domenica 29 novembre 2020

Il mistero di Franco Battiato: un genio sparito nel nulla

Ma in quale altro mondo è andato ad abitare Franco Battiato? Di lui non si sa più nulla da anni, ha intrapreso un viaggio in quel paese che gli somiglia tanto, per citare una sua canzone con le parole di Manlio Sgalambro che fanno il verso a Baudelaire. Dopo un paio d’incidenti è entrato in un misterioso nascondiglio, una specie di penombra sacra, forse di oscuramento della mente, che la pietà dei suoi cari proteggono da ogni sguardo curioso. Anche Aldo Nove, che gli ha dedicato ora una bella biografia che è poi un atto d’amore (Franco Battiato, Sperling & Kupfer), pare reticente sul passaggio all’ombra di Battiato, per rispettare il suo silenzio, per non oltraggiare la sua solitudine. O forse neanche lui sa davvero cosa sia successo.

Non è la morbosità di sapere che ci spinge a scrivere di Battiato, ora 75enne: ma è per rendere onore a un cantautore d’eccezione, “un essere speciale”; una voce davvero unica, diversa, nel panorama della canzone. E non sto parlando solo di gusti musicali ma di una rarità assoluta: quello di Battiato è un canto spirituale. So quante ironie ha destato il suo linguaggio e la sua buffa stravaganza, a cominciare dai suoi conterranei, da Fiorello che ne fece gustose parodie all’antico re della tv, Pippo Baudo. Tre cannoni siciliani, anzi catanesi, di provincia.

Ma l’aura delle sue canzoni, il tono della sua voce, l’atmosfera della sua musica, hanno un fascino evocativo, luminoso e arcano, che ti portano in un altrove. Sono esperienze spirituali, alcune si cimentano col mondo reale, con gli amori, la vita, il proprio tempo, i sentimenti e perfino la rabbia e lo sdegno; ma si avverte anche in quelle canzoni una presa di distanza, un passo diverso, come un respiro di altri mondi. A dividere e congiungere il sacro e il profano c’è in Battiato la sottile linea dell’ironia, che si fa talvolta auto-ironia, e stempera il tono ieratico nel tono ludico, si fa beffe dell’avida frenesia e ignoranza dei contemporanei. Sappiamo il retroterra di Battiato: René Guénon e Gurdjieff, i sufi, i dervisci. C’è un suo libretto, Il silenzio e l’ascolto (Castelvecchi), in cui conversa con Raimon PanikkarAlejandro JodorowskyGabriele Mandel e Claudio Rocchi. Ma altre pubblicazioni recano la sua impronta e accompagnano insieme alla sua pittura, come ali leggere, il suo cammino musicale.

Tra i mondi che abita Battiato c’è pure quello magico della sua Sicilia. Fu proprio il filo della nostalgia per l’infanzia che mi fece conoscere Battiato. Lo seguivo da anni, avevo pubblicato come editoriale su l’Italia settimanale il testo di Povera Patria. Ma fu la sua lettura di un mio libro dedicato alla nostalgia dell’infanzia che mi avvicinò a lui. Venne a presentarlo a Roma insieme a Giorgio Albertazzi e Pupi Avati. Arrivò per ultimo, in volo da Catania, e appena finì il suo intervento riprese il volo. Come se avesse parcheggiato l’aereo ancora rombante fuori dalla sala… Ritrovai poi consonanze d’infanzia e ricordi di controre d’estate al sud nel suo film autobiografico Perdutoamor.

Difficile dire a quale canzone di Battiato si è più legati… Il centro di gravità permanenteIl vuotoL’ombra della lucel’Oceano di silenzioLode all’Inviolato, Pasqua etiope, E ti vengo a cercare, Le nostre anime, l’incanto multiplo dei Fleurs… E la più bella canzone d’amore che io conosca, La Cura, che commuove alle lacrime Aldo Nove, e non solo lui. Poi le voci straordinarie che a lui si accompagnano, di Giuni Russo, di Alice, di Antonella Ruggero. Se Lucio Battisti esprime l’incanto perenne dell’adolescenza e Mina evoca la potenza struggente degli amori sfioriti, Franco Battiato canta la grazia dell’altrove, in una visione oltre la vita. “Via via via da queste sponde/ portami lontano sulle onde”.

Mi pento di aver ironizzato anni fa su un suo intervento sconcertante in tv dalla Gruber nella sua breve parabola di assessore alla cultura della regione siciliana; un dialogo dada, per non dire demenziale, con pause e malintesi imbarazzanti che forse era la spia di uno stato mentale che stava alterandosi. Il suo impegno in politica fu un errore e non perché abbia scelto quel versante. La via dei canti di Battiato è al di là della destra o della sinistra, e succedanei.

A spiegare la sparizione di Battiato ci soccorre Sgalambro che scriveva in Teoria della Sicilia, premessa al libretto dell’opera di Battiato Il cavaliere dell’intelletto: “La volontà di sparire è l’essenza esoterica della Sicilia. Poiché ogni isolano non avrebbe voluto nascere, egli vive come chi non vorrebbe vivere; la storia gli passa accanto con i suoi odiosi rumori”. La notazione di Sgalambro forse non vale per tutti i siciliani, in cui la tendenza a sparire gareggia con la tendenza teatrale a ostentare, anche il dolore e la magnificenza. Ma certo vale per lui e per Battiato. Forse fu quella la molla del loro incontro tra siciliani “a latere”. Un cantautore che frequentava altri orienti, in sintonia col mistico coautore Giusto Pio, s’incontra col filosofo più nichilista ed empio dei nostri tempi. “Mi capitò tra i piedi Battiato – raccontava Sgalambro da Lentini – ed è stato uno di quegli incontri che ti portano fuori strada”. Me li ricordo insieme a cena dopo un suo strepitoso concerto a Segesta. Erano le tre di notte, eravamo sul mare a San Vito Lo Capo, ero a tavola di fronte a lui e Sgalambro che fingevano di mangiare, entrambi con lenti nere e silenzi tombali. Alle tre di notte.

