domenica 20 gennaio 2019

Contro le menzogne di Bruxelles, tutta la verità sul debito pubblico italiano

Ilaria Bifarini

Spread e debito pubblico: fanno ormai parte delle nostre vite, ne sentiamo parlare continuamente, ossessivamente, tanto da preoccuparcene più della disoccupazione giovanile a livelli inverosimili e di una mancata crescita che ormai ci sta traghettando dalla crisi alla recessione. Eppure l’opinione pubblica ha talmente interiorizzato la narrazione mercato-centrica del mainstream che non sembra credere ad altro: siamo stati spendaccioni e irresponsabili (Pigs) e dobbiamo dunque espiare le nostre colpe con una giusta dose di rigore e disciplina. Dunque l’austerity è la giusta – nonché unica – strada da percorrere, così come vuole l’approccio dogmatico del modello economico neoliberista, il tatcheriano Tina, “there is no alternative”. Abbiamo un debito pubblico intorno al 130% del Pil, secondo in Ue solo a quello della Grecia, per cui meritiamo la condizione di sorvegliati speciali di Bruxelles e di essere dunque defraudati di una nostra politica fiscale autonoma (di quella monetaria siamo già stati privati). È la strada indicata dalla “virtuosa” Germania, esempio di disciplina e rispetto delle regole per noi italiani, così dissoluti e un anche un po’ scostumati. Ma quando si è creato il fardello del debito pubblico italiano? Tutto parte nel 1981, in cui accade un evento epocale, che fa da spartiacque nella storia della sovranità economica italiana: il famoso divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro.
Con un atto quasi univoco, cioè una semplice missiva all’allora governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, Andreatta mette fine alla possibilità del governo di finanziare monetariamente il proprio disavanzo. Rimuovendo l’obbligo allora vigente da parte di Palazzo Koch di acquistare i titoli di Stato emessi sul mercato primario, la Banca d’Italia dismette il ruolo di prestatrice di ultima istanza. D’ora in poi, per finanziare la propria spesa pubblica, l’Italia deve attingere ai mercati finanziari privati, con la conseguente esplosione dei tassi d’interesse rispetto a quelli garantiti in precedenza. Ma non solo: viene rivisto il meccanismo di collocamento dei titoli di Stato, introducendo il cosiddetto “prezzo marginale d’asta”, che consente agli operatori finanziari di aggiudicarsi i titoli al prezzo più basso tra quelli offerti e, quindi, al tasso di interesse più alto. Ad esempio, se durante un’emissione di 50 miliardi di Btp, 40 vengono aggiudicati a un rendimento del 3%, mentre il restante al 5%, alla fine tutti i 50 miliardi saranno aggiudicati al 5%! Gli effetti sono tanto disastrosi quanto immediati: l’ammontare di debito, che nel 1981 era intorno al 58,5%, dopo soli tre anni raddoppia e nel 1994 arriva al 121% del Pil.
Come riportato dallo stesso Andreatta alcuni anni dopo, questo stravolgimento strutturale era necessario per salvaguardare i rapporti tra Unione Europea e Italia, e per consentire al nostro paese di aderire allo Sme, ossia l’accordo precursore del sistema euro. Quando l’Italia fa il suo ingresso nell’euro non risponde ai parametri del debito pubblico richiesti da Maastricht, ma l’interesse politico e l’artefatto entusiasmo generale per la sua partecipazione hanno la meglio. Sarà la crisi del 2008 a far emergere tutti i limiti e la fallimentarietà di un’area valutaria non ottimale e insostenibile come l’Eurozona: l’Italia, come altri paesi, senza la possibilità di ricorrere alla svalutazione del cambio, non riesce a recuperare terreno. Il debito pubblico, che finora era rientrato in una fase discendente, passa dal 102,4% al 131,8% del 2017. Una crescita notevole, ma di gran lunga ridimensionata se paragonata all’incremento del debito pubblico di altri paesi dell’area euro, come Spagna, Portogallo e la stessa Francia.
Nello stesso arco temporale, infatti, Madrid ha visto il suo debito pubblico schizzare dal 38,5% al 98,3%, il che significa un tasso incrementale di circa il 150%! La crisi non ha risparmiato neanche il vicino Portogallo, che è arrivato lo scorso anno a un livello del debito molto vicino al nostro (125,7%), partendo da un “contenuto” 71,7% del 2008. Eppure i due paesi iberici hanno sforato ripetute volte il famigerato vincolo del 3% – parametro tanto assiomatico quanto infondato – permettendo così all’economia di tornare a crescere, a differenza di quella italiana che si è incamminata nel percorso distruttivo dell’austerity. Situazione analoga per la Francia, con un valore del debito pubblico allo scoppiare della crisi inferiore del 70% e che oggi si aggira intorno al 100%, ma senza che ciò le abbia impedito di aumentare la spesa pubblica e il deficit di bilancio, assicurando in questo modo la crescita del Pil.
Dunque, sintetizzando, il nostro famigerato debito pubblico è sì più elevato, ma è partito da una situazione di evidente svantaggio, ed è cresciuto in termini percentuali del tutto in linea con l’andamento degli altri paesi dell’euro a seguito della crisi; anzi, anche meno di altri, come abbiamo visto, e aggravato dalle politiche di austerity, i cui effetti deprimenti sull’economia sono conclamati. Rimane il problema dei tassi d’interesse (da cui il famigerato spread), da noi più elevati che altrove, proprio a causa delle modalità dei meccanismi di collocamento dei titoli di Stato introdotte a seguito dell’epocale divorzio tra i due istituti finanziari italiani. È stato stimato che in trent’anni abbiamo pagato la colossale cifra di 3mila miliardi di interessi sul debito pubblico! In queste circostanze a nulla valgono gli sforzi fiscali dell’Italia, che registra da quasi trent’anni avanzo primario, ossia quella situazione, del tutto antisociale, per cui lo Stato incassa più di quanto spende, esclusi gli interessi sul debito pubblico. Per onorare il costo del debito, ossia quell’assurda creazione del denaro dal denaro, vengono sottratte risorse finanziarie per servizi pubblici e sostegno alla popolazione in difficoltà. Dunque, una redistribuzione al contrario, dai cittadini ai mercati finanziari. Il tempo delle riforme è ormai improcrastinabile.

