guerra e della storia del
popolo eletto, dove i nemici periscono per volontà divina. Riguardo alla
violazione della legge ebraica, nella Lettera agli Ebrei 10,28: “Quando
qualcuno ha violato la legge di Mosé, viene messo a morte senza pietà sulla
parola di due o tre testimoni”. In Levitico 24,16 viene messo a morte “Chi
bestemmia il nome del Signore”, in Levitico 20,10 chi commette adulterio,
in 27,29 “Nessuna persona votata allo sterminio potrà essere
riscattata; dovrà essere messa a morte” e in Levitico 24,17 “Chi
percuote a morte un uomo”. In Esodo 21,17 viene messo a morte chi maledice
il padre o la madre.
Il passo è ripreso nel Nuovo Testamento,
da Vangelo di Marco 7,10: “…infatti disse: Onora tuo padre e tua madre,
e chi maledice il padre e la madre sia messo a morte”. In Numeri 35,30, si
afferma che non si può accettare un prezzo di riscatto da un omicida: “Se
uno uccide un altro, l’omicida sarà messo a morte in seguito a deposizione di
testimoni, ma un unico testimone non basterà per condannare a morte una
persona. Non accetterete prezzo di riscatto per la vita di un omicida, reo di
morte, perché dovrà essere messo a morte”.
La morte del colpevole avveniva per
lapidazione. Questa forma di esecuzione coinvolge tutta la comunità locale
adulta, che collettivamente è chiamata ad applicare la legge, e risparmia
l’individuazione di un singolo come boia.
Nel Nuovo Testamento, Gesù richiama più
volte al perdono e condanna l’episodio della lapidazione della donna adultera:
“Chi di voi è senza
peccato, scagli per primo la pietra contro di lei” (Giovanni
8,7).
Pensatori cristiani
Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino
sostengono la liceità della pena di morte sulla base del concetto della
conservazione del bene comune. L’argomentazione di Tommaso d’Aquino è la
seguente:
“Come è lecito, anzi
doveroso, estirpare un membro malato per salvare tutto il corpo, così quando
una persona è divenuta un pericolo per la comunità o è causa di corruzione
degli altri, essa viene eliminata per garantire la salvezza della comunità” (Summa
theologiae II-II, q. 29, artt. 37-42).
Il teologo sosteneva, tuttavia, che la
pena andasse inflitta solo al colpevole di gravissimi delitti, mentre,
all’epoca, veniva utilizzata con facilità e grande discrezionalità.
Lo Stato pontificio ha mantenuto nel suo
ordinamento la pena di morte fino al XX secolo.
Dottrina cattolica odierna
Il Catechismo della Chiesa
Cattolica (1997) parla della pena di morte all’interno della
trattazione sul quinto comandamento, “Non uccidere” e, più
specificamente, nel sottotitolo che tratta della legittima difesa.
In questo contesto dice (n. 2266-2267):
“2266: Corrisponde ad un’esigenza
di tutela del bene comune lo sforzo dello Stato inteso a contenere il
diffondersi di comportamenti lesivi dei diritti dell’uomo e delle regole
fondamentali della convivenza civile. La legittima autorità pubblica ha il
diritto ed il dovere di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto.
La pena ha innanzi tutto lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla
colpa. Quando è volontariamente accettata dal colpevole, essa assume valore di
espiazione. La pena poi, oltre che a difendere l’ordine pubblico e a tutelare
la sicurezza delle persone, mira ad uno scopo medicinale: nella misura del
possibile, essa deve contribuire alla correzione del colpevole”.
“2267: L’insegnamento tradizionale
della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della
responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa
fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto
la vita di esseri umani.
Se invece i mezzi incruenti sono
sufficienti per difendere dall’aggressore e per proteggere la sicurezza delle
persone, l’autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio
rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla
dignità della persona umana…”
La pena di morte in Città del Vaticano
venne rimossa dalla Legge Fondamentale solo il 12 febbraio
2001, forse per convenienza UE, visto che l’Unione Europea non ammette la pena
capitale e, di conseguenza, gli Stati che la prevedono.
Nel giugno 2004, l’allora cardinale Joseph
Ratzinger, attuale papa Benedetto XVI, inviò, in qualità di prefetto
della Congregazione per la Dottrina della Fede, una lettera al
cardinale Theodore Edgar McCarrick, – arcivescovo di Washington, – e
all’arcivescovo Wilton Daniel Gregory, – presidente della Conferenza Episcopale
degli Stati Uniti, – nella quale affermava che può tuttavia essere
consentito [...] fare ricorso alla pena di morte
Contenuti
tratti da: http://it.wikipedia.org/wiki/Pena_di_morte
Se l’art. 2261 del Nuovo Catechismo
afferma che: “La Scrittura precisa la proibizione del quinto comandamento:
non far morire l’innocente e il giusto” (Es 23,7), è consequenziale
che: “Il comandamento ‘Non uccidere’ ha valore assoluto quando si
riferisce alla persona innocente” (Evangelium vitae, n° 57) e
valore relativo quando si riferisce alla persona colpevole.
Infatti, l’art. 2267 del Nuovo Catechismo
conferma che: “L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude,
supposto il pieno accertamento dell’ identità e della responsabilità del
colpevole, il ricorso alla pena di morte”.
La Chiesa, dunque, riconosce all’autorità
pubblica il potere di applicare la pena di morte, nei confronti delle persone
colpevoli, perché la “Scrittura” e, più precisamente, il versetto 7 del
capitolo 23 dell’Esodo “non far morire l’innocente e il giusto“,
preciserebbe che il comandamento “Non uccidere” è stato
formulato da Dio per proteggere la vita delle persone innocenti, ma non le
colpevoli.
Ma la Chiesa è proprio certa che questa
dottrina così inumana sia conforme alla legge divina e non sia, piuttosto,
frutto di conformazione umana?
Se di fronte alla legge umana, tutte le persone
sono considerate uguali: “La legge è uguale per tutti”, quanto più,
tutte le persone, dovrebbero essere considerate uguali di fronte alla legge di
Dio, che possiede carattere universale?
Mentre, per il Catechismo, di fronte alla
legge divina: “Non uccidere”, le persone non sono considerata tutte
uguali, ma, a priori, separate le buone dalle cattive e proprio le cattive, per
le quali Dio ha istituita la legge, defraudate dai benefici.
In realtà, la “Scrittura” di cui parla il
Catechismo, che “precisa la proibizione del quinto comandamento”, si riduce ad
un versetto dell’Antico Testamento: “Non far morire l’innocente e il
giusto“, formulato, peraltro, in modo incompleto, infatti, citato per
intero: “Starai lontano dalla parola falsa e non ucciderai l’innocente
e il giusto perché io non dichiaro giusto il colpevole“ (Es 23,7),
rivela la vera intenzione dell’autore sacro, che non è certo quella di voler
precisare la proibizione del quinto comandamento, come dichiara il Catechismo,
ma formare le coscienze umane al giusto comportamento morale che devono
assumere i soggetti giuridici nell’ambito di un processo penale: Dio vieta,
categoricamente, ai giudici e ai testimoni, di ricorrere a parole false per
deviare il corso della giustizia, provocando la condanna dell’innocente e
l’assoluzione del colpevole. Intenzione che, l’autore sacro sottolinea anche
con il versetto precedente: “Non farai deviare il giudizio del povero,
che si rivolge a te nel suo processo“ (Es 23,6).
Tra l’altro, non spetta all’Antico Testamento
stabilire le verità divine in materia di fede e di morale, ma al Nuovo
Testamento e in esso non vi è un solo versetto che autorizzi la Chiesa a
legittimare la pena di morte, una pena di natura vendicativa, assolutamente
contraria al perdono, il quale costituisce il DNA dello spirito cristiano.
Unitamente alla pena di morte, anche la
“tortura” è stata sempre considerata dalla Chiesa moralmente lecita: solo con
il Concilio Vaticano II è stata, finalmente, esclusa e
condannata.
Intanto, prima che fosse rigettata, un
numero infinito di persone, che solo Dio conosce, ha dovuto soffrire atrocità
incredibili e tante di esse sono morte a causa di questa dottrina legittimata
dalla Chiesa.
Ora, però, che il Concilio si
è espresso in modo autentico e ufficiale contro tutte: “…le torture
inflitte al corpo alla mente…ledono grandemente l’onore del creatore” (Gaudim
et spes n° 27) può la Chiesa continuare a considerare lecita la pena di morte?
Non è forse la pena di morte una pratica di tortura inflitta al corpo e alla
mente?
Da: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3721
Il Catechismo e la pena di morte
Cesare Beccaria, a proposito della pena di
morte, nel pamphlet “Dei delitti e delle pene”, nel 1764,
scriveva: “Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della
pubblica volontà, che detestano e puniscano l’omicidio, ne commettano uno esse
medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordini un pubblico
assassinio”.
Il Granducato di Toscana, nel 1786, fu il
primo Stato al mondo ad abolire la pena di morte.
Su iniziativa dell’Italia, l’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite, il 18 Dicembre 2007, ha approvato la risoluzione per
la moratoria universale contro la pena di morte nel mondo.
Ma, il punto 2267 de “Il nuovo
catechismo della Chiesa cattolica” (1992, rivisto nel 1999) così
recita:
“L’insegnamento tradizionale della Chiesa
non esclude (…) il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via
praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di
esseri umani (…). Oggi (…) i casi di assoluta necessità di soppressione del reo
sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti” (quest’ultimo
paragrafo, aggiunto successivamente, proviene dall’enciclica di Giovanni Paolo
II “Evangelium vitae” del 1995).
Ecco l’assurdo! La Chiesa, nella sua dottrina
fondamentale, il Catechismo, mantiene ancora la pena di morte,
anche se edulcorata dall’aggiunta di un paragrafetto dell’enciclica sopradetta.
Le lancette del tempo sembrano essersi
fermate, meno male che la… Santa Inquisizione è lontana!
Eppure, nel Nuovo testamento, Gesù invoca il perdono nell’episodio
della lapidazione della donna adultera: “Chi di voi è senza peccato,
scagli per primo la pietra contro di lei” (Giovanni 1 cap 8,
7).
E Giovanni Paolo II dichiara, durante la
visita negli USA, che la Chiesa è “incondizionatamente a favore della
vita” e che, essendo la nostra società “in possesso dei mezzi
per proteggersi (…), la pena si morte è crudele e non necessaria”.
Insomma, sembra l’applicazione completa
del V comandamento: non uccidere. Ma non è così. Infatti, quando si
afferma che sono rari i casi “di assoluta necessità di soppressione del
reo”, si ammette che in qualche caso la pena di morte è riconosciuta.
Qualcuno scrive che questo vale per
la legittima difesa (punto 2266). Ma quanti innocenti,
nel Far West del mondo civilizzato, vengono uccisi in nome
della legittima difesa? Quando, allora, si può parlare di legittima
difesa, ovvero quale tipo di reato autorizza alla pena capitale?
E, se “la pena di morte è crudele
e non necessaria”, perché viene ancora mantenuto nel Catechismo il punto
2267, che rappresenta un affronto all’etica del perdono e della misericordia e
lascia l’impressione che si possa, in qualche caso, utilizzarlo?
di Governanti
- www.governanti.blogspot.com
Il Catechismo Universale e la pena di
morte
Si è fatto un gran discutere, in ambienti
pacifisti e non-violenti, come, ad esempio Amnesty International,
circa le motivazioni che possono aver indotto la chiesa cattolica ad accettare
– come risulta dal paragrafo 2266 del recente Catechismo Universale (CCC)
– la pena di morte, seppure “in casi di estrema gravità”.
Vediamo le prime.
Al paragrafo 2259, dicono gli autori del
CCC: “La Scrittura, nel racconto dell’uccisione di Abele da parte del
fratello Caino, rivela, fin dagli inizi della storia umana, la presenza
nell’uomo della collera e della cupidigia, conseguenze del peccato originale”.
Il riferimento al cosiddetto “peccato
originale”, ogni qualvolta si deve cercare di spiegare la causa di taluni
malesseri sociali, è praticamente una costante nella teologia cattolica.
Al paragrafo successivo gli autori
ricordano che “l’alleanza [vetero testamentaria] di
Dio e dell’umanità è intessuta di richiami al dono divino della vita umana e
alla violenza omicida dell’uomo”(2260).
Dei due “richiami”, quello che più preme
sottolineare agli autori non è il primo, – come sarebbe naturale per una
istituzione (la Chiesa) che predica la legge dell’amore -, bensì il secondo. E
di questo l’aspetto da essi considerato più significativo non è tanto il puro e
semplice “divieto di non uccidere”, quanto piuttosto il divieto di
uccidere “l’innocente e il giusto” (2261): peccato, questo, “gravemente
contrario alla dignità dell’essere umano”.
Ora, proviamo a chiederci: per quale
ragione la chiesa cattolica ritiene che “l’uccisione volontaria di un
innocente è gravemente contraria alla dignità dell’essere umano” (2261)?
Cioè, per quale ragione essa non si limita ad affermare che l’essere umano in
quanto tale, santo o peccatore che sia, non meriterebbe mai di morire in modo
violento?
La Chiesa Romana, – qui autorevolmente
rappresentata da un Catechismo Universale, -non è in grado di trarre le logiche
conseguenze dalla sua teoria del peccato originale, perché finirebbe in un
groviglio inestricabile di contraddizioni. A noi, invece, interessa mettere in
luce il seguente, inevitabile, sillogismo: se la natura umana è intrinsecamente
malvagia, allora anche Abele era “colpevole”, ma se egli era “colpevole”,
il delitto di Caino, in sé pur grave, va ricompreso sulla base di ogni
possibile attenuante, onde ostacolarne la reiterazione. Qui, naturalmente, non
è il caso di verificare ciò che Caino e Abele simbolicamente rappresentavano
nel racconto del Genesi. Dobbiamo limitarci a considerazioni astratte.
Quel che è certo è che nel racconto
biblico la “dignità dell’essere umano” dipendeva da altro
rispetto alla legge, poiché Caino fu punito prima che venisse formulato il
divieto del quinto comandamento.
Non solo, ma egli venne “marchiato” proprio
per impedire che qualcuno commettesse un secondo delitto, cioè che usasse
vendetta contro di lui. Se a quel tempo avessero dato per scontata l’intrinseca
malvagità umana, alla prima manifestazione di questa non ci sarebbe stata altra
soluzione che l’esecuzione capitale.
Sicché si può tranquillamente affermare
con A. Schenker che ai tempi di Caino era la dignità dell’uomo ad essere
considerata intrinseca all’uomo stesso. Il peccato originale, cioè la
violazione delle modalità del comunismo primitivo, se comportò la nascita
dell’individualismo, non determinò affatto l’impossibilità di opporvisi. Ancora
non esistevano né l’idea dell’espiazione né il principio della retribuzione
come base del sistema della pena. Il divieto di uccidere Caino sta appunto a
testimoniare che, nonostante l’emergere dell’individualismo, i princìpi
democratici del collettivismo non erano stati dimenticati.
Viceversa, il divieto mosaico fa la sua
comparsa in un contesto dove, evidentemente, per rispettare la persona non era
più sufficiente rifarsi alle tradizioni orali, ma occorreva una legge scritta:
segno, questo, che il distacco dai princìpi del comunismo primitivo era
diventato progressivo, forse irreversibile. Di qui, l’esigenza d’imporre al
colpevole una pena proporzionata e di risarcire la vittima del danno subìto. La
giustizia, sempre meno possibile sul piano sociale, doveva almeno apparire su
quello giuridico, cioè su quello formale della legge.
Ora, prima di rispondere adeguatamente
alla domanda che sopra ci siamo posti, dobbiamo continuare a ripercorrere
l’analisi del CCC, che si sposta dall’Antico Testamento (A.T.) al Nuovo,
esaminando la figura chiave di Gesù Cristo.
Per gli autori del CCC, Cristo non sarebbe
che un “nuovo Abele” che porge l’altra guancia, ama i propri nemici, non si
difende da chi lo accusa ingiustamente. etc (2262).
Dopo aver dedicato tre paragrafi (2259-61)
al V.T., il CCC ne dedica uno solo al Nuovo. Perché? Semplicemente perché si
vuole far apparire il Cristo come un “perfezionatore” del divieto mosaico.
Pur di dimostrare che l’uomo è
intrinsecamente malvagio, Cristo, – secondo il CCC, – avrebbe non solo vietato
l’ira, l’odio e la vendetta, oltre che naturalmente l’omicidio, ma si sarebbe
anche offerto volontariamente come “agnello sacrificale” per i
peccati degli uomini. Egli dunque, in un certo senso, sarebbe stato vittima
della sua stessa “legge dell’amore assoluto”, che gli impediva di
trasformarsi in “giustiziere dei malvagi”.
Come si può notare, questa interpretazione
della vita di Cristo è assolutamente fantastica. La chiesa romana non ha qui
saputo cogliere la fondamentale differenza dalla legge mosaica che i vangeli
rappresentano, per i quali il “divieto di uccidere” è una
contraddizione in termini, finché non si pongono le basi sociali che tolgano al
delitto le sue motivazioni di fondo.
In effetti, se nel mentre si pone il
divieto non ci si preoccupa di creare una società veramente democratica, quel
divieto, alla lunga, non sortirà alcun effetto. E, viceversa, se si ha quella
preoccupazione, il divieto è altrettanto inutile, poiché non sarà in virtù di
esso che i cittadini si comporteranno in maniera non-violenta.