Di recente è arrivato dal suo iperuranio un corpo celeste in forma di canzone, dal titolo evocativo e l’atmosfera struggente, Torneremo ancora, che allude all’Eterno ritorno, alla reincarnazione, al tempo circolare e alla potenza evocativa del tornare. Ritorni presto l’era del Cinghiale Bianco.

Marcello Veneziani

 “Il mistero di Franco Battiato”, da “La Verità” del 18 novembre 2020

 

lunedì 7 settembre 2020

Le 12 regole del bon ton linguistico

Ogni forma di comunicazione ha la sua grammatica. Imparare quella della lingua scritta, nella nostra civiltà, è come imparare l’alfabeto. Non a caso gli storici fanno coincidere la storia delle civiltà con la nascita della scrittura, penalizzando enormemente tutta la preistoria, le società clanico-tribali, il comunismo primitivo.

Oggi sappiamo che queste civiltà pre-antagonistiche erano migliori delle nostre basate sui conflitti di classe, ma sappiamo anche quanto sia impossibile lottare contro il nostro tempo senza scrivere neanche una riga. E per poterlo fare in maniera convincente, bisogna conoscere bene ciò che forse un giorno non esisterà più: la grammatica.

Quando arriverà quel giorno, ognuno parlerà col cuore in mano e chi ascolterà il cuore altrui riuscirà a capire e a capirsi, provando le medesime cose.

Articolo tratto da:

Autore sconosciuto - www.homolaicus.com/linguaggi/grammatica/bonton.htm

 

1. Nessun testo senza contesto

Non si può né scrivere né interpretare adeguatamente un testo senza darne in qualche modo le coordinate spazio-temporali.

A che cosa si riferisce un testo? Se si pretende che altri lo capiscano, bisogna offrire delle indicazioni preliminari, altrimenti è preferibile considerarlo per quello che ci sembra: un testo fine a se stesso, che gioca con le parole, che vuol trasmettere un’emozione, una curiosità… senza particolari pretese.

Le suddette coordinate possono essere date in vari modi, non è sempre necessario specificare giorno mese anno. Si può anche essere allusivi, metaforici, per una scelta personale o perché costretti da condizionamenti esterni; bisogna comunque farlo in maniera tale che i destinatari del messaggio abbiano elementi sufficienti per capire qualcosa di essenziale, anche se l’ambiguità resta ineludibile.

Chi pensa di scrivere soltanto per l’umanità è un astratto idealista, è lontano dai bisogni della sua gente. Un testo deve servire anzitutto per i propri contemporanei, benché sia sempre possibile che qualcuno, fra mille anni, abbia voglia di riutilizzarlo.

Ma è noto che quando si riprendono in mano testi scritti molto tempo prima, l’interpretazione che se ne dà, l’uso che se ne fa è molto diverso da ciò ch’era stato fatto nel momento in cui vennero scritti. Si pensi solo al recupero di Aristotele in epoca medievale o a quello di Platone in epoca umanistica.

Bisogna dunque scrivere per il presente, lasciando al futuro la propria autonomia. E’ vero che di un testo ci si può accontentare del suo significato morale o filosofico, ma è molto più grande la soddisfazione quando se ne comprende il nesso con la storia, con l’ambiente di riferimento che ha indotto l’autore a scriverlo.

Noi non sappiamo chi abbia redatto l’indovinello veronese: "Se pareba boves, alba pratalia araba, albo versorio tenebra, et negro semen seminaba". Però ci piace sapere che sia stato un anonimo amanuense altomedievale, più che se non l’avesse scritto Cicerone in persona.

 

2. Meglio semplice e corretto che il contrario

I geni dell’umanità avevano padronanza assoluta della lingua: è forse questo il motivo per cui Marx è sempre stato apprezzato più dell’amico Engels, il quale però per molti versi gli era superiore.

Spesso per poter comprendere adeguatamente questi geni ci vuole non meno padronanza linguistica. Ecco perché forse è preferibile limitarsi a scrivere cose semplici e grammaticalmente corrette, piuttosto che avventurarsi in imprese al di sopra delle nostre forze.
La passione per la lingua scritta può avvenire col tempo, ma non è detto che si sia sempre capaci di trovare una forma adeguata ai propri contenuti.

Se i contenuti sono elevati ci vuole una forma corrispondente, e questo obiettivo è molto difficile da raggiungere.

Se noi diciamo che nell’arte la forma è sostanza, perché questo non dovrebbe valere anche nella lingua? Il De Vulgari Eloquio lo dice chiaramente: per trattare "materie eccellenti" occorre "ingegno e sapienza".

Però Dante era un aristocratico delle lettere. Se prendiamo ad es. i Vangeli noteremo una realtà del tutto opposta, e cioè il fatto che si possono scrivere cose molto profonde usando un linguaggio quasi elementare. Di fronte a un’esperienza letteraria del genere ci si può chiedere se davvero sia stato possibile realizzarla in tutta semplicità.