Ilaria Bifarini, “Tutta la verità sul debito pubblico, contro le menzogne di Bruxelles”, da “Il Primato Nazionale” del 10 gennaio 2019

Testo e foto tratti da Idee Libre

giovedì 10 gennaio 2019

Scriviamo cose sui social prima ancora di pensare. Socrate l'aveva predetto millenni fa



In un articolo apparso di recente sul New York Times, Bret Stephens trova la prima fonte che parla dei social – Facebook in testa – nella Storia occidentale. E la trova in una cosa scritta (o meglio detta, è importante) circa 24 secoli fa. Nel Fedro di Platone, Socrate discute con l’amico che dà titolo all’opera a proposito dell’invenzione della scrittura, fatta risalire al dio egizio Theuth. Il dio – già inventore dell’aritmetica e della geometria, dell’astronomia e dei dadi, visita il re Tamo annunciandogli che ha inventato la scrittura. Ci farà diventare persone migliori, sostiene Theuth; ricorderemo le cose meglio e saremo dunque più saggi. Il re risponde secco che non sarà mai l’inventore a poter giudicare la propria invenzione e prevederne gli effetti, e che la scrittura, anziché farci divenire più saggi, ci darà l’illusione di una conoscenza apparente ma non vera, trasformandoci così in finti sapienti, a nostra volta diffusori di finta sapienza attraverso la parola scritta.
Vi ricorda qualcosa? Facebook! Descritto da Socrate nel 370 a.C., più o meno. Il tema del rapporto tra cosa scritta e contesto è rimasto sempre al centro del dibattito filosofico. Oggi il contesto è diventato il messaggio, si sa, e il tempo di fruizione, permanenza e reazione al messaggio tende a zero. E a sua volta il contesto istantaneo è esondato dai social per approdare alle colonne dei giornali, alla Tv, alle chat di Whatsapp, a ogni mezzo di comunicazione. Oramai la reazione si misura in millisecondi. Leggiamo e rispondiamo, quasi con un istinto pavloviano, alimentato dalle microscariche endorfiniche che riceviamo ogni volta che lo smartphone fa dlin. Socrate, come sempre, aveva ragione.
Il recente picco della dinamica “scrivo una cazzata – chiedo scusa – ne scrivo un’altra” è stato, oltre che fonte di preoccupazione e di grasse risate, illuminante. Non ho tempo per capire che esito avranno le mie parole scritte (e in quanto tali inchiodate a me come Cristo alla croce) e se l’esito non è la scarica di endorfine dei like, presto, si corre a scusarsi. Che lo si faccia dalla prima pagina di un quotidiano, o in un video poco importa, il contesto rimane quello: l’infosfera digitale che tutto accoglie, assorbe e moltiplica. La questione non cambia anche se si usa il mezzo video per essere più efficaci ed emozionali; nel video si parla, il messaggio è meno parziale, nel bene e nel male, ma sempre testo è. Può convincere in quanto percepito come autentico o far ridere da quanto è pretestuoso e opportunista. Più efficace, più rischioso ancora ma pur sempre testo slegato dalla presenza. Parole scolpite nella pietra, parte della valanga di pietre che ci rotolano addosso ogni giorno.
Viviamo la sindrome della “single story”; dell’unica (istantanea) versione dei fatti. In un celebre intervento ai TED Talks, la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie racconta della sua infanzia: leggeva libri anglosassoni e quindi le prime storie che ha scritto riguardavano uomini bianchi che bevevano ginger beer – lei nemmeno sapeva cosa fosse la ginger beer. Aveva una single story su cosa fosse la letteratura: aveva a che fare con uomini bianchi. Un ragazzo che li aiutava in famiglia viene definito dalla madre della futura scrittrice come “poverissimo”; quando poi fanno visita alla sua famiglia, la piccola è stupita dal fatto che la madre del ragazzo abbia per loro in dono una magnifica cesta: ma come, non erano poverissimi? Perché ci fanno un regalo? Arrivata in America, la sua roommate all’università era stupita che sapesse parlare inglese (in Nigeria è la lingua ufficiale) che ascoltasse Mariah Carey e non dei canti tribali ecc. La roommate sveva una sua single story dell’Africa, un misto di pietismo, accoglienza liberal e sproporzionata manifestazione di apertura mentale.
Se non vogliamo fare incazzare definitivamente il saggio re egizio Tamo, dovremmo ricominciare a fare una cosa: pensare prima di scrivere.

E adesso insultatemi pure, tanto al massimo chiedo scusa.
Massimo Coppola