A parte questo, la Chiesa Romana non ha
mai neppure capito (o non lo ha mai voluto capire) il motivo per cui il Cristo
si lasciò giustiziare senza reagire. Lungi dal pensare che il potere dominante
avrebbe più facilmente rinunciato al proprio arbitrio, vedendo un innocente
salire tranquillamente sul patibolo, il Cristo deve, invece, aver atteso
(invano, purtroppo) che la propria liberazione fosse il frutto di una
convinzione largamente popolare, solo in virtù della quale si sarebbe sia
potuto vincere il dominio romano che costruire una nuova società civile.
Imporre il proprio progetto democratico
con colpi di stato, atti terroristici e cose simili non avrebbe certo
significato realizzare un’alternativa alla logica del potere dominante (romano
o ebraico che fosse).
Ora, finalmente, possiamo rispondere alla
suddetta domanda, se il lettore non l’ha già fatto per contro proprio. La
Chiesa è favorevole alla pena di morte sostanzialmente per questa ragione di
tipo “etico-religioso”: essendo la natura dell’uomo intrinsecamente malvagia,
la società ha il diritto, nei confronti di chi cerca di contenere tale
malvagità in una condotta il più possibile irreprensibile e, nonostante questo,
viene ucciso, di considerare la sua morte un delitto assolutamente
imperdonabile.
In altre parole, è intollerabile per la
chiesa veder uccidere un “innocente”, colui cioè che, meglio di altri, combatte
contro gli effetti deleteri del peccato originale (ma anche colui che, essendo
ancora troppo giovane d’età, non ha potuto sperimentare su di sé gli effetti o
le tentazioni di quella colpa). “L’omicida e coloro che volontariamente
cooperano all’uccisione commettono un peccato che grida vendetta al cielo”,
specie nei casi di “infanticidio, fratricidio, parricidio e uccisione
del coniuge” (2268).
Si deve, però, andare al paragrafo 1867
per accorgersi che fra i “peccati che gridano al cielo” non vi è solo
l’omicidio di Abele o la licenziosità dei Sodomiti, ma anche “il
lamento del popolo oppresso in Egitto; il lamento del forestiero, della vedova
e dell’orfano”. Infine, “l’ingiustizia verso il salariato”.
Ma, la cosa più singolare di tutta questa
esegesi del CCC, circa il divieto mosaico e la morte di Gesù, è che nella
seconda parte del capitolo (quella dedicata alla “legittima difesa”)
– e qui veniamo alla motivazione più propriamente politica, – la Chiesa romana,
servendosi delle sentenze dell’Aquinate, arriva a formulare cose del
tutto antievangeliche, che peggiorano persino la durezza della legge mosaica,
la quale prevedeva la pena di morte per i trasgressori di alcuni comandamenti.
Sulla base della motivazione vista sopra,
la Chiesa non ha espresso un parere chiaramente favorevole alla pena di morte.
Essa, infatti, si rende conto che, in quanto istituzione “religiosa”,
dev’essere sempre pronta al perdono.
Tuttavia, la trattazione religiosa
dell’argomento è stata condotta con abile maestria, evitando di esprimere
“giudizi di valore” categorici, sia per mostrare che il divieto mosaico “ha
una validità universale: obbliga tutti e ciascuno, sempre e dappertutto” (2261),
per cui la sua trasgressione non può che comportare gravissime conseguenze, sia
per suscitare nel lettore un senso di forte riprovazione nei confronti del
fatto che, nonostante la palese innocenza di Gesù, vi furono ugualmente delle
persone disposte a crocifiggerlo.
Come restare indifferenti al cospetto di
un’ingiustizia così grande? Il fatto che Cristo non abbia voluto difendersi,
non implica che nessuno debba farlo. Ciò che sul piano etico-religioso può
apparire inaccettabile, può non esserlo sul piano gius-politico.
Infatti, “l’amore verso se stessi
resta un principio fondamentale della moralità. E’, quindi, legittimo far
rispettare il proprio diritto alla vita”, “poiché, – come dice
Tommaso d’Aquino, – un uomo è tenuto di più a provvedere alla propria
vita che alla vita altrui” (2264).
Curiosa questa citazione
dell’illustre Dottore della Chiesa. Egli ha, senza dubbio, ragione
quando afferma che “se nel difendere la propria vita uno usa maggiore
violenza del necessario, il suo atto è illecito”. Ma che dire del fatto che
la legittima difesa venga invocata per tutelare un diritto esclusivamente
soggettivo? Da una Chiesa che pretende di fare dell’ideale “divino” la
sua raison d’être, sinceramente, ci si aspettava qualcosa di più
sublime.
In effetti, se la legittima difesa è il
modo migliore per garantire un proprio diritto, cosa dover pensare di quanti,
nella storia, vi hanno rinunciato per poter meglio affermare un “bene
comune”, cioè un valore, un ideale, un “diritto”, se si vuole,
o, comunque, una causa non puramente soggettiva? Cosa pensare di coloro che,
liberamente e consapevolmente, non perché desiderosi di morire martiri à
tout prix, hanno preferito l’idea del sacrificio personale a quella della
legittima difesa? Erano pazzi, ingenui, illusi o che altro? Il valore etico
(umano, ontologico) di una scelta esistenziale, può essere misurato in termini
meramente giuridici?
Quando poi ci si addentra sul piano più
propriamente politico-istituzionale, i limiti della chiesa cattolica si
evidenziano in tutta la loro crudezza. Se già avevamo messo in dubbio il valore
assoluto della legittima difesa (che va comunque salvaguardata) in nome
dell’interesse soggettivo, ora ci pare ancor più fuorviante l’affermazione
secondo cui la legittima difesa va considerata anche come un dovere da parte di
chi “è responsabile della vita altrui” (2265).
Come spesso succede le parole che si usano
non hanno mai un senso univoco, inequivocabile, ma sono sempre soggette a
fraintendimenti, anche quando si cerca di essere il più possibile aderenti alla
realtà, il più possibile “scientifici”: cioè, esiste sempre la
possibilità di dare alle parole un senso opposto a quello voluto, anche contro
la propria volontà, o, comunque, esiste sempre la possibilità che qualcuno non
ci capisca o non ci voglia capire. E così qui: chi metterebbe in dubbio che le
autorità costituite hanno il dovere di usare lo strumento della legittima
difesa per tutelare l’incolumità (non solo fisica) dei propri cittadini? Ma se
noi dicessimo: le autorità costituite, nell’adempiere al dovere di difendere i
cittadini, hanno il diritto di sostituirsi alla loro volontà, non susciteremmo
forse delle perplessità?
La frase incriminata dalle associazioni
pacifiste è stata la seguente: “la chiesa ha riconosciuto fondato [sottinteso:
"da sempre"] il diritto e il dovere della legittima [o
semplicemente "costituita"?] autorità pubblica di infliggere
pene proporzionate alla gravità del delitto, senza escludere, in casi di
estrema gravità, la pena di morte” (2266).
Si noti il sofisma dell’espressione “pene
proporzionate”: forse il popolo può impedire, nella concezione politica
della Chiesa, che lo Stato usi pene sproporzionate? E come lo potrebbe, visto e
considerato che, per la Chiesa, lo Stato è soggetto non alla “volontà
popolare”, ma solo alle “leggi” (1903), che devono essere
conformi a “un ordine prestabilito da Dio” (1901)?
Se la “volontà popolare” fosse
il principio fondamentale dello “Stato di diritto”, la pena di
morte potrebbe forse essere considerata una “pena proporzionata” a
un qualche particolare delitto? Sarebbe forse giusto dare per scontato che, ad
un certo punto, bisogna assolutamente negare al colpevole qualunque possibilità
di pentimento, ritenendolo unico vero responsabile del suo crimine? E’ forse
questo l’insegnamento del Cristo nell’episodio della “donna adultera” (Gv.
8,1ss.)?
Il fatto è che, – secondo gli autori
del CCC, – la società (e, quindi, la Chiesa) deve, comunque, difendersi da chi
la minaccia con l’uso della forza. Su questo, il CCC è molto esplicito: “i
detentori dell’autorità [qui considerati "sacri e inviolabili"] hanno
il diritto di usare le armi per respingere gli aggressori della comunità
civile…” (2266).
La chiesa non vuole prospettare, neanche
sul piano ipotetico, l’idea che gli aggressori si comportino così proprio
perché si appellano al principio della “legittima difesa” e
che i veri aggressori possano in realtà essere le stesse autorità
costituite. “La pena ha lo scopo di difendere l’ordine pubblico e la
sicurezza delle persone” (2266), sentenzia il CCC. Non ha, quindi,
senso chiedersi se tale difesa sia “sempre” lecita o se non sia meglio mettere
in discussione il valore del cosiddetto “ordine pubblico”.
Thomas More, martire della libertà di
coscienza, santificato dalla Chiesa romana nel 1935, disse nella sua Utopia:
gli Stati fondati sulla proprietà privata e il denaro “allevano dei
ladri per poi punirli con la morte”.
F. Engels, tre secoli dopo, dirà la stessa
cosa in La situazione della classe operaia in Inghilterra: “Se
la società toglie a migliaia di individui il necessario per l’esistenza…; se
mediante la forza della legge li costringe a rimanere in tali condizioni,
finché non sopraggiunga la morte… questo è assassinio… contro il quale nessuno
può difendersi… perché non si vede l’assassino, perché questo assassino sono
tutti e nessuno, perché la morte della vittima appare come una morte naturale e
perché esso non è tanto un peccato di opera, quanto un peccato di omissione”.
Naturalmente, gli esegeti più ipocriti
sostengono che la Chiesa si limita a “riconoscere” agli Stati l’uso estremo
della pena di morte, senza farsi sua diretta sostenitrice. Ciò in realtà è
falso, sia perché la Chiesa ha abolito, de jure, in Vaticano tale
forma di condanna solo nel 1969 (per comodità affaristica di riconoscimenti
nell’Unione Europea), sia perché la necessità di tale pena si evince, – come si
è visto, – dai suoi stessi argomenti di tipo religioso, sia perché, infine, il
Vaticano assai raramente (o mai?) si è pronunciato contro gli Stati che
comminano sentenze capitali (opposizioni alla pena di morte è possibile
riscontrarle solo in chiese locali o nazionali, come, ad esempio, nella Commissione
per la Vita della Conferenza Episcopale Cattolica degli USA).
In realtà, a queste conclusioni assai poco
democratiche, si perviene quando il problema della responsabilità penale viene
affrontato in termini puramente idealistici o giuridici, senza tener conto di
alcun riferimento storico o sociale concreto.
“La pena, –
dice il CCC, – ha valore di espiazione” (2266), in quanto
il colpevole è solo colpevole. Il riferimento qui
và soprattutto al caso dell’omicidio volontario, per il quale non esistono
attenuanti. Solo quando si parla di quello involontario (come se, sul piano
etico, si potesse fare una distinzione così precisa), gli autori del CCC fanno
un’annotazione complementare usando i caratteri piccoli: “Tollerare, –
viene detto, – da parte della società umana, condizioni di miseria che
portano alla morte senza che ci si sforzi di porvi rimedio, è una scandalosa
ingiustizia e una colpa grave”(2269). La Chiesa qui intende riferirsi a
coloro che usano “pratiche usuraie e mercantili”. Costoro,
indirettamente (solo indirettamente in una società capitalistica?) “commettono
un omicidio”.
Il CCC, insomma, non si preoccupa di
“capire” il crimine di chi, sottoposto a condizioni di vita disumane, reagisce
istintivamente facendosi giustizia da sé. Non si preoccupa minimamente di
giustificare coloro che, sottoposti alle medesime condizioni, ad un certo punto
decidono di organizzarsi politicamente per rovesciare i poteri costituiti. Si
preoccupa soltanto di trovare dei “colpevoli”, siano essi volontari o
involontari, diretti o indiretti, lasciando da parte tutte le responsabilità
che possono avere gli Stati e le istituzioni di potere, nonché i gruppi sociali
dominanti di una determinata società.
Ormai, come ognuno si sarà certamente
accorto, le parole non hanno più alcun significato. La Chiesa è disposta ad
affermare tutto ed il contrario di tutto, cioè tutto quanto fa parte del suo
impianto strettamente conservatore e, per essere più credibile, alcune cose che
fanno parte dell’ideologia laica e democratica.
Il problema non sta più nella scelta delle
parole, ma solo nell’atteggiamento che il credente deve tenere nei confronti
della Chiesa. E l’atteggiamento giusto, a quanto pare, visto che nessun alto
esponente della Curia vaticana l’ha contestato, può essere considerato quello
delle cattolicissime Filippine, il cui Parlamento, il 23 febbraio 1993, ha
reintrodotto, nonostante l’opposizione della Conferenza Episcopale
Filippina, la pena di morte, dopo averla abolita nel 1987, proprio facendo
leva sulle affermazioni del Catechismo Universale.
Contenuti
tratti da: http://www.homolaicus.com/teorici/wojtyla/pena_morte.htm
Pigrizia intellettuale e teoria della
responsabilità sociale
In un paese dove vige la pena di morte che
senso può avere la teoria del ragionevole dubbio? Non è forse una
contraddizione in termini?
Se anche dal punto di vista tecnico/materiale,
non vi fossero dubbi circa la consapevolezza di una persona da condannare a
morte, chi ci assicura che non esisterebbero dubbi dal punto di vista morale?
Come si può pensare che un individuo sano
di mente possa compiere un delitto nella più assoluta libertà di scelta?
Se una persona fosse assolutamente libera
di scegliere perché dovrebbe scegliere una cosa che le farebbe perdere la
libertà?
Nessuno vive così isolato dagli altri da
poter dire con sicurezza: “Ho scelto liberamente, senza condizionamenti
di sorta”. Chi vivesse isolato dal mondo, probabilmente, non si porrebbe
neanche il problema di compiere un delitto. Non ne avrebbe motivo. A meno che
l’isolamento non fosse una sorta di punizione inflitta in precedenza: il che
potrebbe portare a risentimenti e a esigenze di vendetta personale.
Viviamo in una società in cui i
condizionamenti sono reciproci: dunque, per quale motivo quando si tratta di
giudicare qualcuno, lo consideriamo come un individuo isolato e lo carichiamo
di responsabilità più grandi di quelle che potrebbe avere nella vita reale?
Gli uomini vivono assieme come tanti
individui isolati: costituiscono una comunità per via indotta,
involontariamente, non per libera scelta (questo senza considerare che la
comunità dovrebbe far parte in maniera naturale della vita di una persona, sin
dalla sua nascita). Nella vita reale, non si è capaci di assumere
reciprocamente le responsabilità altrui. Sicché quando qualcuno commette un
reato, viene lasciato solo, con tutte le sue responsabilità.
Eppure, l’isolamento che si vive in
società è anch’esso una forma di condizionamento, un peso da sopportare. Si
possono commettere azioni criminose non perché si è isolati dalla società,
ma proprio perché si è isolati nella società.
Il crimine è sempre frutto di un
condizionamento sociale: ecco perché, indirettamente, si è tutti colpevoli. Il
crimine dovrebbe essere considerato come occasione per ripensare i criteri del
vivere civile.
Insomma, la teoria del ragionevole dubbio
dovrebbe spingersi sino al concorso morale, indiretto, che può avere la società
nei confronti dell’imputato che ha commesso un reato.
Anche la teoria della presunzione
d’innocenza, in tal senso, andrebbe rivista. Non ha senso sostenere che uno è
innocente finché non si è dimostrata la colpevolezza. Bisognerebbe anzi
sostenere il contrario e, cioè, che in un modo o nell’altro siamo tutti colpevoli
e che quando si tratta di giudicare qualcuno, anzitutto, bisognerebbe chiedersi
che cosa si è fatto per impedire che un determinato reato venisse compiuto.
Bisognerebbe partire da premesse di
colpevolezza sociale, in modo da non far sentire l’imputato un individuo
isolato, un estraniato.
Questo, ovviamente, non significa che il
reato non deve essere punito o che bisogna essere pietisti ad oltranza.
Significa, semplicemente, che, nei confronti del reato, bisogna assumere un
atteggiamento pedagogico.
Il reato è un indizio di malessere
sociale. Dall’analisi dei sintomi, bisogna saper trovare una terapia per
vincere un male che ha radici nella società e nella sua cultura.
Dobbiamo abituarci a considerare i
condizionamenti sociali non come un limite alla libertà, ma come il fondamento
su cui la libertà và costruita.
Siamo liberi, appunto, perché
condizionati.
Il nostro compito è quello di rendere
positivi questi condizionamenti, affinché siano utili alla libertà.
Contenuti
tratti da: http://www.homolaicus.com/teorici/wojtyla/pena_morte.htmL’insegnamento tradizionale della Chiesa
non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della
responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa
fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto
la vita di esseri umani.
Da fonti varie,
a cura di Nino Caliendo
Nella Bibbia
Nella Bibbia sono elencate situazioni in
cui, nelle leggi che Dio dà a Mosé per esporle al popolo ebraico, si stabilisce
la pena capitale come punizione per determinate colpe. Ad esempio, nell’Antico
Testamento è scritto:
“Colui che colpisce un uomo causandone la
morte, sarà messo a morte “ (Esodo 21,12).
Nell’Antico Testamento (Genesi, 2,12-15)
esistono alcuni passi in cui Dio condanna la vendetta umana, minacciando
punizioni peggiori (“sette volte” e
“settanta volte sette”) per chi avesse ucciso Caino e Lamech.