Forse il segreto del successo di un testo scritto sta proprio in questo: avere una grande esperienza da raccontare senza rischiare di banalizzarla usando un linguaggio alla portata di tutti. Solo i grandi scrittori sanno quanto sia difficile essere semplici e avvincenti.

 

3. Anche il non senso ha un senso

Siamo immersi nella semantica dalla mattina alla sera, proprio perché "in principio era il logos"… Non si può quindi guardare con sufficienza ciò che non rientra nei canoni prestabiliti, ciò che va oltre le regole o il consueto.

Il non-senso può essere un messaggio criptico, cifrato, come i pizzini di Provenzano o i rebus di Moro prigioniero delle B.R. Può essere un messaggio indiretto, allusivo, a mo’ di parabole, soggetto a censure (le veline) o autocensure (i troppi scrupoli di coscienza), oppure può semplicemente denotare un disagio, il malessere di chi non si sa esprimere con sufficiente chiarezza, o perché ha pochi strumenti comunicativi, o perché, al contrario, ne ha troppi e presume che gli altri ne abbiano come lui e lo capiscano al volo.

Lo stesso linguaggio della politica, ove si dice tutto e il suo contrario, viene spesso considerato dalla stragrande maggioranza dei cittadini come un incredibile non senso. Ma questo vale anche per tutti i linguaggi specialistici, settoriali, il primo dei quali è quello giuridico, che pare fatto apposta per trarre in inganno il senso comune.

Il non-senso di certe espressioni linguistiche a volte purtroppo porta a conseguenze tragiche: come quando gli indigeni americani non capivano le pretese dei colonizzatori avanzate con la lingua castigliana; oppure può essere espressione di un forte malessere esistenziale, come nel linguaggio dei folli, che va decodificato per poter comprendere l’origine della loro malattia.

 

4. Il testo è un pretesto? Dimostralo!

E’ una responsabilità quella di sostenere che un testo vuol dire "altro" rispetto a ciò che apparentemente sembra. Dimostrarlo non è facile, essendo raro avere indizi, prove o riscontri concreti da far valere, soprattutto quando dalla stesura di un testo è passato troppo tempo per farsi un quadro esatto delle motivazioni che l’hanno generato.

P.es. la Donazione di Costantino fu scritta per convincere i Franchi ad accettare la tesi che insieme alla chiesa romana avrebbero potuto evitare completamente di prendere in considerazione la presenza della realtà bizantina nella parte occidentale dell’impero romano-cristiano; ci vollero 700 anni prima di scoprire che si trattava di un falso patentato.

A volte proprio lo scorrere del tempo può costituire un vantaggio, in quanto si attenuano le pressioni extra-testuali che impedivano al testo d’essere interpretato in modo per così dire "non ufficiale". Questo vale anche per un altro falso famosissimo in ambito ecclesiastico: le Decretali dello Pseudo-Isidoro, smascherate solo quando nel XV secolo s’impose la critica testuale.

Paradossalmente si finisce col capire meglio un testo proprio quando esso ha perso molta della propria importanza.

 

5. Riassumi e commuovi e sarai grande

Riassumere e commuovere contemporaneamente è impossibile. Sono due abilità linguistiche del tutto diverse. In un certo senso, se vogliamo, è ciò che distingue un testo scientifico da uno propriamente letterario.

Saper riassumere con precisione è una virtù che si acquisisce con l’esercizio; saper commuovere con le parole non dipende solo dall’esercizio: occorre una particolare sensibilità. E questa è un’arte che solo la vita può dare.

Non si tratta semplicemente di attenzione per i particolari, ma proprio della capacità di toccare corde emotive, al di là della coerenza logica.

Non si diventa grandi scrittori scrivendo perfettamente tra le pareti di una stanza sommersa dai libri. Prima dei suoi sofferti Idilli Leopardi scrisse 240 traduzioni, saggi eruditi e filologici, tragedie, inni, commenti, discorsi, ecc. il cui valore è modestissimo.

Questo per dire che chi scrive romanzi deve saper commuovere, altrimenti è meglio che faccia riassunti. E gli arabi che durante il Medioevo sintetizzarono buona parte della cultura ellenistica e indo-buddhista, furono grandi, perché permisero all’Europa occidentale di avere un percorso che altrimenti sarebbe stato molto diverso.

 

6. Fatti e parole si alternano come il sole e la luna

Il linguaggio è tanto più bello quanto più non rimanda a qualcosa di semplicemente linguistico. Perché è così tanto odiato il linguaggio dei politici? Perché è fine a se stesso, alla mera conservazione del potere, come una sorta di teatrino dove i ruoli sono stabiliti a priori. Assomiglia a quel gioco in cui con poche lettere alfabetiche si possono formare molte parole di senso compiuto e persino opposto: dentro la parola "democrazia", p.es., si possono ricavare parole come "amare" e "odiare".

L’esperienza senza un linguaggio che la renda intelligibile è cieca, ma il linguaggio autoreferenziale è vuoto.

Dovendo però scegliere tra l’esperienza muta e il linguaggio forbito, cosa preferire? Fatti e parole devono sostenersi a vicenda, come due coniugi che si promettono amore eterno.

Difendi dunque i fatti con le parole ma soprattutto con altri fatti, sino al punto in cui essi possano parlare anche da soli.

 

7. Un fatto non parla mai da solo

Purtroppo un fatto non parla mai da solo, anche se non è detto che parli di meno quando si rifiuta di farlo. Tanti silenzi sono più eloquenti di mille parole.