Diversi passi, in prevalenza dell’Antico
Testamento, affermano la legittimità della pena di morte quando è violata la
legge di Mosé. A questi si aggiungono gli episodi di guerra e della storia del
popolo eletto, dove i nemici periscono per volontà divina. Riguardo alla
violazione della legge ebraica, nella Lettera agli Ebrei 10,28: “Quando
qualcuno ha violato la legge di Mosé, viene messo a morte senza pietà sulla
parola di due o tre testimoni”. In Levitico 24,16 viene messo a morte “Chi
bestemmia il nome del Signore”, in Levitico 20,10 chi commette adulterio,
in 27,29 “Nessuna persona votata allo sterminio potrà essere
riscattata; dovrà essere messa a morte” e in Levitico 24,17 “Chi
percuote a morte un uomo”. In Esodo 21,17 viene messo a morte chi maledice
il padre o la madre.
Il passo è ripreso nel Nuovo Testamento,
da Vangelo di Marco 7,10: “…infatti disse: Onora tuo padre e tua madre,
e chi maledice il padre e la madre sia messo a morte”. In Numeri 35,30, si
afferma che non si può accettare un prezzo di riscatto da un omicida: “Se
uno uccide un altro, l’omicida sarà messo a morte in seguito a deposizione di
testimoni, ma un unico testimone non basterà per condannare a morte una
persona. Non accetterete prezzo di riscatto per la vita di un omicida, reo di
morte, perché dovrà essere messo a morte”.
La morte del colpevole avveniva per
lapidazione. Questa forma di esecuzione coinvolge tutta la comunità locale
adulta, che collettivamente è chiamata ad applicare la legge, e risparmia
l’individuazione di un singolo come boia.
Nel Nuovo Testamento, Gesù richiama più
volte al perdono e condanna l’episodio della lapidazione della donna adultera:
“Chi di voi è senza
peccato, scagli per primo la pietra contro di lei” (Giovanni
8,7).
Pensatori cristiani
Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino
sostengono la liceità della pena di morte sulla base del concetto della
conservazione del bene comune. L’argomentazione di Tommaso d’Aquino è la
seguente:
“Come è lecito, anzi
doveroso, estirpare un membro malato per salvare tutto il corpo, così quando
una persona è divenuta un pericolo per la comunità o è causa di corruzione
degli altri, essa viene eliminata per garantire la salvezza della comunità” (Summa
theologiae II-II, q. 29, artt. 37-42).
Il teologo sosteneva, tuttavia, che la
pena andasse inflitta solo al colpevole di gravissimi delitti, mentre,
all’epoca, veniva utilizzata con facilità e grande discrezionalità.
Lo Stato pontificio ha mantenuto nel suo
ordinamento la pena di morte fino al XX secolo.
Dottrina cattolica odierna
Il Catechismo della Chiesa
Cattolica (1997) parla della pena di morte all’interno della
trattazione sul quinto comandamento, “Non uccidere” e, più
specificamente, nel sottotitolo che tratta della legittima difesa.
In questo contesto dice (n. 2266-2267):
“2266: Corrisponde ad un’esigenza
di tutela del bene comune lo sforzo dello Stato inteso a contenere il
diffondersi di comportamenti lesivi dei diritti dell’uomo e delle regole
fondamentali della convivenza civile. La legittima autorità pubblica ha il
diritto ed il dovere di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto.
La pena ha innanzi tutto lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla
colpa. Quando è volontariamente accettata dal colpevole, essa assume valore di
espiazione. La pena poi, oltre che a difendere l’ordine pubblico e a tutelare
la sicurezza delle persone, mira ad uno scopo medicinale: nella misura del
possibile, essa deve contribuire alla correzione del colpevole”.
“2267: L’insegnamento tradizionale
della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della
responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa
fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto
la vita di esseri umani.
Se invece i mezzi incruenti sono
sufficienti per difendere dall’aggressore e per proteggere la sicurezza delle
persone, l’autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio
rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla
dignità della persona umana…”
La pena di morte in Città del Vaticano
venne rimossa dalla Legge Fondamentale solo il 12 febbraio
2001, forse per convenienza UE, visto che l’Unione Europea non ammette la pena
capitale e, di conseguenza, gli Stati che la prevedono.
Nel giugno 2004, l’allora cardinale Joseph
Ratzinger, attuale papa Benedetto XVI, inviò, in qualità di prefetto
della Congregazione per la Dottrina della Fede, una lettera al
cardinale Theodore Edgar McCarrick, – arcivescovo di Washington, – e
all’arcivescovo Wilton Daniel Gregory, – presidente della Conferenza Episcopale
degli Stati Uniti, – nella quale affermava che può tuttavia essere
consentito [...] fare ricorso alla pena di morte
Contenuti
tratti da: http://it.wikipedia.org/wiki/Pena_di_morte
Se l’art. 2261 del Nuovo Catechismo
afferma che: “La Scrittura precisa la proibizione del quinto comandamento:
non far morire l’innocente e il giusto” (Es 23,7), è consequenziale
che: “Il comandamento ‘Non uccidere’ ha valore assoluto quando si
riferisce alla persona innocente” (Evangelium vitae, n° 57) e
valore relativo quando si riferisce alla persona colpevole.
Infatti, l’art. 2267 del Nuovo Catechismo
conferma che: “L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude,
supposto il pieno accertamento dell’ identità e della responsabilità del
colpevole, il ricorso alla pena di morte”.
La Chiesa, dunque, riconosce all’autorità
pubblica il potere di applicare la pena di morte, nei confronti delle persone
colpevoli, perché la “Scrittura” e, più precisamente, il versetto 7 del
capitolo 23 dell’Esodo “non far morire l’innocente e il giusto“,
preciserebbe che il comandamento “Non uccidere” è stato
formulato da Dio per proteggere la vita delle persone innocenti, ma non le
colpevoli.
Ma la Chiesa è proprio certa che questa
dottrina così inumana sia conforme alla legge divina e non sia, piuttosto,
frutto di conformazione umana?
Se di fronte alla legge umana, tutte le persone
sono considerate uguali: “La legge è uguale per tutti”, quanto più,
tutte le persone, dovrebbero essere considerate uguali di fronte alla legge di
Dio, che possiede carattere universale?
Mentre, per il Catechismo, di fronte alla
legge divina: “Non uccidere”, le persone non sono considerata tutte
uguali, ma, a priori, separate le buone dalle cattive e proprio le cattive, per
le quali Dio ha istituita la legge, defraudate dai benefici.
In realtà, la “Scrittura” di cui parla il
Catechismo, che “precisa la proibizione del quinto comandamento”, si riduce ad
un versetto dell’Antico Testamento: “Non far morire l’innocente e il
giusto“, formulato, peraltro, in modo incompleto, infatti, citato per
intero: “Starai lontano dalla parola falsa e non ucciderai l’innocente
e il giusto perché io non dichiaro giusto il colpevole“ (Es 23,7),
rivela la vera intenzione dell’autore sacro, che non è certo quella di voler
precisare la proibizione del quinto comandamento, come dichiara il Catechismo,
ma formare le coscienze umane al giusto comportamento morale che devono
assumere i soggetti giuridici nell’ambito di un processo penale: Dio vieta,
categoricamente, ai giudici e ai testimoni, di ricorrere a parole false per
deviare il corso della giustizia, provocando la condanna dell’innocente e
l’assoluzione del colpevole. Intenzione che, l’autore sacro sottolinea anche
con il versetto precedente: “Non farai deviare il giudizio del povero,
che si rivolge a te nel suo processo“ (Es 23,6).
Tra l’altro, non spetta all’Antico Testamento
stabilire le verità divine in materia di fede e di morale, ma al Nuovo
Testamento e in esso non vi è un solo versetto che autorizzi la Chiesa a
legittimare la pena di morte, una pena di natura vendicativa, assolutamente
contraria al perdono, il quale costituisce il DNA dello spirito cristiano.
Unitamente alla pena di morte, anche la
“tortura” è stata sempre considerata dalla Chiesa moralmente lecita: solo con
il Concilio Vaticano II è stata, finalmente, esclusa e
condannata.
Intanto, prima che fosse rigettata, un
numero infinito di persone, che solo Dio conosce, ha dovuto soffrire atrocità
incredibili e tante di esse sono morte a causa di questa dottrina legittimata
dalla Chiesa.
Ora, però, che il Concilio si
è espresso in modo autentico e ufficiale contro tutte: “…le torture
inflitte al corpo alla mente…ledono grandemente l’onore del creatore” (Gaudim
et spes n° 27) può la Chiesa continuare a considerare lecita la pena di morte?
Non è forse la pena di morte una pratica di tortura inflitta al corpo e alla
mente?
Da: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3721
Il Catechismo e la pena di morte
Cesare Beccaria, a proposito della pena di
morte, nel pamphlet “Dei delitti e delle pene”, nel 1764,
scriveva: “Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della
pubblica volontà, che detestano e puniscano l’omicidio, ne commettano uno esse
medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordini un pubblico
assassinio”.
Il Granducato di Toscana, nel 1786, fu il
primo Stato al mondo ad abolire la pena di morte.
Su iniziativa dell’Italia, l’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite, il 18 Dicembre 2007, ha approvato la risoluzione per
la moratoria universale contro la pena di morte nel mondo.
Ma, il punto 2267 de “Il nuovo
catechismo della Chiesa cattolica” (1992, rivisto nel 1999) così
recita:
“L’insegnamento tradizionale della Chiesa
non esclude (…) il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via
praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di
esseri umani (…). Oggi (…) i casi di assoluta necessità di soppressione del reo
sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti” (quest’ultimo
paragrafo, aggiunto successivamente, proviene dall’enciclica di Giovanni Paolo
II “Evangelium vitae” del 1995).
Ecco l’assurdo! La Chiesa, nella sua dottrina
fondamentale, il Catechismo, mantiene ancora la pena di morte,
anche se edulcorata dall’aggiunta di un paragrafetto dell’enciclica sopradetta.
Le lancette del tempo sembrano essersi
fermate, meno male che la… Santa Inquisizione è lontana!
Eppure, nel Nuovo testamento, Gesù invoca il perdono nell’episodio
della lapidazione della donna adultera: “Chi di voi è senza peccato,
scagli per primo la pietra contro di lei” (Giovanni 1 cap 8,
7).
E Giovanni Paolo II dichiara, durante la
visita negli USA, che la Chiesa è “incondizionatamente a favore della
vita” e che, essendo la nostra società “in possesso dei mezzi
per proteggersi (…), la pena si morte è crudele e non necessaria”.
Insomma, sembra l’applicazione completa
del V comandamento: non uccidere. Ma non è così. Infatti, quando si
afferma che sono rari i casi “di assoluta necessità di soppressione del
reo”, si ammette che in qualche caso la pena di morte è riconosciuta.
Qualcuno scrive che questo vale per
la legittima difesa (punto 2266). Ma quanti innocenti,
nel Far West del mondo civilizzato, vengono uccisi in nome
della legittima difesa? Quando, allora, si può parlare di legittima
difesa, ovvero quale tipo di reato autorizza alla pena capitale?
E, se “la pena di morte è crudele
e non necessaria”, perché viene ancora mantenuto nel Catechismo il punto
2267, che rappresenta un affronto all’etica del perdono e della misericordia e
lascia l’impressione che si possa, in qualche caso, utilizzarlo?
di Governanti
- www.governanti.blogspot.com
Il Catechismo Universale e la pena di
morte
Si è fatto un gran discutere, in ambienti
pacifisti e non-violenti, come, ad esempio Amnesty International,
circa le motivazioni che possono aver indotto la chiesa cattolica ad accettare
– come risulta dal paragrafo 2266 del recente Catechismo Universale (CCC)
– la pena di morte, seppure “in casi di estrema gravità”.
Vediamo le prime.
Al paragrafo 2259, dicono gli autori del
CCC: “La Scrittura, nel racconto dell’uccisione di Abele da parte del
fratello Caino, rivela, fin dagli inizi della storia umana, la presenza
nell’uomo della collera e della cupidigia, conseguenze del peccato originale”.
Il riferimento al cosiddetto “peccato
originale”, ogni qualvolta si deve cercare di spiegare la causa di taluni
malesseri sociali, è praticamente una costante nella teologia cattolica.
Al paragrafo successivo gli autori
ricordano che “l’alleanza [vetero testamentaria] di
Dio e dell’umanità è intessuta di richiami al dono divino della vita umana e
alla violenza omicida dell’uomo”(2260).
Dei due “richiami”, quello che più preme
sottolineare agli autori non è il primo, – come sarebbe naturale per una
istituzione (la Chiesa) che predica la legge dell’amore -, bensì il secondo. E
di questo l’aspetto da essi considerato più significativo non è tanto il puro e
semplice “divieto di non uccidere”, quanto piuttosto il divieto di
uccidere “l’innocente e il giusto” (2261): peccato, questo, “gravemente
contrario alla dignità dell’essere umano”.
Ora, proviamo a chiederci: per quale
ragione la chiesa cattolica ritiene che “l’uccisione volontaria di un
innocente è gravemente contraria alla dignità dell’essere umano” (2261)?
Cioè, per quale ragione essa non si limita ad affermare che l’essere umano in
quanto tale, santo o peccatore che sia, non meriterebbe mai di morire in modo
violento?
La Chiesa Romana, – qui autorevolmente
rappresentata da un Catechismo Universale, -non è in grado di trarre le logiche
conseguenze dalla sua teoria del peccato originale, perché finirebbe in un
groviglio inestricabile di contraddizioni. A noi, invece, interessa mettere in
luce il seguente, inevitabile, sillogismo: se la natura umana è intrinsecamente
malvagia, allora anche Abele era “colpevole”, ma se egli era “colpevole”,
il delitto di Caino, in sé pur grave, va ricompreso sulla base di ogni
possibile attenuante, onde ostacolarne la reiterazione. Qui, naturalmente, non
è il caso di verificare ciò che Caino e Abele simbolicamente rappresentavano
nel racconto del Genesi. Dobbiamo limitarci a considerazioni astratte.
Quel che è certo è che nel racconto
biblico la “dignità dell’essere umano” dipendeva da altro
rispetto alla legge, poiché Caino fu punito prima che venisse formulato il
divieto del quinto comandamento.
Non solo, ma egli venne “marchiato” proprio
per impedire che qualcuno commettesse un secondo delitto, cioè che usasse
vendetta contro di lui. Se a quel tempo avessero dato per scontata l’intrinseca
malvagità umana, alla prima manifestazione di questa non ci sarebbe stata altra
soluzione che l’esecuzione capitale.
Sicché si può tranquillamente affermare
con A. Schenker che ai tempi di Caino era la dignità dell’uomo ad essere
considerata intrinseca all’uomo stesso. Il peccato originale, cioè la
violazione delle modalità del comunismo primitivo, se comportò la nascita
dell’individualismo, non determinò affatto l’impossibilità di opporvisi. Ancora
non esistevano né l’idea dell’espiazione né il principio della retribuzione
come base del sistema della pena. Il divieto di uccidere Caino sta appunto a
testimoniare che, nonostante l’emergere dell’individualismo, i princìpi
democratici del collettivismo non erano stati dimenticati.
Viceversa, il divieto mosaico fa la sua
comparsa in un contesto dove, evidentemente, per rispettare la persona non era
più sufficiente rifarsi alle tradizioni orali, ma occorreva una legge scritta:
segno, questo, che il distacco dai princìpi del comunismo primitivo era
diventato progressivo, forse irreversibile. Di qui, l’esigenza d’imporre al
colpevole una pena proporzionata e di risarcire la vittima del danno subìto. La
giustizia, sempre meno possibile sul piano sociale, doveva almeno apparire su
quello giuridico, cioè su quello formale della legge.
Ora, prima di rispondere adeguatamente
alla domanda che sopra ci siamo posti, dobbiamo continuare a ripercorrere
l’analisi del CCC, che si sposta dall’Antico Testamento (A.T.) al Nuovo,
esaminando la figura chiave di Gesù Cristo.
Per gli autori del CCC, Cristo non sarebbe
che un “nuovo Abele” che porge l’altra guancia, ama i propri nemici, non si
difende da chi lo accusa ingiustamente. etc (2262).
Dopo aver dedicato tre paragrafi (2259-61)
al V.T., il CCC ne dedica uno solo al Nuovo. Perché? Semplicemente perché si
vuole far apparire il Cristo come un “perfezionatore” del divieto mosaico.
Pur di dimostrare che l’uomo è
intrinsecamente malvagio, Cristo, – secondo il CCC, – avrebbe non solo vietato
l’ira, l’odio e la vendetta, oltre che naturalmente l’omicidio, ma si sarebbe
anche offerto volontariamente come “agnello sacrificale” per i
peccati degli uomini. Egli dunque, in un certo senso, sarebbe stato vittima
della sua stessa “legge dell’amore assoluto”, che gli impediva di
trasformarsi in “giustiziere dei malvagi”.
Come si può notare, questa interpretazione
della vita di Cristo è assolutamente fantastica. La chiesa romana non ha qui
saputo cogliere la fondamentale differenza dalla legge mosaica che i vangeli
rappresentano, per i quali il “divieto di uccidere” è una
contraddizione in termini, finché non si pongono le basi sociali che tolgano al
delitto le sue motivazioni di fondo.
In effetti, se nel mentre si pone il
divieto non ci si preoccupa di creare una società veramente democratica, quel
divieto, alla lunga, non sortirà alcun effetto. E, viceversa, se si ha quella
preoccupazione, il divieto è altrettanto inutile, poiché non sarà in virtù di
esso che i cittadini si comporteranno in maniera non-violenta.
A parte questo, la Chiesa Romana non ha
mai neppure capito (o non lo ha mai voluto capire) il motivo per cui il Cristo
si lasciò giustiziare senza reagire. Lungi dal pensare che il potere dominante
avrebbe più facilmente rinunciato al proprio arbitrio, vedendo un innocente
salire tranquillamente sul patibolo, il Cristo deve, invece, aver atteso
(invano, purtroppo) che la propria liberazione fosse il frutto di una
convinzione largamente popolare, solo in virtù della quale si sarebbe sia
potuto vincere il dominio romano che costruire una nuova società civile.
Imporre il proprio progetto democratico
con colpi di stato, atti terroristici e cose simili non avrebbe certo
significato realizzare un’alternativa alla logica del potere dominante (romano
o ebraico che fosse).
Ora, finalmente, possiamo rispondere alla
suddetta domanda, se il lettore non l’ha già fatto per contro proprio. La
Chiesa è favorevole alla pena di morte sostanzialmente per questa ragione di
tipo “etico-religioso”: essendo la natura dell’uomo intrinsecamente malvagia,
la società ha il diritto, nei confronti di chi cerca di contenere tale
malvagità in una condotta il più possibile irreprensibile e, nonostante questo,
viene ucciso, di considerare la sua morte un delitto assolutamente
imperdonabile.
In altre parole, è intollerabile per la
chiesa veder uccidere un “innocente”, colui cioè che, meglio di altri, combatte
contro gli effetti deleteri del peccato originale (ma anche colui che, essendo
ancora troppo giovane d’età, non ha potuto sperimentare su di sé gli effetti o
le tentazioni di quella colpa). “L’omicida e coloro che volontariamente
cooperano all’uccisione commettono un peccato che grida vendetta al cielo”,
specie nei casi di “infanticidio, fratricidio, parricidio e uccisione
del coniuge” (2268).
Si deve, però, andare al paragrafo 1867
per accorgersi che fra i “peccati che gridano al cielo” non vi è solo
l’omicidio di Abele o la licenziosità dei Sodomiti, ma anche “il
lamento del popolo oppresso in Egitto; il lamento del forestiero, della vedova
e dell’orfano”. Infine, “l’ingiustizia verso il salariato”.
Ma, la cosa più singolare di tutta questa
esegesi del CCC, circa il divieto mosaico e la morte di Gesù, è che nella
seconda parte del capitolo (quella dedicata alla “legittima difesa”)
– e qui veniamo alla motivazione più propriamente politica, – la Chiesa romana,
servendosi delle sentenze dell’Aquinate, arriva a formulare cose del
tutto antievangeliche, che peggiorano persino la durezza della legge mosaica,
la quale prevedeva la pena di morte per i trasgressori di alcuni comandamenti.
Sulla base della motivazione vista sopra,
la Chiesa non ha espresso un parere chiaramente favorevole alla pena di morte.
Essa, infatti, si rende conto che, in quanto istituzione “religiosa”,
dev’essere sempre pronta al perdono.
Tuttavia, la trattazione religiosa
dell’argomento è stata condotta con abile maestria, evitando di esprimere
“giudizi di valore” categorici, sia per mostrare che il divieto mosaico “ha
una validità universale: obbliga tutti e ciascuno, sempre e dappertutto” (2261),
per cui la sua trasgressione non può che comportare gravissime conseguenze, sia
per suscitare nel lettore un senso di forte riprovazione nei confronti del
fatto che, nonostante la palese innocenza di Gesù, vi furono ugualmente delle
persone disposte a crocifiggerlo.
Come restare indifferenti al cospetto di
un’ingiustizia così grande? Il fatto che Cristo non abbia voluto difendersi,
non implica che nessuno debba farlo. Ciò che sul piano etico-religioso può
apparire inaccettabile, può non esserlo sul piano gius-politico.
Infatti, “l’amore verso se stessi
resta un principio fondamentale della moralità. E’, quindi, legittimo far
rispettare il proprio diritto alla vita”, “poiché, – come dice
Tommaso d’Aquino, – un uomo è tenuto di più a provvedere alla propria
vita che alla vita altrui” (2264).
Curiosa questa citazione
dell’illustre Dottore della Chiesa. Egli ha, senza dubbio, ragione
quando afferma che “se nel difendere la propria vita uno usa maggiore
violenza del necessario, il suo atto è illecito”. Ma che dire del fatto che
la legittima difesa venga invocata per tutelare un diritto esclusivamente
soggettivo? Da una Chiesa che pretende di fare dell’ideale “divino” la
sua raison d’être, sinceramente, ci si aspettava qualcosa di più
sublime.
In effetti, se la legittima difesa è il
modo migliore per garantire un proprio diritto, cosa dover pensare di quanti,
nella storia, vi hanno rinunciato per poter meglio affermare un “bene
comune”, cioè un valore, un ideale, un “diritto”, se si vuole,
o, comunque, una causa non puramente soggettiva? Cosa pensare di coloro che,
liberamente e consapevolmente, non perché desiderosi di morire martiri à
tout prix, hanno preferito l’idea del sacrificio personale a quella della
legittima difesa? Erano pazzi, ingenui, illusi o che altro? Il valore etico
(umano, ontologico) di una scelta esistenziale, può essere misurato in termini
meramente giuridici?
Quando poi ci si addentra sul piano più
propriamente politico-istituzionale, i limiti della chiesa cattolica si
evidenziano in tutta la loro crudezza. Se già avevamo messo in dubbio il valore
assoluto della legittima difesa (che va comunque salvaguardata) in nome
dell’interesse soggettivo, ora ci pare ancor più fuorviante l’affermazione
secondo cui la legittima difesa va considerata anche come un dovere da parte di
chi “è responsabile della vita altrui” (2265).
Come spesso succede le parole che si usano
non hanno mai un senso univoco, inequivocabile, ma sono sempre soggette a
fraintendimenti, anche quando si cerca di essere il più possibile aderenti alla
realtà, il più possibile “scientifici”: cioè, esiste sempre la
possibilità di dare alle parole un senso opposto a quello voluto, anche contro
la propria volontà, o, comunque, esiste sempre la possibilità che qualcuno non
ci capisca o non ci voglia capire. E così qui: chi metterebbe in dubbio che le
autorità costituite hanno il dovere di usare lo strumento della legittima
difesa per tutelare l’incolumità (non solo fisica) dei propri cittadini? Ma se
noi dicessimo: le autorità costituite, nell’adempiere al dovere di difendere i
cittadini, hanno il diritto di sostituirsi alla loro volontà, non susciteremmo
forse delle perplessità?
La frase incriminata dalle associazioni
pacifiste è stata la seguente: “la chiesa ha riconosciuto fondato [sottinteso:
"da sempre"] il diritto e il dovere della legittima [o
semplicemente "costituita"?] autorità pubblica di infliggere
pene proporzionate alla gravità del delitto, senza escludere, in casi di
estrema gravità, la pena di morte” (2266).
Si noti il sofisma dell’espressione “pene
proporzionate”: forse il popolo può impedire, nella concezione politica
della Chiesa, che lo Stato usi pene sproporzionate? E come lo potrebbe, visto e
considerato che, per la Chiesa, lo Stato è soggetto non alla “volontà
popolare”, ma solo alle “leggi” (1903), che devono essere
conformi a “un ordine prestabilito da Dio” (1901)?
Se la “volontà popolare” fosse
il principio fondamentale dello “Stato di diritto”, la pena di
morte potrebbe forse essere considerata una “pena proporzionata” a
un qualche particolare delitto? Sarebbe forse giusto dare per scontato che, ad
un certo punto, bisogna assolutamente negare al colpevole qualunque possibilità
di pentimento, ritenendolo unico vero responsabile del suo crimine? E’ forse
questo l’insegnamento del Cristo nell’episodio della “donna adultera” (Gv.
8,1ss.)?
Il fatto è che, – secondo gli autori
del CCC, – la società (e, quindi, la Chiesa) deve, comunque, difendersi da chi
la minaccia con l’uso della forza. Su questo, il CCC è molto esplicito: “i
detentori dell’autorità [qui considerati "sacri e inviolabili"] hanno
il diritto di usare le armi per respingere gli aggressori della comunità
civile…” (2266).
La chiesa non vuole prospettare, neanche
sul piano ipotetico, l’idea che gli aggressori si comportino così proprio
perché si appellano al principio della “legittima difesa” e
che i veri aggressori possano in realtà essere le stesse autorità
costituite. “La pena ha lo scopo di difendere l’ordine pubblico e la
sicurezza delle persone” (2266), sentenzia il CCC. Non ha, quindi,
senso chiedersi se tale difesa sia “sempre” lecita o se non sia meglio mettere
in discussione il valore del cosiddetto “ordine pubblico”.
Thomas More, martire della libertà di
coscienza, santificato dalla Chiesa romana nel 1935, disse nella sua Utopia:
gli Stati fondati sulla proprietà privata e il denaro “allevano dei
ladri per poi punirli con la morte”.
F. Engels, tre secoli dopo, dirà la stessa
cosa in La situazione della classe operaia in Inghilterra: “Se
la società toglie a migliaia di individui il necessario per l’esistenza…; se
mediante la forza della legge li costringe a rimanere in tali condizioni,
finché non sopraggiunga la morte… questo è assassinio… contro il quale nessuno
può difendersi… perché non si vede l’assassino, perché questo assassino sono
tutti e nessuno, perché la morte della vittima appare come una morte naturale e
perché esso non è tanto un peccato di opera, quanto un peccato di omissione”.
Naturalmente, gli esegeti più ipocriti
sostengono che la Chiesa si limita a “riconoscere” agli Stati l’uso estremo
della pena di morte, senza farsi sua diretta sostenitrice. Ciò in realtà è
falso, sia perché la Chiesa ha abolito, de jure, in Vaticano tale
forma di condanna solo nel 1969 (per comodità affaristica di riconoscimenti
nell’Unione Europea), sia perché la necessità di tale pena si evince, – come si
è visto, – dai suoi stessi argomenti di tipo religioso, sia perché, infine, il
Vaticano assai raramente (o mai?) si è pronunciato contro gli Stati che
comminano sentenze capitali (opposizioni alla pena di morte è possibile
riscontrarle solo in chiese locali o nazionali, come, ad esempio, nella Commissione
per la Vita della Conferenza Episcopale Cattolica degli USA).
In realtà, a queste conclusioni assai poco
democratiche, si perviene quando il problema della responsabilità penale viene
affrontato in termini puramente idealistici o giuridici, senza tener conto di
alcun riferimento storico o sociale concreto.
“La pena, –
dice il CCC, – ha valore di espiazione” (2266), in quanto
il colpevole è solo colpevole. Il riferimento qui
và soprattutto al caso dell’omicidio volontario, per il quale non esistono
attenuanti. Solo quando si parla di quello involontario (come se, sul piano
etico, si potesse fare una distinzione così precisa), gli autori del CCC fanno
un’annotazione complementare usando i caratteri piccoli: “Tollerare, –
viene detto, – da parte della società umana, condizioni di miseria che
portano alla morte senza che ci si sforzi di porvi rimedio, è una scandalosa
ingiustizia e una colpa grave”(2269). La Chiesa qui intende riferirsi a
coloro che usano “pratiche usuraie e mercantili”. Costoro,
indirettamente (solo indirettamente in una società capitalistica?) “commettono
un omicidio”.
Il CCC, insomma, non si preoccupa di
“capire” il crimine di chi, sottoposto a condizioni di vita disumane, reagisce
istintivamente facendosi giustizia da sé. Non si preoccupa minimamente di
giustificare coloro che, sottoposti alle medesime condizioni, ad un certo punto
decidono di organizzarsi politicamente per rovesciare i poteri costituiti. Si
preoccupa soltanto di trovare dei “colpevoli”, siano essi volontari o
involontari, diretti o indiretti, lasciando da parte tutte le responsabilità
che possono avere gli Stati e le istituzioni di potere, nonché i gruppi sociali
dominanti di una determinata società.
Ormai, come ognuno si sarà certamente
accorto, le parole non hanno più alcun significato. La Chiesa è disposta ad
affermare tutto ed il contrario di tutto, cioè tutto quanto fa parte del suo
impianto strettamente conservatore e, per essere più credibile, alcune cose che
fanno parte dell’ideologia laica e democratica.
Il problema non sta più nella scelta delle
parole, ma solo nell’atteggiamento che il credente deve tenere nei confronti
della Chiesa. E l’atteggiamento giusto, a quanto pare, visto che nessun alto
esponente della Curia vaticana l’ha contestato, può essere considerato quello
delle cattolicissime Filippine, il cui Parlamento, il 23 febbraio 1993, ha
reintrodotto, nonostante l’opposizione della Conferenza Episcopale
Filippina, la pena di morte, dopo averla abolita nel 1987, proprio facendo
leva sulle affermazioni del Catechismo Universale.
Contenuti
tratti da: http://www.homolaicus.com/teorici/wojtyla/pena_morte.htm
Pigrizia intellettuale e teoria della
responsabilità sociale
In un paese dove vige la pena di morte che
senso può avere la teoria del ragionevole dubbio? Non è forse una
contraddizione in termini?
Se anche dal punto di vista tecnico/materiale,
non vi fossero dubbi circa la consapevolezza di una persona da condannare a
morte, chi ci assicura che non esisterebbero dubbi dal punto di vista morale?
Come si può pensare che un individuo sano
di mente possa compiere un delitto nella più assoluta libertà di scelta?
Se una persona fosse assolutamente libera
di scegliere perché dovrebbe scegliere una cosa che le farebbe perdere la
libertà?
Nessuno vive così isolato dagli altri da
poter dire con sicurezza: “Ho scelto liberamente, senza condizionamenti
di sorta”. Chi vivesse isolato dal mondo, probabilmente, non si porrebbe
neanche il problema di compiere un delitto. Non ne avrebbe motivo. A meno che
l’isolamento non fosse una sorta di punizione inflitta in precedenza: il che
potrebbe portare a risentimenti e a esigenze di vendetta personale.
Viviamo in una società in cui i
condizionamenti sono reciproci: dunque, per quale motivo quando si tratta di
giudicare qualcuno, lo consideriamo come un individuo isolato e lo carichiamo
di responsabilità più grandi di quelle che potrebbe avere nella vita reale?
Gli uomini vivono assieme come tanti
individui isolati: costituiscono una comunità per via indotta,
involontariamente, non per libera scelta (questo senza considerare che la
comunità dovrebbe far parte in maniera naturale della vita di una persona, sin
dalla sua nascita). Nella vita reale, non si è capaci di assumere
reciprocamente le responsabilità altrui. Sicché quando qualcuno commette un
reato, viene lasciato solo, con tutte le sue responsabilità.
Eppure, l’isolamento che si vive in
società è anch’esso una forma di condizionamento, un peso da sopportare. Si
possono commettere azioni criminose non perché si è isolati dalla società,
ma proprio perché si è isolati nella società.
Il crimine è sempre frutto di un
condizionamento sociale: ecco perché, indirettamente, si è tutti colpevoli. Il
crimine dovrebbe essere considerato come occasione per ripensare i criteri del
vivere civile.
Insomma, la teoria del ragionevole dubbio
dovrebbe spingersi sino al concorso morale, indiretto, che può avere la società
nei confronti dell’imputato che ha commesso un reato.
Anche la teoria della presunzione
d’innocenza, in tal senso, andrebbe rivista. Non ha senso sostenere che uno è
innocente finché non si è dimostrata la colpevolezza. Bisognerebbe anzi
sostenere il contrario e, cioè, che in un modo o nell’altro siamo tutti colpevoli
e che quando si tratta di giudicare qualcuno, anzitutto, bisognerebbe chiedersi
che cosa si è fatto per impedire che un determinato reato venisse compiuto.
Bisognerebbe partire da premesse di
colpevolezza sociale, in modo da non far sentire l’imputato un individuo
isolato, un estraniato.
Questo, ovviamente, non significa che il
reato non deve essere punito o che bisogna essere pietisti ad oltranza.
Significa, semplicemente, che, nei confronti del reato, bisogna assumere un
atteggiamento pedagogico.
Il reato è un indizio di malessere
sociale. Dall’analisi dei sintomi, bisogna saper trovare una terapia per
vincere un male che ha radici nella società e nella sua cultura.
Dobbiamo abituarci a considerare i
condizionamenti sociali non come un limite alla libertà, ma come il fondamento
su cui la libertà và costruita.
Siamo liberi, appunto, perché
condizionati.
Il nostro compito è quello di rendere
positivi questi condizionamenti, affinché siano utili alla libertà.
Contenuti
tratti da: http://www.homolaicus.com/teorici/wojtyla/pena_morte.htmL’insegnamento tradizionale della Chiesa
non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della
responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa
fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto
la vita di esseri umani.
Da fonti varie,
a cura di Nino Caliendo
Nella Bibbia
Nella Bibbia sono elencate situazioni in
cui, nelle leggi che Dio dà a Mosé per esporle al popolo ebraico, si stabilisce
la pena capitale come punizione per determinate colpe. Ad esempio, nell’Antico
Testamento è scritto:
“Colui che colpisce un uomo causandone la
morte, sarà messo a morte “ (Esodo 21,12).