I fatti parlano se siamo disposti ad ascoltarli, se sappiamo porre le domande giuste, se non li mettiamo in condizioni imbarazzanti, se siamo capaci, nell’uso delle ipotesi interpretative, di non andare oltre quel livello di profondità che non ci compete, in quanto appartenente alla sfera della libertà umana.

D’altra parte non è detto che un fatto molto loquace sia anche molto utile all’accertamento della verità. Molti fatti emozionano, commuovono, ma questa capacità di toccare i sentimenti non li rende di per sé più veri, indispensabili alla convivenza umana, efficaci per la soluzione dei problemi…

I fatti hanno il senso che gli diamo, anche se ogni fatto ha il proprio senso. La verità dei fatti è la capacità di adeguare la nostra interpretazione al loro senso oggettivo.
Un fatto arriva a parlare da solo quando non si ha più bisogno d’interpretarlo, in quanto tutti lo sanno interpretare adeguatamente. Ma è davvero possibile tacere di fronte a un’interpretazione univoca? O forse è meglio dire che ci sarà sempre un’ulteriore sfumatura interpretativa?

 

8. Non esistono le interpretazioni univoche

Quando qualcuno sostiene che un fatto può essere interpretato in maniera univoca, lì si rischia una qualche forma di autoritarismo. La ricerca dell’interpretazione migliore va lasciata alla libertà dei cittadini. Se questa ricerca porta al silenzio, poiché di fronte a certi eventi è preferibile scegliere questa opzione, bisogna assicurarsi che il tacere, esattamente come il parlare, siano una scelta di libertà.

A tutti piacciono le sicurezze interpretative, ma non a condizione che questo obiettivo debba essere pagato col prezzo della libertà.

Il fatto che non esistano interpretazioni univoche non significa che non esista la verità delle cose, ovvero che ogni interpretazione possa essere quella giusta. Nella storia vi è un progressivo adeguamento dell’interpretazione alla verità dei fatti. Non siamo mai in grado di stabilire una verità assoluta dei fatti, però possiamo pretendere che una verità sia più oggettiva di altre.

 

9. Ogni genere ha la sua dignità e le sue regole

Per giungere a esprimere o a formulare una verità dei fatti si può scegliere il genere letterario che si vuole, ma a condizione di rispettarne le regole, che non sono soltanto quelle formali-linguistiche, ma anche semantiche.

Non si può affrontare il tema del linguaggio senza affrontare quello della logica del ragionamento astratto, quello della tecnica del sillogismo, quello delle possibili forme interpretative non razionali, nell’accezione occidentale del termine. E’ da circa mezzo millennio che noi sosteniamo che una cosa è vera quando è dimostrabile, ma vi sono culture che preferiscono affidarsi alla tradizione o all’analogia rispetto a fatti precedenti.
Si può arrivare alla verità delle cose scrivendo un romanzo o un testo storico, o, come fece il Manzoni, un romanzo storico. L’importante è rispettare le regole formali del genere e quelle sostanziali della comunicazione, che sono quelle della dialettica, in cui gli opposti si toccano, si compenetrano e danno vita a una nuova sintesi.

 

10. Lingua è comunicazione in senso lato

La lingua non è tanto comunicazione scritta, ma comunicazione in senso lato, a tout azimut, in cui il soggetto emittente e quello ricevente si pongono come persone integrali, olistiche, in grado di dare e ricevere non solo con l’intelletto ma con tutto il corpo.
Ma se la lingua è comunicazione, l’apprendimento della grammatica è soltanto un suo aspetto. E’ la comunicazione che va imparata. La retorica deve rientrare nei programmi disciplinari. Che senso ha saper interpretare una poesia senza saperla recitare?
Linguaggio è comunicazione, che è infinitamente di più del tema o del riassunto scritti. Qualunque forma di comunicazione, almeno nei suoi rudimenti essenziali, deve poter essere appresa a scuola. Anzi, qualunque disciplina dovrebbe stabilire il proprio statuto epistemologico comunicativo.

Quale forma di comunicazione trasmette la matematica? Lo sanno i matematici che non si tratta soltanto d’imparare a fare dei calcoli per trovare le soluzioni a determinati problemi quantitativi? Sono in grado i ragazzi di capire quando la statistica viene usata per fare propaganda politica? E’ più difficile capire questo o le equazioni di secondo grado a tre incognite?

 

11. Dante conosceva la grammatica

Sarebbe sciocco sostenere che più importante della grammatica, con cui saper scrivere un testo, è l’abilità psicologica con cui comunicare a qualcuno il contenuto di un certo messaggio.
Dante conosceva bene la grammatica, sia quella italiana che quella latina, e come lui il Manzoni, il Leopardi, il Foscolo… Non si diventa grandi scrittori senza sapere la grammatica: Io speriamo che me la cavo è stata un’eccezione dovuta alla novità del caso.

In un mondo di analfabeti potrebbero anche piacere libri sgrammaticati, ma quando c’erano gli analfabeti non si leggeva. E oggi che lo si può fare, si accettano le sgrammaticature come stravaganza non come regola.

Ogni forma di comunicazione ha la sua grammatica. Imparare quella della lingua scritta, nella nostra civiltà, è come imparare l’alfabeto. Non a caso gli storici fanno coincidere la storia delle civiltà con la nascita della scrittura, penalizzando enormemente tutta la preistoria, le società clanico-tribali, il comunismo primitivo.

Oggi sappiamo che queste civiltà pre-antagonistiche erano migliori delle nostre basate sui conflitti di classe, ma sappiamo anche quanto sia impossibile lottare contro il nostro tempo senza scrivere neanche una riga. E per poterlo fare in maniera convincente, bisogna conoscere bene ciò che forse un giorno non esisterà più: la grammatica.