Nell’Antico Testamento (Genesi, 2,12-15)
esistono alcuni passi in cui Dio condanna la vendetta umana, minacciando
punizioni peggiori (“sette volte” e
“settanta volte sette”) per chi avesse ucciso Caino e Lamech.
Diversi passi, in prevalenza dell’Antico
Testamento, affermano la legittimità della pena di morte quando è violata la
legge di Mosé. A questi si aggiungono gli episodi di guerra e della storia del
popolo eletto, dove i nemici periscono per volontà divina. Riguardo alla
violazione della legge ebraica, nella Lettera agli Ebrei 10,28: “Quando
qualcuno ha violato la legge di Mosé, viene messo a morte senza pietà sulla
parola di due o tre testimoni”. In Levitico 24,16 viene messo a morte “Chi
bestemmia il nome del Signore”, in Levitico 20,10 chi commette adulterio,
in 27,29 “Nessuna persona votata allo sterminio potrà essere
riscattata; dovrà essere messa a morte” e in Levitico 24,17 “Chi
percuote a morte un uomo”. In Esodo 21,17 viene messo a morte chi maledice
il padre o la madre.
Il passo è ripreso nel Nuovo Testamento,
da Vangelo di Marco 7,10: “…infatti disse: Onora tuo padre e tua madre,
e chi maledice il padre e la madre sia messo a morte”. In Numeri 35,30, si
afferma che non si può accettare un prezzo di riscatto da un omicida: “Se
uno uccide un altro, l’omicida sarà messo a morte in seguito a deposizione di
testimoni, ma un unico testimone non basterà per condannare a morte una
persona. Non accetterete prezzo di riscatto per la vita di un omicida, reo di
morte, perché dovrà essere messo a morte”.
La morte del colpevole avveniva per
lapidazione. Questa forma di esecuzione coinvolge tutta la comunità locale
adulta, che collettivamente è chiamata ad applicare la legge, e risparmia
l’individuazione di un singolo come boia.
Nel Nuovo Testamento, Gesù richiama più
volte al perdono e condanna l’episodio della lapidazione della donna adultera:
“Chi di voi è senza
peccato, scagli per primo la pietra contro di lei” (Giovanni
8,7).
Pensatori cristiani
Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino
sostengono la liceità della pena di morte sulla base del concetto della
conservazione del bene comune. L’argomentazione di Tommaso d’Aquino è la
seguente:
“Come è lecito, anzi
doveroso, estirpare un membro malato per salvare tutto il corpo, così quando
una persona è divenuta un pericolo per la comunità o è causa di corruzione
degli altri, essa viene eliminata per garantire la salvezza della comunità” (Summa
theologiae II-II, q. 29, artt. 37-42).
Il teologo sosteneva, tuttavia, che la
pena andasse inflitta solo al colpevole di gravissimi delitti, mentre,
all’epoca, veniva utilizzata con facilità e grande discrezionalità.
Lo Stato pontificio ha mantenuto nel suo
ordinamento la pena di morte fino al XX secolo.
Dottrina cattolica odierna
Il Catechismo della Chiesa
Cattolica (1997) parla della pena di morte all’interno della
trattazione sul quinto comandamento, “Non uccidere” e, più
specificamente, nel sottotitolo che tratta della legittima difesa.
In questo contesto dice (n. 2266-2267):
“2266: Corrisponde ad un’esigenza
di tutela del bene comune lo sforzo dello Stato inteso a contenere il
diffondersi di comportamenti lesivi dei diritti dell’uomo e delle regole
fondamentali della convivenza civile. La legittima autorità pubblica ha il
diritto ed il dovere di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto.
La pena ha innanzi tutto lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla
colpa. Quando è volontariamente accettata dal colpevole, essa assume valore di
espiazione. La pena poi, oltre che a difendere l’ordine pubblico e a tutelare
la sicurezza delle persone, mira ad uno scopo medicinale: nella misura del
possibile, essa deve contribuire alla correzione del colpevole”.
“2267: L’insegnamento tradizionale
della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della
responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa
fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto
la vita di esseri umani.
Se invece i mezzi incruenti sono
sufficienti per difendere dall’aggressore e per proteggere la sicurezza delle
persone, l’autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio
rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla
dignità della persona umana…”
La pena di morte in Città del Vaticano
venne rimossa dalla Legge Fondamentale solo il 12 febbraio
2001, forse per convenienza UE, visto che l’Unione Europea non ammette la pena
capitale e, di conseguenza, gli Stati che la prevedono.
Nel giugno 2004, l’allora cardinale Joseph
Ratzinger, attuale papa Benedetto XVI, inviò, in qualità di prefetto
della Congregazione per la Dottrina della Fede, una lettera al
cardinale Theodore Edgar McCarrick, – arcivescovo di Washington, – e
all’arcivescovo Wilton Daniel Gregory, – presidente della Conferenza Episcopale
degli Stati Uniti, – nella quale affermava che può tuttavia essere
consentito [...] fare ricorso alla pena di morte
Contenuti
tratti da: http://it.wikipedia.org/wiki/Pena_di_morte
Se l’art. 2261 del Nuovo Catechismo
afferma che: “La Scrittura precisa la proibizione del quinto comandamento:
non far morire l’innocente e il giusto” (Es 23,7), è consequenziale
che: “Il comandamento ‘Non uccidere’ ha valore assoluto quando si
riferisce alla persona innocente” (Evangelium vitae, n° 57) e
valore relativo quando si riferisce alla persona colpevole.
Infatti, l’art. 2267 del Nuovo Catechismo
conferma che: “L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude,
supposto il pieno accertamento dell’ identità e della responsabilità del
colpevole, il ricorso alla pena di morte”.
La Chiesa, dunque, riconosce all’autorità
pubblica il potere di applicare la pena di morte, nei confronti delle persone
colpevoli, perché la “Scrittura” e, più precisamente, il versetto 7 del
capitolo 23 dell’Esodo “non far morire l’innocente e il giusto“,
preciserebbe che il comandamento “Non uccidere” è stato
formulato da Dio per proteggere la vita delle persone innocenti, ma non le
colpevoli.
Ma la Chiesa è proprio certa che questa
dottrina così inumana sia conforme alla legge divina e non sia, piuttosto,
frutto di conformazione umana?
Se di fronte alla legge umana, tutte le persone
sono considerate uguali: “La legge è uguale per tutti”, quanto più,
tutte le persone, dovrebbero essere considerate uguali di fronte alla legge di
Dio, che possiede carattere universale?
Mentre, per il Catechismo, di fronte alla
legge divina: “Non uccidere”, le persone non sono considerata tutte
uguali, ma, a priori, separate le buone dalle cattive e proprio le cattive, per
le quali Dio ha istituita la legge, defraudate dai benefici.
In realtà, la “Scrittura” di cui parla il
Catechismo, che “precisa la proibizione del quinto comandamento”, si riduce ad
un versetto dell’Antico Testamento: “Non far morire l’innocente e il
giusto“, formulato, peraltro, in modo incompleto, infatti, citato per
intero: “Starai lontano dalla parola falsa e non ucciderai l’innocente
e il giusto perché io non dichiaro giusto il colpevole“ (Es 23,7),
rivela la vera intenzione dell’autore sacro, che non è certo quella di voler
precisare la proibizione del quinto comandamento, come dichiara il Catechismo,
ma formare le coscienze umane al giusto comportamento morale che devono
assumere i soggetti giuridici nell’ambito di un processo penale: Dio vieta,
categoricamente, ai giudici e ai testimoni, di ricorrere a parole false per
deviare il corso della giustizia, provocando la condanna dell’innocente e
l’assoluzione del colpevole. Intenzione che, l’autore sacro sottolinea anche
con il versetto precedente: “Non farai deviare il giudizio del povero,
che si rivolge a te nel suo processo“ (Es 23,6).
Tra l’altro, non spetta all’Antico Testamento
stabilire le verità divine in materia di fede e di morale, ma al Nuovo
Testamento e in esso non vi è un solo versetto che autorizzi la Chiesa a
legittimare la pena di morte, una pena di natura vendicativa, assolutamente
contraria al perdono, il quale costituisce il DNA dello spirito cristiano.
Unitamente alla pena di morte, anche la
“tortura” è stata sempre considerata dalla Chiesa moralmente lecita: solo con
il Concilio Vaticano II è stata, finalmente, esclusa e
condannata.
Intanto, prima che fosse rigettata, un
numero infinito di persone, che solo Dio conosce, ha dovuto soffrire atrocità
incredibili e tante di esse sono morte a causa di questa dottrina legittimata
dalla Chiesa.
Ora, però, che il Concilio si
è espresso in modo autentico e ufficiale contro tutte: “…le torture
inflitte al corpo alla mente…ledono grandemente l’onore del creatore” (Gaudim
et spes n° 27) può la Chiesa continuare a considerare lecita la pena di morte?
Non è forse la pena di morte una pratica di tortura inflitta al corpo e alla
mente?
Da: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3721
Il Catechismo e la pena di morte
Cesare Beccaria, a proposito della pena di
morte, nel pamphlet “Dei delitti e delle pene”, nel 1764,
scriveva: “Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della
pubblica volontà, che detestano e puniscano l’omicidio, ne commettano uno esse
medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordini un pubblico
assassinio”.
Il Granducato di Toscana, nel 1786, fu il
primo Stato al mondo ad abolire la pena di morte.
Su iniziativa dell’Italia, l’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite, il 18 Dicembre 2007, ha approvato la risoluzione per
la moratoria universale contro la pena di morte nel mondo.
Ma, il punto 2267 de “Il nuovo
catechismo della Chiesa cattolica” (1992, rivisto nel 1999) così
recita:
“L’insegnamento tradizionale della Chiesa
non esclude (…) il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via
praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di
esseri umani (…). Oggi (…) i casi di assoluta necessità di soppressione del reo
sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti” (quest’ultimo
paragrafo, aggiunto successivamente, proviene dall’enciclica di Giovanni Paolo
II “Evangelium vitae” del 1995).
Ecco l’assurdo! La Chiesa, nella sua dottrina
fondamentale, il Catechismo, mantiene ancora la pena di morte,
anche se edulcorata dall’aggiunta di un paragrafetto dell’enciclica sopradetta.
Le lancette del tempo sembrano essersi
fermate, meno male che la… Santa Inquisizione è lontana!
Eppure, nel Nuovo testamento, Gesù invoca il perdono nell’episodio
della lapidazione della donna adultera: “Chi di voi è senza peccato,
scagli per primo la pietra contro di lei” (Giovanni 1 cap 8,
7).
E Giovanni Paolo II dichiara, durante la
visita negli USA, che la Chiesa è “incondizionatamente a favore della
vita” e che, essendo la nostra società “in possesso dei mezzi
per proteggersi (…), la pena si morte è crudele e non necessaria”.
Insomma, sembra l’applicazione completa
del V comandamento: non uccidere. Ma non è così. Infatti, quando si
afferma che sono rari i casi “di assoluta necessità di soppressione del
reo”, si ammette che in qualche caso la pena di morte è riconosciuta.
Qualcuno scrive che questo vale per
la legittima difesa (punto 2266). Ma quanti innocenti,
nel Far West del mondo civilizzato, vengono uccisi in nome
della legittima difesa? Quando, allora, si può parlare di legittima
difesa, ovvero quale tipo di reato autorizza alla pena capitale?
E, se “la pena di morte è crudele
e non necessaria”, perché viene ancora mantenuto nel Catechismo il punto
2267, che rappresenta un affronto all’etica del perdono e della misericordia e
lascia l’impressione che si possa, in qualche caso, utilizzarlo?
di Governanti
- www.governanti.blogspot.com
Il Catechismo Universale e la pena di
morte
Si è fatto un gran discutere, in ambienti
pacifisti e non-violenti, come, ad esempio Amnesty International,
circa le motivazioni che possono aver indotto la chiesa cattolica ad accettare
– come risulta dal paragrafo 2266 del recente Catechismo Universale (CCC)
– la pena di morte, seppure “in casi di estrema gravità”.
Vediamo le prime.
Al paragrafo 2259, dicono gli autori del
CCC: “La Scrittura, nel racconto dell’uccisione di Abele da parte del
fratello Caino, rivela, fin dagli inizi della storia umana, la presenza
nell’uomo della collera e della cupidigia, conseguenze del peccato originale”.
Il riferimento al cosiddetto “peccato
originale”, ogni qualvolta si deve cercare di spiegare la causa di taluni
malesseri sociali, è praticamente una costante nella teologia cattolica.
Al paragrafo successivo gli autori
ricordano che “l’alleanza [vetero testamentaria] di
Dio e dell’umanità è intessuta di richiami al dono divino della vita umana e
alla violenza omicida dell’uomo”(2260).
Dei due “richiami”, quello che più preme
sottolineare agli autori non è il primo, – come sarebbe naturale per una
istituzione (la Chiesa) che predica la legge dell’amore -, bensì il secondo. E
di questo l’aspetto da essi considerato più significativo non è tanto il puro e
semplice “divieto di non uccidere”, quanto piuttosto il divieto di
uccidere “l’innocente e il giusto” (2261): peccato, questo, “gravemente
contrario alla dignità dell’essere umano”.
Ora, proviamo a chiederci: per quale
ragione la chiesa cattolica ritiene che “l’uccisione volontaria di un
innocente è gravemente contraria alla dignità dell’essere umano” (2261)?
Cioè, per quale ragione essa non si limita ad affermare che l’essere umano in
quanto tale, santo o peccatore che sia, non meriterebbe mai di morire in modo
violento?
La Chiesa Romana, – qui autorevolmente
rappresentata da un Catechismo Universale, -non è in grado di trarre le logiche
conseguenze dalla sua teoria del peccato originale, perché finirebbe in un
groviglio inestricabile di contraddizioni. A noi, invece, interessa mettere in
luce il seguente, inevitabile, sillogismo: se la natura umana è intrinsecamente
malvagia, allora anche Abele era “colpevole”, ma se egli era “colpevole”,
il delitto di Caino, in sé pur grave, va ricompreso sulla base di ogni
possibile attenuante, onde ostacolarne la reiterazione. Qui, naturalmente, non
è il caso di verificare ciò che Caino e Abele simbolicamente rappresentavano
nel racconto del Genesi. Dobbiamo limitarci a considerazioni astratte.
Quel che è certo è che nel racconto
biblico la “dignità dell’essere umano” dipendeva da altro
rispetto alla legge, poiché Caino fu punito prima che venisse formulato il
divieto del quinto comandamento.
Non solo, ma egli venne “marchiato” proprio
per impedire che qualcuno commettesse un secondo delitto, cioè che usasse
vendetta contro di lui. Se a quel tempo avessero dato per scontata l’intrinseca
malvagità umana, alla prima manifestazione di questa non ci sarebbe stata altra
soluzione che l’esecuzione capitale.
Sicché si può tranquillamente affermare
con A. Schenker che ai tempi di Caino era la dignità dell’uomo ad essere
considerata intrinseca all’uomo stesso. Il peccato originale, cioè la
violazione delle modalità del comunismo primitivo, se comportò la nascita
dell’individualismo, non determinò affatto l’impossibilità di opporvisi. Ancora
non esistevano né l’idea dell’espiazione né il principio della retribuzione
come base del sistema della pena. Il divieto di uccidere Caino sta appunto a
testimoniare che, nonostante l’emergere dell’individualismo, i princìpi
democratici del collettivismo non erano stati dimenticati.
Viceversa, il divieto mosaico fa la sua
comparsa in un contesto dove, evidentemente, per rispettare la persona non era
più sufficiente rifarsi alle tradizioni orali, ma occorreva una legge scritta:
segno, questo, che il distacco dai princìpi del comunismo primitivo era
diventato progressivo, forse irreversibile. Di qui, l’esigenza d’imporre al
colpevole una pena proporzionata e di risarcire la vittima del danno subìto. La
giustizia, sempre meno possibile sul piano sociale, doveva almeno apparire su
quello giuridico, cioè su quello formale della legge.
Ora, prima di rispondere adeguatamente
alla domanda che sopra ci siamo posti, dobbiamo continuare a ripercorrere
l’analisi del CCC, che si sposta dall’Antico Testamento (A.T.) al Nuovo,
esaminando la figura chiave di Gesù Cristo.
Per gli autori del CCC, Cristo non sarebbe
che un “nuovo Abele” che porge l’altra guancia, ama i propri nemici, non si
difende da chi lo accusa ingiustamente. etc (2262).
Dopo aver dedicato tre paragrafi (2259-61)
al V.T., il CCC ne dedica uno solo al Nuovo. Perché? Semplicemente perché si
vuole far apparire il Cristo come un “perfezionatore” del divieto mosaico.
Pur di dimostrare che l’uomo è
intrinsecamente malvagio, Cristo, – secondo il CCC, – avrebbe non solo vietato
l’ira, l’odio e la vendetta, oltre che naturalmente l’omicidio, ma si sarebbe
anche offerto volontariamente come “agnello sacrificale” per i
peccati degli uomini. Egli dunque, in un certo senso, sarebbe stato vittima
della sua stessa “legge dell’amore assoluto”, che gli impediva di
trasformarsi in “giustiziere dei malvagi”.
Come si può notare, questa interpretazione
della vita di Cristo è assolutamente fantastica. La chiesa romana non ha qui
saputo cogliere la fondamentale differenza dalla legge mosaica che i vangeli
rappresentano, per i quali il “divieto di uccidere” è una
contraddizione in termini, finché non si pongono le basi sociali che tolgano al
delitto le sue motivazioni di fondo.
In effetti, se nel mentre si pone il
divieto non ci si preoccupa di creare una società veramente democratica, quel
divieto, alla lunga, non sortirà alcun effetto. E, viceversa, se si ha quella
preoccupazione, il divieto è altrettanto inutile, poiché non sarà in virtù di
esso che i cittadini si comporteranno in maniera non-violenta.
A parte questo, la Chiesa Romana non ha
mai neppure capito (o non lo ha mai voluto capire) il motivo per cui il Cristo
si lasciò giustiziare senza reagire. Lungi dal pensare che il potere dominante
avrebbe più facilmente rinunciato al proprio arbitrio, vedendo un innocente
salire tranquillamente sul patibolo, il Cristo deve, invece, aver atteso
(invano, purtroppo) che la propria liberazione fosse il frutto di una
convinzione largamente popolare, solo in virtù della quale si sarebbe sia
potuto vincere il dominio romano che costruire una nuova società civile.
Imporre il proprio progetto democratico
con colpi di stato, atti terroristici e cose simili non avrebbe certo
significato realizzare un’alternativa alla logica del potere dominante (romano
o ebraico che fosse).
Ora, finalmente, possiamo rispondere alla
suddetta domanda, se il lettore non l’ha già fatto per contro proprio. La
Chiesa è favorevole alla pena di morte sostanzialmente per questa ragione di
tipo “etico-religioso”: essendo la natura dell’uomo intrinsecamente malvagia,
la società ha il diritto, nei confronti di chi cerca di contenere tale
malvagità in una condotta il più possibile irreprensibile e, nonostante questo,
viene ucciso, di considerare la sua morte un delitto assolutamente
imperdonabile.
In altre parole, è intollerabile per la
chiesa veder uccidere un “innocente”, colui cioè che, meglio di altri, combatte
contro gli effetti deleteri del peccato originale (ma anche colui che, essendo
ancora troppo giovane d’età, non ha potuto sperimentare su di sé gli effetti o
le tentazioni di quella colpa). “L’omicida e coloro che volontariamente
cooperano all’uccisione commettono un peccato che grida vendetta al cielo”,
specie nei casi di “infanticidio, fratricidio, parricidio e uccisione
del coniuge” (2268).
Si deve, però, andare al paragrafo 1867
per accorgersi che fra i “peccati che gridano al cielo” non vi è solo
l’omicidio di Abele o la licenziosità dei Sodomiti, ma anche “il
lamento del popolo oppresso in Egitto; il lamento del forestiero, della vedova
e dell’orfano”. Infine, “l’ingiustizia verso il salariato”.
Ma, la cosa più singolare di tutta questa
esegesi del CCC, circa il divieto mosaico e la morte di Gesù, è che nella
seconda parte del capitolo (quella dedicata alla “legittima difesa”)
– e qui veniamo alla motivazione più propriamente politica, – la Chiesa romana,
servendosi delle sentenze dell’Aquinate, arriva a formulare cose del
tutto antievangeliche, che peggiorano persino la durezza della legge mosaica,
la quale prevedeva la pena di morte per i trasgressori di alcuni comandamenti.
Sulla base della motivazione vista sopra,
la Chiesa non ha espresso un parere chiaramente favorevole alla pena di morte.
Essa, infatti, si rende conto che, in quanto istituzione “religiosa”,
dev’essere sempre pronta al perdono.
Tuttavia, la trattazione religiosa
dell’argomento è stata condotta con abile maestria, evitando di esprimere
“giudizi di valore” categorici, sia per mostrare che il divieto mosaico “ha
una validità universale: obbliga tutti e ciascuno, sempre e dappertutto” (2261),
per cui la sua trasgressione non può che comportare gravissime conseguenze, sia
per suscitare nel lettore un senso di forte riprovazione nei confronti del
fatto che, nonostante la palese innocenza di Gesù, vi furono ugualmente delle
persone disposte a crocifiggerlo.
Come restare indifferenti al cospetto di
un’ingiustizia così grande? Il fatto che Cristo non abbia voluto difendersi,
non implica che nessuno debba farlo. Ciò che sul piano etico-religioso può
apparire inaccettabile, può non esserlo sul piano gius-politico.
Infatti, “l’amore verso se stessi
resta un principio fondamentale della moralità. E’, quindi, legittimo far
rispettare il proprio diritto alla vita”, “poiché, – come dice
Tommaso d’Aquino, – un uomo è tenuto di più a provvedere alla propria
vita che alla vita altrui” (2264).
Curiosa questa citazione
dell’illustre Dottore della Chiesa. Egli ha, senza dubbio, ragione
quando afferma che “se nel difendere la propria vita uno usa maggiore
violenza del necessario, il suo atto è illecito”. Ma che dire del fatto che
la legittima difesa venga invocata per tutelare un diritto esclusivamente
soggettivo? Da una Chiesa che pretende di fare dell’ideale “divino” la
sua raison d’être, sinceramente, ci si aspettava qualcosa di più
sublime.
In effetti, se la legittima difesa è il
modo migliore per garantire un proprio diritto, cosa dover pensare di quanti,
nella storia, vi hanno rinunciato per poter meglio affermare un “bene
comune”, cioè un valore, un ideale, un “diritto”, se si vuole,
o, comunque, una causa non puramente soggettiva? Cosa pensare di coloro che,
liberamente e consapevolmente, non perché desiderosi di morire martiri à
tout prix, hanno preferito l’idea del sacrificio personale a quella della
legittima difesa? Erano pazzi, ingenui, illusi o che altro? Il valore etico
(umano, ontologico) di una scelta esistenziale, può essere misurato in termini
meramente giuridici?
Quando poi ci si addentra sul piano più
propriamente politico-istituzionale, i limiti della chiesa cattolica si
evidenziano in tutta la loro crudezza. Se già avevamo messo in dubbio il valore
assoluto della legittima difesa (che va comunque salvaguardata) in nome
dell’interesse soggettivo, ora ci pare ancor più fuorviante l’affermazione
secondo cui la legittima difesa va considerata anche come un dovere da parte di
chi “è responsabile della vita altrui” (2265).
Come spesso succede le parole che si usano
non hanno mai un senso univoco, inequivocabile, ma sono sempre soggette a
fraintendimenti, anche quando si cerca di essere il più possibile aderenti alla
realtà, il più possibile “scientifici”: cioè, esiste sempre la
possibilità di dare alle parole un senso opposto a quello voluto, anche contro
la propria volontà, o, comunque, esiste sempre la possibilità che qualcuno non
ci capisca o non ci voglia capire. E così qui: chi metterebbe in dubbio che le
autorità costituite hanno il dovere di usare lo strumento della legittima
difesa per tutelare l’incolumità (non solo fisica) dei propri cittadini? Ma se
noi dicessimo: le autorità costituite, nell’adempiere al dovere di difendere i
cittadini, hanno il diritto di sostituirsi alla loro volontà, non susciteremmo
forse delle perplessità?
La frase incriminata dalle associazioni
pacifiste è stata la seguente: “la chiesa ha riconosciuto fondato [sottinteso:
"da sempre"] il diritto e il dovere della legittima [o
semplicemente "costituita"?] autorità pubblica di infliggere
pene proporzionate alla gravità del delitto, senza escludere, in casi di
estrema gravità, la pena di morte” (2266).
Si noti il sofisma dell’espressione “pene
proporzionate”: forse il popolo può impedire, nella concezione politica
della Chiesa, che lo Stato usi pene sproporzionate? E come lo potrebbe, visto e
considerato che, per la Chiesa, lo Stato è soggetto non alla “volontà
popolare”, ma solo alle “leggi” (1903), che devono essere
conformi a “un ordine prestabilito da Dio” (1901)?
Se la “volontà popolare” fosse
il principio fondamentale dello “Stato di diritto”, la pena di
morte potrebbe forse essere considerata una “pena proporzionata” a
un qualche particolare delitto? Sarebbe forse giusto dare per scontato che, ad
un certo punto, bisogna assolutamente negare al colpevole qualunque possibilità
di pentimento, ritenendolo unico vero responsabile del suo crimine? E’ forse
questo l’insegnamento del Cristo nell’episodio della “donna adultera” (Gv.
8,1ss.)?
Il fatto è che, – secondo gli autori
del CCC, – la società (e, quindi, la Chiesa) deve, comunque, difendersi da chi
la minaccia con l’uso della forza. Su questo, il CCC è molto esplicito: “i
detentori dell’autorità [qui considerati "sacri e inviolabili"] hanno
il diritto di usare le armi per respingere gli aggressori della comunità
civile…” (2266).
La chiesa non vuole prospettare, neanche
sul piano ipotetico, l’idea che gli aggressori si comportino così proprio
perché si appellano al principio della “legittima difesa” e
che i veri aggressori possano in realtà essere le stesse autorità
costituite. “La pena ha lo scopo di difendere l’ordine pubblico e la
sicurezza delle persone” (2266), sentenzia il CCC. Non ha, quindi,
senso chiedersi se tale difesa sia “sempre” lecita o se non sia meglio mettere
in discussione il valore del cosiddetto “ordine pubblico”.
Thomas More, martire della libertà di
coscienza, santificato dalla Chiesa romana nel 1935, disse nella sua Utopia:
gli Stati fondati sulla proprietà privata e il denaro “allevano dei
ladri per poi punirli con la morte”.
F. Engels, tre secoli dopo, dirà la stessa
cosa in La situazione della classe operaia in Inghilterra: “Se
la società toglie a migliaia di individui il necessario per l’esistenza…; se
mediante la forza della legge li costringe a rimanere in tali condizioni,
finché non sopraggiunga la morte… questo è assassinio… contro il quale nessuno
può difendersi… perché non si vede l’assassino, perché questo assassino sono
tutti e nessuno, perché la morte della vittima appare come una morte naturale e
perché esso non è tanto un peccato di opera, quanto un peccato di omissione”.
Naturalmente, gli esegeti più ipocriti
sostengono che la Chiesa si limita a “riconoscere” agli Stati l’uso estremo
della pena di morte, senza farsi sua diretta sostenitrice. Ciò in realtà è
falso, sia perché la Chiesa ha abolito, de jure, in Vaticano tale
forma di condanna solo nel 1969 (per comodità affaristica di riconoscimenti
nell’Unione Europea), sia perché la necessità di tale pena si evince, – come si
è visto, – dai suoi stessi argomenti di tipo religioso, sia perché, infine, il
Vaticano assai raramente (o mai?) si è pronunciato contro gli Stati che
comminano sentenze capitali (opposizioni alla pena di morte è possibile
riscontrarle solo in chiese locali o nazionali, come, ad esempio, nella Commissione
per la Vita della Conferenza Episcopale Cattolica degli USA).
In realtà, a queste conclusioni assai poco
democratiche, si perviene quando il problema della responsabilità penale viene
affrontato in termini puramente idealistici o giuridici, senza tener conto di
alcun riferimento storico o sociale concreto.
“La pena, –
dice il CCC, – ha valore di espiazione” (2266), in quanto
il colpevole è solo colpevole. Il riferimento qui
và soprattutto al caso dell’omicidio volontario, per il quale non esistono
attenuanti. Solo quando si parla di quello involontario (come se, sul piano
etico, si potesse fare una distinzione così precisa), gli autori del CCC fanno
un’annotazione complementare usando i caratteri piccoli: “Tollerare, –
viene detto, – da parte della società umana, condizioni di miseria che
portano alla morte senza che ci si sforzi di porvi rimedio, è una scandalosa
ingiustizia e una colpa grave”(2269). La Chiesa qui intende riferirsi a
coloro che usano “pratiche usuraie e mercantili”. Costoro,
indirettamente (solo indirettamente in una società capitalistica?) “commettono
un omicidio”.
Il CCC, insomma, non si preoccupa di
“capire” il crimine di chi, sottoposto a condizioni di vita disumane, reagisce
istintivamente facendosi giustizia da sé. Non si preoccupa minimamente di
giustificare coloro che, sottoposti alle medesime condizioni, ad un certo punto
decidono di organizzarsi politicamente per rovesciare i poteri costituiti. Si
preoccupa soltanto di trovare dei “colpevoli”, siano essi volontari o
involontari, diretti o indiretti, lasciando da parte tutte le responsabilità
che possono avere gli Stati e le istituzioni di potere, nonché i gruppi sociali
dominanti di una determinata società.
Ormai, come ognuno si sarà certamente
accorto, le parole non hanno più alcun significato. La Chiesa è disposta ad
affermare tutto ed il contrario di tutto, cioè tutto quanto fa parte del suo
impianto strettamente conservatore e, per essere più credibile, alcune cose che
fanno parte dell’ideologia laica e democratica.
Il problema non sta più nella scelta delle
parole, ma solo nell’atteggiamento che il credente deve tenere nei confronti
della Chiesa. E l’atteggiamento giusto, a quanto pare, visto che nessun alto
esponente della Curia vaticana l’ha contestato, può essere considerato quello
delle cattolicissime Filippine, il cui Parlamento, il 23 febbraio 1993, ha
reintrodotto, nonostante l’opposizione della Conferenza Episcopale
Filippina, la pena di morte, dopo averla abolita nel 1987, proprio facendo
leva sulle affermazioni del Catechismo Universale.
Contenuti
tratti da: http://www.homolaicus.com/teorici/wojtyla/pena_morte.htm
Pigrizia intellettuale e teoria della
responsabilità sociale
In un paese dove vige la pena di morte che
senso può avere la teoria del ragionevole dubbio? Non è forse una
contraddizione in termini?
Se anche dal punto di vista tecnico/materiale,
non vi fossero dubbi circa la consapevolezza di una persona da condannare a
morte, chi ci assicura che non esisterebbero dubbi dal punto di vista morale?
Come si può pensare che un individuo sano
di mente possa compiere un delitto nella più assoluta libertà di scelta?
Se una persona fosse assolutamente libera
di scegliere perché dovrebbe scegliere una cosa che le farebbe perdere la
libertà?
Nessuno vive così isolato dagli altri da
poter dire con sicurezza: “Ho scelto liberamente, senza condizionamenti
di sorta”. Chi vivesse isolato dal mondo, probabilmente, non si porrebbe
neanche il problema di compiere un delitto. Non ne avrebbe motivo. A meno che
l’isolamento non fosse una sorta di punizione inflitta in precedenza: il che
potrebbe portare a risentimenti e a esigenze di vendetta personale.
Viviamo in una società in cui i
condizionamenti sono reciproci: dunque, per quale motivo quando si tratta di
giudicare qualcuno, lo consideriamo come un individuo isolato e lo carichiamo
di responsabilità più grandi di quelle che potrebbe avere nella vita reale?
Gli uomini vivono assieme come tanti
individui isolati: costituiscono una comunità per via indotta,
involontariamente, non per libera scelta (questo senza considerare che la
comunità dovrebbe far parte in maniera naturale della vita di una persona, sin
dalla sua nascita). Nella vita reale, non si è capaci di assumere
reciprocamente le responsabilità altrui. Sicché quando qualcuno commette un
reato, viene lasciato solo, con tutte le sue responsabilità.
Eppure, l’isolamento che si vive in
società è anch’esso una forma di condizionamento, un peso da sopportare. Si
possono commettere azioni criminose non perché si è isolati dalla società,
ma proprio perché si è isolati nella società.
Il crimine è sempre frutto di un
condizionamento sociale: ecco perché, indirettamente, si è tutti colpevoli. Il
crimine dovrebbe essere considerato come occasione per ripensare i criteri del
vivere civile.
Insomma, la teoria del ragionevole dubbio
dovrebbe spingersi sino al concorso morale, indiretto, che può avere la società
nei confronti dell’imputato che ha commesso un reato.
Anche la teoria della presunzione
d’innocenza, in tal senso, andrebbe rivista. Non ha senso sostenere che uno è
innocente finché non si è dimostrata la colpevolezza. Bisognerebbe anzi
sostenere il contrario e, cioè, che in un modo o nell’altro siamo tutti colpevoli
e che quando si tratta di giudicare qualcuno, anzitutto, bisognerebbe chiedersi
che cosa si è fatto per impedire che un determinato reato venisse compiuto.
Bisognerebbe partire da premesse di
colpevolezza sociale, in modo da non far sentire l’imputato un individuo
isolato, un estraniato.
Questo, ovviamente, non significa che il
reato non deve essere punito o che bisogna essere pietisti ad oltranza.
Significa, semplicemente, che, nei confronti del reato, bisogna assumere un
atteggiamento pedagogico.
Il reato è un indizio di malessere
sociale. Dall’analisi dei sintomi, bisogna saper trovare una terapia per
vincere un male che ha radici nella società e nella sua cultura.
Dobbiamo abituarci a considerare i
condizionamenti sociali non come un limite alla libertà, ma come il fondamento
su cui la libertà và costruita.
Siamo liberi, appunto, perché
condizionati.
Il nostro compito è quello di rendere
positivi questi condizionamenti, affinché siano utili alla libertà.
Contenuti
tratti da: http://www.homolaicus.com/teorici/wojtyla/pena_morte.htm
L’insegnamento tradizionale della Chiesa
non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della
responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa
fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto
la vita di esseri umani.