Quando arriverà quel giorno ognuno parlerà col cuore in mano e chi ascolterà il cuore altrui riuscirà a capire e a capirsi, provando le medesime cose.

 

12. Se ti motivo t’impegni?

Se chi vuole apprendere non si lascia motivare da queste cose, il suo destino è quello di ripetere pedissequamente cose altrui. E’ il trionfo del nozionismo astratto, che raggiunge il suo vertice quando si sa tutto a memoria. Il che comunque resta un esercizio utilissimo, anche se mentre lo si fa non lo si capisce. Nelle nostre scuole si ha soltanto l’impressione che apprendimento voglia dire ripetere meccanicamente verità precostituite.

Lasciati motivare al di là delle regole, se vuoi impararne altre che non stancano mai. Apprendere ad apprendere, in un circolo virtuoso infinito: è questa la regola principale da imparare.

Articolo tratto da:

Autore sconosciuto - www.homolaicus.com/linguaggi/grammatica/bonton.htm

  

La dittatura della Democrazia

Il bipolarismo, l’allontanamento della politica dal Popolo, l’evidenza di interessi propri che portano a promulgare leggi ad personam, sono solo la testa di un Cavallo di Troia che ci convince sempre di più che Centrodestra e Centrosinistra sono le ali dello stesso avvoltoio e che il Partito Democratico ne aspira a diventarne il corpo. 

E i 5 Stelle? Danno gomitate per vincere la corsa alla poltrona.

Alla faccia della Democrazia e degli interessi dei cittadini!                                                          (N.C.)

mercoledì 22 luglio 2020

Addio Italia indipendente e quinta potenza mondiale: siamo stati venduti alla Germania e suoi accoliti


Solo un demente può scambiare per un mezzo successo la catastrofe italiana sigillata dall’ultimo vertice di Bruxelles: il Paese che fu di Mattei, Moro e Pertini torna a casa scondinzolando per aver “ottenuto” dai padroni d’Europa il permesso di spendere 200 miliardi di euro, ma solo se farà il bravo. Una parte di quei soldi, la fetta più grossa, li dovrà restituire: sono soltanto un prestito. L’altra parte è a fondo perduto, ma non certo gratis: per averla, il paese dovrà obbedire al padrone, rassegnandosi a tagliare il welfare e alzare (ancora) le tasse, altro che abbassarle.
Stiamo parlando di un Paese che, da tre decenni, è in avanzo primario: lo Stato spende, per i cittadini, meno di quanto i cittadini gli versino sotto forma di tasse.
Per inciso, il Paese in questione ha l’acqua alla gola, dopo i tre mesi di folle blocco imposto all’economia da un governo di spettri, sorretto da partiti terrorizzati dall’idea di affrontare le elezioni.
Secondo Bankitalia, si profila un autunno allucinante: una famiglia su tre non saprà più come arrivare a fine mese. Si temono rivolte, e per questo il governo-fantasma ha nel cassetto la proroga dello stato d’emergenza, per poter imporre un nuovo coprifuoco come quello, delirante e suicida, già inflitto nella primavera peggiore della storia repubblicana col pretesto di un allarme sanitario mostruosamente manipolato.
Dettaglio tragicomico, di fronte all’immane disastro che si annuncia, il tempo che una parte del pubblico ancora spreca attorno a quella pericolosa nullità politica chiamata Giuseppe Conte, piccolo passacarte allevato tra i palazzi vaticani e le italiche baronie universitarie, per poi essere sistemato – nel caso tornasse utile – nelle retrovie del movimento finto-giustizialista creato a colpi di “vaffa” dall’ex comico democristiano Beppe Grillo, presente (Bonino dixit) sul panfilo Britannia nel 1992 insieme a Mario Draghi e al gotha finanziario che puntava a spolpare il Balpaese, devastato dal ciclone (colpo di stato?) Tangentopoli.
Negli ultimi anni, l’Italia politica ha digerito comparse e prestanome al servizio di stranieri, rivoluzionari all’amatriciana e lacchè gallonati. Nomi pallidi, tutti, per politiche pallide: Veltroni e Renzi, Salvini, Letta e Gentiloni, fino agli inguardabili figuranti del grillismo di lotta e di poltrona.
L’unico segno di vita, nell’Obitorio Italia, s’era intravisto all’esordio dei gialloverdi, con due richieste: Paolo Savona all’economia e una timidissima espansione del deficit. Risultato: il “niet” dello Stato Profondo italo-europeo. Mesto ripiego, l’incresciosa insistenza sullo scandaloso business dei migranti, da cui lo sdegno “antirazzista” degli “antifascisti” (che dormivano, quando il neonazismo vero, finanziario – quello dei poteri forti – si sbranava il loro Paese).
Ed è proprio su un’Italia agonizzante e trasformata in farsa – il derby deprimente tra Salvini e le Sardine – che è stata sganciata la bomba nucleare, la palingenesi antropologica del coronavirus. Forse, gli apprendisti stregoni non erano così certi di riuscire a trasformare gli uomini in topi. Il risultato ha superato ogni aspettativa: ancora oggi, si vede gente circolare all’aperto con il volto travisato dalla museruola raccomandata dall’Oms e, quindi, dai suoi camerieri italiani travestiti da ministri. Se esistesse la macchina del tempo, sarebbe esilarante paracadutare in questa Italia personaggi del secolo scorso come Bettino Craxi, Giulio Andreotti, Enrico Berlinguer. Vivevano in un Paese dove esistevano ancora leader e statisti, partiti, sindacati, editori puri, giornalisti. Era un Paese vitale e invidiato, che arricchiva i cittadini stimolando l’economia col deficit, per creare servizi avanzati e realizzare infrastrutture strategiche. Aveva tare enormi: il divario Nord-Sud, l’elefantiaco para-Stato improduttivo, la mafia, un’elevatissima corruzione e il record europeo di lavoro nero ed evasione fiscale. Quell’Italia era, comunque, la quinta potenza industriale del pianeta. Un Paese rispettato, capace di stabilire relazioni speciali con gli arabi e con l’Urss, nonché di rivendicare la sua quota di sovranità in modo anche clamoroso, come a Sigonella.
Da trent’anni, l’Italia gira per l’Europa col cappello in mano (e il conto lo fa pagare innanzitutto agli italiani). Amato, Ciampi, Draghi, Prodi, Napolitano, Berlusconi, D’Alema, Letta: è lunghissimo l’elenco dei personaggi cedevoli, complici di poteri extra-nazionali o, comunque, proni allo stillicidio della spietata precarizzazione sapientemente imposta dal potere ordoliberista e mercantilista, spacciato per Unione Europea.
Un progetto pluridecennale, pianificato a tavolino a partire dal Memorandum Powell del lontano 1971, passando per il manifesto “La crisi della democrazia”, fino all’invenzione francese del tetto del 3% alla spesa pubblica e agli infernali trattati (Maastricht, Lisbona), che hanno segnato la condanna delle economie sud-europee, in primis quella italiana.
Colpo di grazia, il governo Monti e l’obbligo del pareggio di bilancio, che annulla – di fatto – il ruolo dello Stato, riducendolo a mero esattore e rendendo carta straccia la Costituzione antifascista del 1948.
Ora siamo alle comiche finali: quel che ancora resta in piedi, dell’Italia, verrà divorato a stretto giro (leggasi: piano Colao) per far fronte agli impegni-capestro che “Giuseppi” ha appena contratto coi soliti strozzini, intenzionati a “finire il lavoro” cominciato trent’anni fa a bordo del Britannia. Con la differenza che oggi l’Italia è allo stremo: avrebbe bisogno, subito, di centinaia di miliardi e, invece, vedrà solo briciole, col contagocce, a partire dal 2021. La catastrofe incombente, lungamente preparata con decenni di guerra sporca contro i diritti sociali, ora rischia di far collassare il Sistema Paese, grazie al disastro planetario della gestione terroristica del Covid, in cui l’Italia ha offerto la peggior performance in assoluto: in percentuale, abbiamo avuto più morti del Brasile e siamo l’unica nazione industriale europea messa in ginocchio dalla mancanza di aiuti governativi.
Col passare dei mesi, o forse soltanto delle settimane, sarà chiara a tutti la verità che i grandi media fingono di non conoscere e, cioè, che da questo orrore si può uscire soltanto stracciando i trattati europei, a partire da Maastricht, e gettando al macero anche la cartaccia appena firmata dall’infimo Giuseppe Conte.