Da fonti varie,
a cura di Nino Caliendo
Nella Bibbia
Nella Bibbia sono elencate situazioni in
cui, nelle leggi che Dio dà a Mosé per esporle al popolo ebraico, si stabilisce
la pena capitale come punizione per determinate colpe. Ad esempio, nell’Antico
Testamento è scritto:
“Colui che colpisce un uomo causandone la
morte, sarà messo a morte “ (Esodo 21,12).
Nell’Antico Testamento (Genesi, 2,12-15)
esistono alcuni passi in cui Dio condanna la vendetta umana, minacciando
punizioni peggiori (“sette volte” e
“settanta volte sette”) per chi avesse ucciso Caino e Lamech.
Diversi passi, in prevalenza dell’Antico
Testamento, affermano la legittimità della pena di morte quando è violata la
legge di Mosé. A questi si aggiungono gli episodi di guerra e della storia del
popolo eletto, dove i nemici periscono per volontà divina. Riguardo alla
violazione della legge ebraica, nella Lettera agli Ebrei 10,28: “Quando
qualcuno ha violato la legge di Mosé, viene messo a morte senza pietà sulla
parola di due o tre testimoni”. In Levitico 24,16 viene messo a morte “Chi
bestemmia il nome del Signore”, in Levitico 20,10 chi commette adulterio,
in 27,29 “Nessuna persona votata allo sterminio potrà essere
riscattata; dovrà essere messa a morte” e in Levitico 24,17 “Chi
percuote a morte un uomo”. In Esodo 21,17 viene messo a morte chi maledice
il padre o la madre.
Il passo è ripreso nel Nuovo Testamento,
da Vangelo di Marco 7,10: “…infatti disse: Onora tuo padre e tua madre,
e chi maledice il padre e la madre sia messo a morte”. In Numeri 35,30, si
afferma che non si può accettare un prezzo di riscatto da un omicida: “Se
uno uccide un altro, l’omicida sarà messo a morte in seguito a deposizione di
testimoni, ma un unico testimone non basterà per condannare a morte una
persona. Non accetterete prezzo di riscatto per la vita di un omicida, reo di
morte, perché dovrà essere messo a morte”.
La morte del colpevole avveniva per
lapidazione. Questa forma di esecuzione coinvolge tutta la comunità locale
adulta, che collettivamente è chiamata ad applicare la legge, e risparmia
l’individuazione di un singolo come boia.
Nel Nuovo Testamento, Gesù richiama più
volte al perdono e condanna l’episodio della lapidazione della donna adultera:
“Chi di voi è senza
peccato, scagli per primo la pietra contro di lei” (Giovanni
8,7).
Pensatori cristiani
Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino
sostengono la liceità della pena di morte sulla base del concetto della
conservazione del bene comune. L’argomentazione di Tommaso d’Aquino è la
seguente:
“Come è lecito, anzi
doveroso, estirpare un membro malato per salvare tutto il corpo, così quando
una persona è divenuta un pericolo per la comunità o è causa di corruzione
degli altri, essa viene eliminata per garantire la salvezza della comunità” (Summa
theologiae II-II, q. 29, artt. 37-42).
Il teologo sosteneva, tuttavia, che la
pena andasse inflitta solo al colpevole di gravissimi delitti, mentre,
all’epoca, veniva utilizzata con facilità e grande discrezionalità.
Lo Stato pontificio ha mantenuto nel suo
ordinamento la pena di morte fino al XX secolo.
Dottrina cattolica odierna
Il Catechismo della Chiesa
Cattolica (1997) parla della pena di morte all’interno della
trattazione sul quinto comandamento, “Non uccidere” e, più
specificamente, nel sottotitolo che tratta della legittima difesa.
In questo contesto dice (n. 2266-2267):
“2266: Corrisponde ad un’esigenza
di tutela del bene comune lo sforzo dello Stato inteso a contenere il
diffondersi di comportamenti lesivi dei diritti dell’uomo e delle regole
fondamentali della convivenza civile. La legittima autorità pubblica ha il
diritto ed il dovere di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto.
La pena ha innanzi tutto lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla
colpa. Quando è volontariamente accettata dal colpevole, essa assume valore di
espiazione. La pena poi, oltre che a difendere l’ordine pubblico e a tutelare
la sicurezza delle persone, mira ad uno scopo medicinale: nella misura del
possibile, essa deve contribuire alla correzione del colpevole”.
“2267: L’insegnamento tradizionale
della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della
responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa
fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto
la vita di esseri umani.
Se invece i mezzi incruenti sono
sufficienti per difendere dall’aggressore e per proteggere la sicurezza delle
persone, l’autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio
rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla
dignità della persona umana…”
La pena di morte in Città del Vaticano
venne rimossa dalla Legge Fondamentale solo il 12 febbraio
2001, forse per convenienza UE, visto che l’Unione Europea non ammette la pena
capitale e, di conseguenza, gli Stati che la prevedono.
Nel giugno 2004, l’allora cardinale Joseph
Ratzinger, attuale papa Benedetto XVI, inviò, in qualità di prefetto
della Congregazione per la Dottrina della Fede, una lettera al
cardinale Theodore Edgar McCarrick, – arcivescovo di Washington, – e
all’arcivescovo Wilton Daniel Gregory, – presidente della Conferenza Episcopale
degli Stati Uniti, – nella quale affermava che può tuttavia essere
consentito [...] fare ricorso alla pena di morte
Contenuti
tratti da: http://it.wikipedia.org/wiki/Pena_di_morte
Se l’art. 2261 del Nuovo Catechismo
afferma che: “La Scrittura precisa la proibizione del quinto comandamento:
non far morire l’innocente e il giusto” (Es 23,7), è consequenziale
che: “Il comandamento ‘Non uccidere’ ha valore assoluto quando si
riferisce alla persona innocente” (Evangelium vitae, n° 57) e
valore relativo quando si riferisce alla persona colpevole.
Infatti, l’art. 2267 del Nuovo Catechismo
conferma che: “L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude,
supposto il pieno accertamento dell’ identità e della responsabilità del
colpevole, il ricorso alla pena di morte”.
La Chiesa, dunque, riconosce all’autorità
pubblica il potere di applicare la pena di morte, nei confronti delle persone
colpevoli, perché la “Scrittura” e, più precisamente, il versetto 7 del
capitolo 23 dell’Esodo “non far morire l’innocente e il giusto“,
preciserebbe che il comandamento “Non uccidere” è stato
formulato da Dio per proteggere la vita delle persone innocenti, ma non le
colpevoli.
Ma la Chiesa è proprio certa che questa
dottrina così inumana sia conforme alla legge divina e non sia, piuttosto,
frutto di conformazione umana?
Se di fronte alla legge umana, tutte le persone
sono considerate uguali: “La legge è uguale per tutti”, quanto più,
tutte le persone, dovrebbero essere considerate uguali di fronte alla legge di
Dio, che possiede carattere universale?
Mentre, per il Catechismo, di fronte alla
legge divina: “Non uccidere”, le persone non sono considerata tutte
uguali, ma, a priori, separate le buone dalle cattive e proprio le cattive, per
le quali Dio ha istituita la legge, defraudate dai benefici.
In realtà, la “Scrittura” di cui parla il
Catechismo, che “precisa la proibizione del quinto comandamento”, si riduce ad
un versetto dell’Antico Testamento: “Non far morire l’innocente e il
giusto“, formulato, peraltro, in modo incompleto, infatti, citato per
intero: “Starai lontano dalla parola falsa e non ucciderai l’innocente
e il giusto perché io non dichiaro giusto il colpevole“ (Es 23,7),
rivela la vera intenzione dell’autore sacro, che non è certo quella di voler
precisare la proibizione del quinto comandamento, come dichiara il Catechismo,
ma formare le coscienze umane al giusto comportamento morale che devono
assumere i soggetti giuridici nell’ambito di un processo penale: Dio vieta,
categoricamente, ai giudici e ai testimoni, di ricorrere a parole false per
deviare il corso della giustizia, provocando la condanna dell’innocente e
l’assoluzione del colpevole. Intenzione che, l’autore sacro sottolinea anche
con il versetto precedente: “Non farai deviare il giudizio del povero,
che si rivolge a te nel suo processo“ (Es 23,6).
Tra l’altro, non spetta all’Antico Testamento
stabilire le verità divine in materia di fede e di morale, ma al Nuovo
Testamento e in esso non vi è un solo versetto che autorizzi la Chiesa a
legittimare la pena di morte, una pena di natura vendicativa, assolutamente
contraria al perdono, il quale costituisce il DNA dello spirito cristiano.
Unitamente alla pena di morte, anche la
“tortura” è stata sempre considerata dalla Chiesa moralmente lecita: solo con
il Concilio Vaticano II è stata, finalmente, esclusa e
condannata.
Intanto, prima che fosse rigettata, un
numero infinito di persone, che solo Dio conosce, ha dovuto soffrire atrocità
incredibili e tante di esse sono morte a causa di questa dottrina legittimata
dalla Chiesa.
Ora, però, che il Concilio si
è espresso in modo autentico e ufficiale contro tutte: “…le torture
inflitte al corpo alla mente…ledono grandemente l’onore del creatore” (Gaudim
et spes n° 27) può la Chiesa continuare a considerare lecita la pena di morte?
Non è forse la pena di morte una pratica di tortura inflitta al corpo e alla
mente?
Da: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3721
Il Catechismo e la pena di morte
Cesare Beccaria, a proposito della pena di
morte, nel pamphlet “Dei delitti e delle pene”, nel 1764,
scriveva: “Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della
pubblica volontà, che detestano e puniscano l’omicidio, ne commettano uno esse
medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordini un pubblico
assassinio”.
Il Granducato di Toscana, nel 1786, fu il
primo Stato al mondo ad abolire la pena di morte.
Su iniziativa dell’Italia, l’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite, il 18 Dicembre 2007, ha approvato la risoluzione per
la moratoria universale contro la pena di morte nel mondo.
Ma, il punto 2267 de “Il nuovo
catechismo della Chiesa cattolica” (1992, rivisto nel 1999) così
recita:
“L’insegnamento tradizionale della Chiesa
non esclude (…) il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via
praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di
esseri umani (…). Oggi (…) i casi di assoluta necessità di soppressione del reo
sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti” (quest’ultimo
paragrafo, aggiunto successivamente, proviene dall’enciclica di Giovanni Paolo
II “Evangelium vitae” del 1995).
Ecco l’assurdo! La Chiesa, nella sua dottrina
fondamentale, il Catechismo, mantiene ancora la pena di morte,
anche se edulcorata dall’aggiunta di un paragrafetto dell’enciclica sopradetta.
Le lancette del tempo sembrano essersi
fermate, meno male che la… Santa Inquisizione è lontana!
Eppure, nel Nuovo testamento, Gesù invoca il perdono nell’episodio
della lapidazione della donna adultera: “Chi di voi è senza peccato,
scagli per primo la pietra contro di lei” (Giovanni 1 cap 8,
7).
E Giovanni Paolo II dichiara, durante la
visita negli USA, che la Chiesa è “incondizionatamente a favore della
vita” e che, essendo la nostra società “in possesso dei mezzi
per proteggersi (…), la pena si morte è crudele e non necessaria”.
Insomma, sembra l’applicazione completa
del V comandamento: non uccidere. Ma non è così. Infatti, quando si
afferma che sono rari i casi “di assoluta necessità di soppressione del
reo”, si ammette che in qualche caso la pena di morte è riconosciuta.
Qualcuno scrive che questo vale per
la legittima difesa (punto 2266). Ma quanti innocenti,
nel Far West del mondo civilizzato, vengono uccisi in nome
della legittima difesa? Quando, allora, si può parlare di legittima
difesa, ovvero quale tipo di reato autorizza alla pena capitale?
E, se “la pena di morte è crudele
e non necessaria”, perché viene ancora mantenuto nel Catechismo il punto
2267, che rappresenta un affronto all’etica del perdono e della misericordia e
lascia l’impressione che si possa, in qualche caso, utilizzarlo?
di Governanti
- www.governanti.blogspot.com
Il Catechismo Universale e la pena di
morte
Si è fatto un gran discutere, in ambienti
pacifisti e non-violenti, come, ad esempio Amnesty International,
circa le motivazioni che possono aver indotto la chiesa cattolica ad accettare
– come risulta dal paragrafo 2266 del recente Catechismo Universale (CCC)
– la pena di morte, seppure “in casi di estrema gravità”.
Vediamo le prime.
Al paragrafo 2259, dicono gli autori del
CCC: “La Scrittura, nel racconto dell’uccisione di Abele da parte del
fratello Caino, rivela, fin dagli inizi della storia umana, la presenza
nell’uomo della collera e della cupidigia, conseguenze del peccato originale”.
Il riferimento al cosiddetto “peccato
originale”, ogni qualvolta si deve cercare di spiegare la causa di taluni
malesseri sociali, è praticamente una costante nella teologia cattolica.
Al paragrafo successivo gli autori
ricordano che “l’alleanza [vetero testamentaria] di
Dio e dell’umanità è intessuta di richiami al dono divino della vita umana e
alla violenza omicida dell’uomo”(2260).
Dei due “richiami”, quello che più preme
sottolineare agli autori non è il primo, – come sarebbe naturale per una
istituzione (la Chiesa) che predica la legge dell’amore -, bensì il secondo. E
di questo l’aspetto da essi considerato più significativo non è tanto il puro e
semplice “divieto di non uccidere”, quanto piuttosto il divieto di
uccidere “l’innocente e il giusto” (2261): peccato, questo, “gravemente
contrario alla dignità dell’essere umano”.
Ora, proviamo a chiederci: per quale
ragione la chiesa cattolica ritiene che “l’uccisione volontaria di un
innocente è gravemente contraria alla dignità dell’essere umano” (2261)?
Cioè, per quale ragione essa non si limita ad affermare che l’essere umano in
quanto tale, santo o peccatore che sia, non meriterebbe mai di morire in modo
violento?
La Chiesa Romana, – qui autorevolmente
rappresentata da un Catechismo Universale, -non è in grado di trarre le logiche
conseguenze dalla sua teoria del peccato originale, perché finirebbe in un
groviglio inestricabile di contraddizioni. A noi, invece, interessa mettere in
luce il seguente, inevitabile, sillogismo: se la natura umana è intrinsecamente
malvagia, allora anche Abele era “colpevole”, ma se egli era “colpevole”,
il delitto di Caino, in sé pur grave, va ricompreso sulla base di ogni
possibile attenuante, onde ostacolarne la reiterazione. Qui, naturalmente, non
è il caso di verificare ciò che Caino e Abele simbolicamente rappresentavano
nel racconto del Genesi. Dobbiamo limitarci a considerazioni astratte.
Quel che è certo è che nel racconto
biblico la “dignità dell’essere umano” dipendeva da altro
rispetto alla legge, poiché Caino fu punito prima che venisse formulato il
divieto del quinto comandamento.
Non solo, ma egli venne “marchiato” proprio
per impedire che qualcuno commettesse un secondo delitto, cioè che usasse
vendetta contro di lui. Se a quel tempo avessero dato per scontata l’intrinseca
malvagità umana, alla prima manifestazione di questa non ci sarebbe stata altra
soluzione che l’esecuzione capitale.
Sicché si può tranquillamente affermare
con A. Schenker che ai tempi di Caino era la dignità dell’uomo ad essere
considerata intrinseca all’uomo stesso. Il peccato originale, cioè la
violazione delle modalità del comunismo primitivo, se comportò la nascita
dell’individualismo, non determinò affatto l’impossibilità di opporvisi. Ancora
non esistevano né l’idea dell’espiazione né il principio della retribuzione
come base del sistema della pena. Il divieto di uccidere Caino sta appunto a
testimoniare che, nonostante l’emergere dell’individualismo, i princìpi
democratici del collettivismo non erano stati dimenticati.
Viceversa, il divieto mosaico fa la sua
comparsa in un contesto dove, evidentemente, per rispettare la persona non era
più sufficiente rifarsi alle tradizioni orali, ma occorreva una legge scritta:
segno, questo, che il distacco dai princìpi del comunismo primitivo era
diventato progressivo, forse irreversibile. Di qui, l’esigenza d’imporre al
colpevole una pena proporzionata e di risarcire la vittima del danno subìto. La
giustizia, sempre meno possibile sul piano sociale, doveva almeno apparire su
quello giuridico, cioè su quello formale della legge.
Ora, prima di rispondere adeguatamente
alla domanda che sopra ci siamo posti, dobbiamo continuare a ripercorrere
l’analisi del CCC, che si sposta dall’Antico Testamento (A.T.) al Nuovo,
esaminando la figura chiave di Gesù Cristo.
Per gli autori del CCC, Cristo non sarebbe
che un “nuovo Abele” che porge l’altra guancia, ama i propri nemici, non si
difende da chi lo accusa ingiustamente. etc (2262).
Dopo aver dedicato tre paragrafi (2259-61)
al V.T., il CCC ne dedica uno solo al Nuovo. Perché? Semplicemente perché si
vuole far apparire il Cristo come un “perfezionatore” del divieto mosaico.
Pur di dimostrare che l’uomo è
intrinsecamente malvagio, Cristo, – secondo il CCC, – avrebbe non solo vietato
l’ira, l’odio e la vendetta, oltre che naturalmente l’omicidio, ma si sarebbe
anche offerto volontariamente come “agnello sacrificale” per i
peccati degli uomini. Egli dunque, in un certo senso, sarebbe stato vittima
della sua stessa “legge dell’amore assoluto”, che gli impediva di
trasformarsi in “giustiziere dei malvagi”.