Giorgio Cattaneo
(“Addio Italia, Conte prenota la fine del sistema-paese”,
dal blog del Movimento Roosevelt del 21 luglio 2020)

Testo e foto da Idee Libre

martedì 14 luglio 2020

Il reale obiettivo del Mes? Farci diventare debitori contro la nostra volontà

Augustín José Menéndez
L’obiettivo del Mes? Farci diventare debitori contro la nostra volontà. Non innanzitutto per ragioni economico-finanziarie (i soldi che mancano), ma squisitamente politiche.
Lo spiega al “Sussidiario” Augustín José Menéndez, docente di diritto pubblico e comparato nell’Università Autonoma di Madrid. E il progetto si sta realizzando, scrive Federico Ferraù: finora Conte ha preso tempo, sul Mes, ma forse non aveva calcolato la resistenza interna di una parte dei 5 Stelle.
«È vero, ci sarebbe il soccorso di Berlusconi. Ma il Parlamento risulterebbe nettamente diviso, proprio alla vigilia del Consiglio Ue del 16-17 luglio, un appuntamento cruciale perché si parlerà del prossimo bilancio europeo. E sarebbe un vero guaio, per Conte, parteciparvi con un consenso dimezzato e il partito – i 5 Stelle – che lo ha messo a palazzo Chigi diviso al suo interno». A svelare in modo sorprendente la debolezza del governo è stato Mario Monti, con un articolo uscito il 1° luglio sul “Corriere della Sera”. Monti, riassume Ferraù, ha suggerito a Conte di prendere tempo, facendosi dare un mandato parlamentare in cui il Mes venga solo menzionato, senza un rifiuto pregiudiziale. In questo modo – secondo Monti – il governo può guadagnare tempo, permettendo al Mes di perdere «alcuni dei suoi aspetti totemici», facendo «prevalere il pragmatismo».
Menéndez, ricorda Ferraù (che lo ha intervistato), è coautore di un recente saggio dedicato proprio al Fondo salva-Stati. Titolo: “Mes. L’Europa e il trattato impossibile”. Tra le altre cose, scrive sempre il giornalista del “Sussidiario”, si spiega bene che il Mes “light” non esiste: il Meccanismo Europeo di Stabilità è stato concepito come strumento del creditore per controllare politicamente il debitore. E tale è rimasto. «Avere il sostegno di una maggioranza “bipartisan” nel Parlamento nazionale è sempre una risorsa nelle trattative europee», premette Augustín José Menéndez, a proposito della sortita di Monti sul “Corriere”. Ma perché non approfittare della controversia per riformare le regole europee, coinvolgendo altri paesi? Al di là delle rassicurazioni di Romano Prodi sul carattere innocuo del Mes “sanitario”, «il quadro normativo del diritto europeo sull’assistenza finanziaria rimane invariato, e quindi la condizionalità non è diventata un “optional”», avverte il professor Menéndez. «È un bene che i dirigenti europei leggano più Keynes e meno Alesina. Ma se le cose stanno così, la domanda da fare è perché, invece di fare dichiarazioni politiche, non approvano un bell’emendamento alle norme europee che richiedono la condizionalità?».
«Se un paese accetta il Mes, il prestito sarà senza condizioni», assicura il tedesco Klaus Regling, gestore del Fondo. Le condizionalità sembrano sparite con il Pandemic Crisis Support (Pcs) o Mes sanitario. Tuttavia, osserva Ferraù, anche la dichiarazione di Regling assomiglia a una “condizionalità”: far accettare il Mes ai paesi, come l’Italia, che fanno resistenza. «Tutte le relazioni di credito sono relazioni di potere», conferma Menéndez. «Pertanto, quando viene instaurata una relazione creditizia su insistenza del creditore e con grande riluttanza da parte del debitore, sembra giustificato chiedersi il motivo per cui il creditore attira il debitore in modo così insistente. Tutto il meccanismo dell’assistenza finanziaria nell’Eurozona – aggiunge Menéndez – è orientato a creare un fortissimo vincolo esterno sul debitore controllato dai creditori». Forse le intenzioni di tanti politici europei sono cambiate, «ma le norme e le strutture istituzionali rimangono quelle che si sono create dieci anni fa». E quindi: «Le parole se le porta via il vento, mentre le norme giuridiche rimangono». Nello specifico, il regolamento Ue prevede una «sorveglianza rafforzata» sul paese debitore, e a certe condizioni «non esclude l’eventuale imposizione di un programma di “aggiustamento” macroeconomico».
In pratica, spiega sempre Menéndez, significa che le condizioni “leggere” inizialmente stabilite «possono rapidamente evolvere nella direzione di una condizionalità ben più incisiva». In altri termini, anche aderendo al Mes sanitario, il rischio del temuto “aggiustamento” macroeconomico c’è ancora, così come l’ipotesi della “ristrutturazione” del debito pubblico italiano (e cioè: tagli devastanti alla spesa pubblica). Ricorda il professore: se la Commissione Ue ritiene che sono necessarie «ulteriori misure», e che la situazione economico-finanziaria dello Stato in questione abbia «importanti effetti negativi sulla stabilità finanziaria della zona euro o dei suoi Stati membri», l’autorità europea «può raccomandare allo Stato membro interessato di adottare misure correttive precauzionali o di predisporre un progetto di programma di aggiustamento macroeconomico». Il problema non sono i 36 miliardi della linea di credito del Mes, chiarisce Menéndez: «L’obiettivo del Fondo salva-Stati e di chi lo difende è rafforzare il vincolo esterno, che l’appartenenza all’Eurozona già implica, aggiungendo una nuova leva di controllo».
La cosiddetta “governance” economica europea, dice ancora Menéndez, è un mare di norme informali «fatto di guidelines, memoranda of understanding, letters of intention e via dicendo». Sembra tutto molto “chic”, «ma questa informalità ha un prezzo salatissimo». Quale? «La sicurezza», spiega il professore. «Ricordiamoci che i famosi memoranda of understanding ai quali si condizionò l’assistenza finanziaria a Grecia o Portogallo erano riscritti ogni sei mesi appunto perché “flessibili”. I creditori potevano dettare le condizioni a loro volontà, senza essere vincolati neppure a delle condizioni anteriori». Domani, altri commissari potranno cambiare le condizioni del Mes sanitario. Perché allora non modificare regolamenti e trattati? Menéndez critica «la complessità del processo decisionale europeo», che spiega anche «la frequenza delle decisioni emergenziali», oltre che il ricorso a quella strana “informalità” delle prescrizioni. Di fatto, ribadisce Menéndez, l’Italia ha di fronte “gendarmi” come la Germania e l’Olanda: è altamente improbabile, conclude, che i governi dei paesi cosiddetti “frugali” possano dire sì a una proposta di emendamento dei regolamenti.
Testo e immagini da: Idee Libre

domenica 19 aprile 2020

Il problema non è che mentono, è che con il loro cervello lavato ci credono


«Orwell ha intuito che, nel futuro/presente di cui egli parla, si dispiega il potere dei grandi sistemi sovranazionali e che la logica del potere non è più, come al tempo di Napoleone, la logica di un uomo. Il Grande Fratello serve, perché bisogna pur avere un oggetto d'amore, ma basta che egli sia un'immagine televisiva». (Umberto Eco)