Come si può notare, questa interpretazione
della vita di Cristo è assolutamente fantastica. La chiesa romana non ha qui
saputo cogliere la fondamentale differenza dalla legge mosaica che i vangeli
rappresentano, per i quali il “divieto di uccidere” è una
contraddizione in termini, finché non si pongono le basi sociali che tolgano al
delitto le sue motivazioni di fondo.
In effetti, se nel mentre si pone il
divieto non ci si preoccupa di creare una società veramente democratica, quel
divieto, alla lunga, non sortirà alcun effetto. E, viceversa, se si ha quella
preoccupazione, il divieto è altrettanto inutile, poiché non sarà in virtù di
esso che i cittadini si comporteranno in maniera non-violenta.
A parte questo, la Chiesa Romana non ha
mai neppure capito (o non lo ha mai voluto capire) il motivo per cui il Cristo
si lasciò giustiziare senza reagire. Lungi dal pensare che il potere dominante
avrebbe più facilmente rinunciato al proprio arbitrio, vedendo un innocente
salire tranquillamente sul patibolo, il Cristo deve, invece, aver atteso
(invano, purtroppo) che la propria liberazione fosse il frutto di una
convinzione largamente popolare, solo in virtù della quale si sarebbe sia
potuto vincere il dominio romano che costruire una nuova società civile.
Imporre il proprio progetto democratico
con colpi di stato, atti terroristici e cose simili non avrebbe certo
significato realizzare un’alternativa alla logica del potere dominante (romano
o ebraico che fosse).
Ora, finalmente, possiamo rispondere alla
suddetta domanda, se il lettore non l’ha già fatto per contro proprio. La
Chiesa è favorevole alla pena di morte sostanzialmente per questa ragione di
tipo “etico-religioso”: essendo la natura dell’uomo intrinsecamente malvagia,
la società ha il diritto, nei confronti di chi cerca di contenere tale
malvagità in una condotta il più possibile irreprensibile e, nonostante questo,
viene ucciso, di considerare la sua morte un delitto assolutamente
imperdonabile.
In altre parole, è intollerabile per la
chiesa veder uccidere un “innocente”, colui cioè che, meglio di altri, combatte
contro gli effetti deleteri del peccato originale (ma anche colui che, essendo
ancora troppo giovane d’età, non ha potuto sperimentare su di sé gli effetti o
le tentazioni di quella colpa). “L’omicida e coloro che volontariamente
cooperano all’uccisione commettono un peccato che grida vendetta al cielo”,
specie nei casi di “infanticidio, fratricidio, parricidio e uccisione
del coniuge” (2268).
Si deve, però, andare al paragrafo 1867
per accorgersi che fra i “peccati che gridano al cielo” non vi è solo
l’omicidio di Abele o la licenziosità dei Sodomiti, ma anche “il
lamento del popolo oppresso in Egitto; il lamento del forestiero, della vedova
e dell’orfano”. Infine, “l’ingiustizia verso il salariato”.
Ma, la cosa più singolare di tutta questa
esegesi del CCC, circa il divieto mosaico e la morte di Gesù, è che nella
seconda parte del capitolo (quella dedicata alla “legittima difesa”)
– e qui veniamo alla motivazione più propriamente politica, – la Chiesa romana,
servendosi delle sentenze dell’Aquinate, arriva a formulare cose del
tutto antievangeliche, che peggiorano persino la durezza della legge mosaica,
la quale prevedeva la pena di morte per i trasgressori di alcuni comandamenti.
Sulla base della motivazione vista sopra,
la Chiesa non ha espresso un parere chiaramente favorevole alla pena di morte.
Essa, infatti, si rende conto che, in quanto istituzione “religiosa”,
dev’essere sempre pronta al perdono.
Tuttavia, la trattazione religiosa
dell’argomento è stata condotta con abile maestria, evitando di esprimere
“giudizi di valore” categorici, sia per mostrare che il divieto mosaico “ha
una validità universale: obbliga tutti e ciascuno, sempre e dappertutto” (2261),
per cui la sua trasgressione non può che comportare gravissime conseguenze, sia
per suscitare nel lettore un senso di forte riprovazione nei confronti del
fatto che, nonostante la palese innocenza di Gesù, vi furono ugualmente delle
persone disposte a crocifiggerlo.
Come restare indifferenti al cospetto di
un’ingiustizia così grande? Il fatto che Cristo non abbia voluto difendersi,
non implica che nessuno debba farlo. Ciò che sul piano etico-religioso può
apparire inaccettabile, può non esserlo sul piano gius-politico.
Infatti, “l’amore verso se stessi
resta un principio fondamentale della moralità. E’, quindi, legittimo far
rispettare il proprio diritto alla vita”, “poiché, – come dice
Tommaso d’Aquino, – un uomo è tenuto di più a provvedere alla propria
vita che alla vita altrui” (2264).
Curiosa questa citazione
dell’illustre Dottore della Chiesa. Egli ha, senza dubbio, ragione
quando afferma che “se nel difendere la propria vita uno usa maggiore
violenza del necessario, il suo atto è illecito”. Ma che dire del fatto che
la legittima difesa venga invocata per tutelare un diritto esclusivamente
soggettivo? Da una Chiesa che pretende di fare dell’ideale “divino” la
sua raison d’être, sinceramente, ci si aspettava qualcosa di più
sublime.
In effetti, se la legittima difesa è il
modo migliore per garantire un proprio diritto, cosa dover pensare di quanti,
nella storia, vi hanno rinunciato per poter meglio affermare un “bene
comune”, cioè un valore, un ideale, un “diritto”, se si vuole,
o, comunque, una causa non puramente soggettiva? Cosa pensare di coloro che,
liberamente e consapevolmente, non perché desiderosi di morire martiri à
tout prix, hanno preferito l’idea del sacrificio personale a quella della
legittima difesa? Erano pazzi, ingenui, illusi o che altro? Il valore etico
(umano, ontologico) di una scelta esistenziale, può essere misurato in termini
meramente giuridici?
Quando poi ci si addentra sul piano più
propriamente politico-istituzionale, i limiti della chiesa cattolica si
evidenziano in tutta la loro crudezza. Se già avevamo messo in dubbio il valore
assoluto della legittima difesa (che va comunque salvaguardata) in nome
dell’interesse soggettivo, ora ci pare ancor più fuorviante l’affermazione
secondo cui la legittima difesa va considerata anche come un dovere da parte di
chi “è responsabile della vita altrui” (2265).
Come spesso succede le parole che si usano
non hanno mai un senso univoco, inequivocabile, ma sono sempre soggette a
fraintendimenti, anche quando si cerca di essere il più possibile aderenti alla
realtà, il più possibile “scientifici”: cioè, esiste sempre la
possibilità di dare alle parole un senso opposto a quello voluto, anche contro
la propria volontà, o, comunque, esiste sempre la possibilità che qualcuno non
ci capisca o non ci voglia capire. E così qui: chi metterebbe in dubbio che le
autorità costituite hanno il dovere di usare lo strumento della legittima
difesa per tutelare l’incolumità (non solo fisica) dei propri cittadini? Ma se
noi dicessimo: le autorità costituite, nell’adempiere al dovere di difendere i
cittadini, hanno il diritto di sostituirsi alla loro volontà, non susciteremmo
forse delle perplessità?
La frase incriminata dalle associazioni
pacifiste è stata la seguente: “la chiesa ha riconosciuto fondato [sottinteso:
"da sempre"] il diritto e il dovere della legittima [o
semplicemente "costituita"?] autorità pubblica di infliggere
pene proporzionate alla gravità del delitto, senza escludere, in casi di
estrema gravità, la pena di morte” (2266).
Si noti il sofisma dell’espressione “pene
proporzionate”: forse il popolo può impedire, nella concezione politica
della Chiesa, che lo Stato usi pene sproporzionate? E come lo potrebbe, visto e
considerato che, per la Chiesa, lo Stato è soggetto non alla “volontà
popolare”, ma solo alle “leggi” (1903), che devono essere
conformi a “un ordine prestabilito da Dio” (1901)?
Se la “volontà popolare” fosse
il principio fondamentale dello “Stato di diritto”, la pena di
morte potrebbe forse essere considerata una “pena proporzionata” a
un qualche particolare delitto? Sarebbe forse giusto dare per scontato che, ad
un certo punto, bisogna assolutamente negare al colpevole qualunque possibilità
di pentimento, ritenendolo unico vero responsabile del suo crimine? E’ forse
questo l’insegnamento del Cristo nell’episodio della “donna adultera” (Gv.
8,1ss.)?
Il fatto è che, – secondo gli autori
del CCC, – la società (e, quindi, la Chiesa) deve, comunque, difendersi da chi
la minaccia con l’uso della forza. Su questo, il CCC è molto esplicito: “i
detentori dell’autorità [qui considerati "sacri e inviolabili"] hanno
il diritto di usare le armi per respingere gli aggressori della comunità
civile…” (2266).
La chiesa non vuole prospettare, neanche
sul piano ipotetico, l’idea che gli aggressori si comportino così proprio
perché si appellano al principio della “legittima difesa” e
che i veri aggressori possano in realtà essere le stesse autorità
costituite. “La pena ha lo scopo di difendere l’ordine pubblico e la
sicurezza delle persone” (2266), sentenzia il CCC. Non ha, quindi,
senso chiedersi se tale difesa sia “sempre” lecita o se non sia meglio mettere
in discussione il valore del cosiddetto “ordine pubblico”.
Thomas More, martire della libertà di
coscienza, santificato dalla Chiesa romana nel 1935, disse nella sua Utopia:
gli Stati fondati sulla proprietà privata e il denaro “allevano dei
ladri per poi punirli con la morte”.
F. Engels, tre secoli dopo, dirà la stessa
cosa in La situazione della classe operaia in Inghilterra: “Se
la società toglie a migliaia di individui il necessario per l’esistenza…; se
mediante la forza della legge li costringe a rimanere in tali condizioni,
finché non sopraggiunga la morte… questo è assassinio… contro il quale nessuno
può difendersi… perché non si vede l’assassino, perché questo assassino sono
tutti e nessuno, perché la morte della vittima appare come una morte naturale e
perché esso non è tanto un peccato di opera, quanto un peccato di omissione”.
Naturalmente, gli esegeti più ipocriti
sostengono che la Chiesa si limita a “riconoscere” agli Stati l’uso estremo
della pena di morte, senza farsi sua diretta sostenitrice. Ciò in realtà è
falso, sia perché la Chiesa ha abolito, de jure, in Vaticano tale
forma di condanna solo nel 1969 (per comodità affaristica di riconoscimenti
nell’Unione Europea), sia perché la necessità di tale pena si evince, – come si
è visto, – dai suoi stessi argomenti di tipo religioso, sia perché, infine, il
Vaticano assai raramente (o mai?) si è pronunciato contro gli Stati che
comminano sentenze capitali (opposizioni alla pena di morte è possibile
riscontrarle solo in chiese locali o nazionali, come, ad esempio, nella Commissione
per la Vita della Conferenza Episcopale Cattolica degli USA).
In realtà, a queste conclusioni assai poco
democratiche, si perviene quando il problema della responsabilità penale viene
affrontato in termini puramente idealistici o giuridici, senza tener conto di
alcun riferimento storico o sociale concreto.
“La pena, –
dice il CCC, – ha valore di espiazione” (2266), in quanto
il colpevole è solo colpevole. Il riferimento qui
và soprattutto al caso dell’omicidio volontario, per il quale non esistono
attenuanti. Solo quando si parla di quello involontario (come se, sul piano
etico, si potesse fare una distinzione così precisa), gli autori del CCC fanno
un’annotazione complementare usando i caratteri piccoli: “Tollerare, –
viene detto, – da parte della società umana, condizioni di miseria che
portano alla morte senza che ci si sforzi di porvi rimedio, è una scandalosa
ingiustizia e una colpa grave”(2269). La Chiesa qui intende riferirsi a
coloro che usano “pratiche usuraie e mercantili”. Costoro,
indirettamente (solo indirettamente in una società capitalistica?) “commettono
un omicidio”.
Il CCC, insomma, non si preoccupa di
“capire” il crimine di chi, sottoposto a condizioni di vita disumane, reagisce
istintivamente facendosi giustizia da sé. Non si preoccupa minimamente di
giustificare coloro che, sottoposti alle medesime condizioni, ad un certo punto
decidono di organizzarsi politicamente per rovesciare i poteri costituiti. Si
preoccupa soltanto di trovare dei “colpevoli”, siano essi volontari o
involontari, diretti o indiretti, lasciando da parte tutte le responsabilità
che possono avere gli Stati e le istituzioni di potere, nonché i gruppi sociali
dominanti di una determinata società.
Ormai, come ognuno si sarà certamente
accorto, le parole non hanno più alcun significato. La Chiesa è disposta ad
affermare tutto ed il contrario di tutto, cioè tutto quanto fa parte del suo
impianto strettamente conservatore e, per essere più credibile, alcune cose che
fanno parte dell’ideologia laica e democratica.
Il problema non sta più nella scelta delle
parole, ma solo nell’atteggiamento che il credente deve tenere nei confronti
della Chiesa. E l’atteggiamento giusto, a quanto pare, visto che nessun alto
esponente della Curia vaticana l’ha contestato, può essere considerato quello
delle cattolicissime Filippine, il cui Parlamento, il 23 febbraio 1993, ha
reintrodotto, nonostante l’opposizione della Conferenza Episcopale
Filippina, la pena di morte, dopo averla abolita nel 1987, proprio facendo
leva sulle affermazioni del Catechismo Universale.
Contenuti
tratti da: http://www.homolaicus.com/teorici/wojtyla/pena_morte.htm
Pigrizia intellettuale e teoria della
responsabilità sociale
In un paese dove vige la pena di morte che
senso può avere la teoria del ragionevole dubbio? Non è forse una
contraddizione in termini?
Se anche dal punto di vista tecnico/materiale,
non vi fossero dubbi circa la consapevolezza di una persona da condannare a
morte, chi ci assicura che non esisterebbero dubbi dal punto di vista morale?
Come si può pensare che un individuo sano
di mente possa compiere un delitto nella più assoluta libertà di scelta?
Se una persona fosse assolutamente libera
di scegliere perché dovrebbe scegliere una cosa che le farebbe perdere la
libertà?
Nessuno vive così isolato dagli altri da
poter dire con sicurezza: “Ho scelto liberamente, senza condizionamenti
di sorta”. Chi vivesse isolato dal mondo, probabilmente, non si porrebbe
neanche il problema di compiere un delitto. Non ne avrebbe motivo. A meno che
l’isolamento non fosse una sorta di punizione inflitta in precedenza: il che
potrebbe portare a risentimenti e a esigenze di vendetta personale.
Viviamo in una società in cui i
condizionamenti sono reciproci: dunque, per quale motivo quando si tratta di
giudicare qualcuno, lo consideriamo come un individuo isolato e lo carichiamo
di responsabilità più grandi di quelle che potrebbe avere nella vita reale?
Gli uomini vivono assieme come tanti
individui isolati: costituiscono una comunità per via indotta,
involontariamente, non per libera scelta (questo senza considerare che la
comunità dovrebbe far parte in maniera naturale della vita di una persona, sin
dalla sua nascita). Nella vita reale, non si è capaci di assumere
reciprocamente le responsabilità altrui. Sicché quando qualcuno commette un
reato, viene lasciato solo, con tutte le sue responsabilità.
Eppure, l’isolamento che si vive in
società è anch’esso una forma di condizionamento, un peso da sopportare. Si
possono commettere azioni criminose non perché si è isolati dalla società,
ma proprio perché si è isolati nella società.
Il crimine è sempre frutto di un
condizionamento sociale: ecco perché, indirettamente, si è tutti colpevoli. Il
crimine dovrebbe essere considerato come occasione per ripensare i criteri del
vivere civile.
Insomma, la teoria del ragionevole dubbio
dovrebbe spingersi sino al concorso morale, indiretto, che può avere la società
nei confronti dell’imputato che ha commesso un reato.
Anche la teoria della presunzione
d’innocenza, in tal senso, andrebbe rivista. Non ha senso sostenere che uno è
innocente finché non si è dimostrata la colpevolezza. Bisognerebbe anzi
sostenere il contrario e, cioè, che in un modo o nell’altro siamo tutti colpevoli
e che quando si tratta di giudicare qualcuno, anzitutto, bisognerebbe chiedersi
che cosa si è fatto per impedire che un determinato reato venisse compiuto.
Bisognerebbe partire da premesse di
colpevolezza sociale, in modo da non far sentire l’imputato un individuo
isolato, un estraniato.
Questo, ovviamente, non significa che il
reato non deve essere punito o che bisogna essere pietisti ad oltranza.
Significa, semplicemente, che, nei confronti del reato, bisogna assumere un
atteggiamento pedagogico.
Il reato è un indizio di malessere
sociale. Dall’analisi dei sintomi, bisogna saper trovare una terapia per
vincere un male che ha radici nella società e nella sua cultura.
Dobbiamo abituarci a considerare i
condizionamenti sociali non come un limite alla libertà, ma come il fondamento
su cui la libertà và costruita.
Siamo liberi, appunto, perché
condizionati.
Il nostro compito è quello di rendere
positivi questi condizionamenti, affinché siano utili alla libertà.
Contenuti
tratti da: http://www.homolaicus.com/teorici/wojtyla/pena_morte.htm