Torniamo a Orwell che non sbagliamo mai. Alla fine, per come la giri e per come la meni, ti accorgi che Nostradamus era un dilettante rispetto all’impareggiabile George (Orwell), il quale ebbe il merito, non solo di prefigurare il nostro futuro, ma di farlo così bene da essere, con un secolo di anticipo, più accurato e profondo del più raffinato intellettuale vivente.
Ebbene, c’è un episodio nel suo capolavoro, “1984”, in cui O’Brien, uno sgherro del Governo totalitario, cerca di convincere Winston, il povero protagonista dissidente, che 2+2 fa 5.
La cosa interessante è questa: Winston non deve solo dire una menzogna: troppo facile. Egli deve realmente convincersi di quella menzogna, deve pronunciarla non per compiacere il suo carnefice, ma per plagiare in maniera non più ricusabile il proprio cervello.
Alla fine ci riesce. È la vera, tombale, vittoria del regime. Un   regime “serio” – questa la straordinaria intuizione di Orwell – non vince davvero se ti costringe a pensarla come lui. Quella è roba da dilettanti della camicia nera del ventennio, è una vittoria di Pirro del manganello.
I regimi perfetti vanno oltre: ottengono dalla coscienza e dalla intelligenza delle loro vittime una resa totale e incondizionata. Essa consiste non nella disponibilità a mentire, ma nella trasmutazione della menzogna in verità.
Oggi, ciò si è compiutamente realizzato rispetto a diverse faccende, ma in primis con riferimento a quella della cosiddetta “solidarietà”, degli “aiuti pubblici”, della “potenza di fuoco”. Insomma, di tutti i marchingegni, più o meno perversi, con cui le istituzioni (europee o nazionali) ci starebbero “aiutando”.
Qual è il minimo fattor comune di tutte queste iniziative? Le “sponsorizziamo” noi, indebitandoci.
Che sia la BEI, il MES, i Corona bond, il Sure, o qualsiasi altro “apparecchio”, la verità è una: i cittadini “aiutano” se stessi tirando fuori più soldi di quelli ricevuti, e cioè impegnandosi a restituire il presunto atto di generosità del Potere Costituito, più gli interessi, per i decenni a venire. L’esempio più eclatante sono i famosi 400 miliardi del Governo.
Spacciati dall’esecutivo come un gigantesco piano Marshall, sono in realtà un macroscopico programma di indebitamento collettivo. Niente è a fondo perduto, nulla è “regalato” dallo Stato. Ogni singolo centesimo proviene dalle banche e dovrà essere restituito, sotto pena di pignoramenti, da privati e famiglie.
Se ci pensate, è l’apoteosi della mentalità usuraria. Ma non è questo il punto. I nostri partiti, e soprattutto il Partito Democratico, puntello insostituibile dell’attuale Sistema di ingiustizia sociale serializzata, sono specialisti in materia. E lo fanno senza vergogna, oltre che senza dignità.
Qualche anno fa introdussero addirittura l’APE sociale: il pensionato indebitato per pagarsi una pensione anticipata. Tuttavia, il vero problema, se analizzate fino a fondo la cosa, non è economico: è psicologico. Chiunque ha ancora un briciolo di coscienza critica “vede” queste cose.
Il dramma è il numero enorme di soggetti, sia tra i governanti che tra i governati, che non le “vedono” più. Alcuni,  quando parlano di “impegno straordinario”, di “sfida epocale”, certamente mentono sapendo di mentire, ma moltissimi altri mentono “non” sapendo di mentire. Sono giunti allo stadio di intossicazione cronica della coscienza di cui parlava Orwell, quello dove 2+2 fa 5, quello dove il cancro terminale della nostra civiltà (l’usurocrazia bancaria) è “sinceramente” visto e divulgato come la migliore medicina.
Se non svegliamo la bella (massa) addormentata, il bacio del Principe sarà il bacio della morte.



Le immagini sono liberamente tratte dal Web in quanto, in mancanza di indicazioni contrarie, sono state ritenute di pubblico dominio



UN'EPIDEMIA IDENTICA AL CORONAVIRUS NEL 2012 ERA STATA PROFETIZZATA IN UN LIBRO DI SYLVIA BROWNE

Sylvia Browne (all'anagrafe Sylvia Celeste Shoemaker, Kansas City, 19 ottobre 1936 - San Jose, 20 novembre 2013) era una sensitiva proveniente da una famiglia di medium.
Personaggio controverso e spesso al centro del dibattito, raggiunse il successo grazie alle sue straordinarie esperienze medianiche, avute sin da quando era bambina.
Molto celebre in America, i suoi libri sono bestseller tradotti in tutto il mondo. In Italia ha pubblicato per Mondadori molti volumi, tra cui: La vita nell'AldilàProfezieFenomeniSocietà segreteVita da veggente e Tutti gli animali vanno in paradiso.
La Browne partecipò, come consulente per polizia e FBI, alle indagini di oltre 100 casi di sparizione e omicidi. 
Nel 2012, un anno prima di morire, scrisse, insieme a Lindsay HarrisonProfezie (in inglese End of Days”), un libro dal sottotitolo "Che cosa ci riserva il futuro".
Ed è proprio guardando nel futuro che l'autrice, già anni fa, aveva previsto, tra le altre cose, un'epidemia che tanto sembra ricordare l'attuale Coronavirus.
La frase che colpisce da subito leggendo il libro è: “Entro il 2020 gireremo con mascherine e guanti per via di un’epidemia di polmonite”.
Poi spiega:Mascherine chirurgiche, guanti di gomma e una patologia che attacca i canali bronchiali e sembra refrattaria a ogni tipo di cura”. Oggi, con il senno di poi, nelle parole di Sylvia Browne si possono leggere richiami a eventi e fatti sfortunatamente attuali.
La sensitiva nel libro aggiunge che: "Dopo aver provocato un inverno di panico assoluto, quasi in maniera più sconcertante della malattia stessa, improvvisamente svanirà con la stessa velocità con cui è arrivata, ma tornerà all’attacco nuovamente dopo dieci anni e, poi, scomparirà completamente” e per sempre.
Profezia o conoscenza di qualche carteggio riservato, tenendo conto della sua lunga collaborazione con polizia e Fbi?
Nino Caliendo