mercoledì 30 maggio 2018

La classe degli asini



Sui Social, da parte di alcuni strati di elettori, imperversa il concetto che Lega e M5S siano i vincitori delle elezioni politiche 2018 per volontà popolare e sono apparsi in proposito improvvisati costituzionalisti, che probabilmente mai hanno letto (non pretendo studiata), veramente e per intero, la Costituzione.
Premesso che le elezioni le vince veramente solo chi raggiunge minimo la maggioranza assoluta, cosa che nella Repubblica Italiana non si è mai verificato (i due più grandi partiti, il PCI e la Democrazia Cristiana, quando tutti andavano alle urne e l’astensionismo era bassissimo, non sono mai andati poco oltre il 40%), da sempre si sono dovute creare maggioranze a seguito di compromessi post elettorali.
La carica di Presidente del Consiglio spesso è stata assegnata a partiti minori vicini ai decimali (PLI, Partito Repubblicano). Persino Craxi, più volte premier, apparteneva a un partito minoritario (il PSI). Eppure, all’epoca della partecipazione attiva del cittadino alla politica, nessuno ha mai pronunciate le cazzate che sento dire nell’oggi demagogico più che democratico.
Nello specifico, in politica, il concetto di maggioranza è fondamentale. Esistono vari tipi di maggioranza: in genere, quando si usa il termine senza nessun aggettivo che lo specifichi, si vuole intendere la maggioranza assoluta. In sintesi, i vari tipi di maggioranza sono:

Maggioranza qualificata: quando il numero dei voti supera largamente il 50% dei votanti (esempio il 65%);

Maggioranza assoluta: quando il numero dei voti è minimo il 50% + 1 dei votanti;

Maggioranza relativa: quando il numero dei voti, pur non superando il 50%, è maggiore di tutte le altre fazioni (esempio 38%: è la maggioranza relativa in quanto, pur non arrivando al 50% + 1, è maggiore di tutte le altre fazioni).

Il Presidente del Consiglio, ove non ci sia almeno una maggioranza assoluta, lo propone l’insieme delle forze politiche che aderiscono al compromesso (i compromessi, per loro stessa natura etimologica, non sono mai belli e completamente onesti), che costituzionalmente deve comunque sempre essere sottoposto al vaglio del Presidente della Repubblica, garante della Costituzione e della legalità, che ha il diritto/potere di non approvarlo. Come il Presidente della Repubblica può approvare o meno la proposta dei Ministri per un eventuale governo del Presidente del Consiglio dei Ministri incaricato.
Si chiama Democrazia: parola oggi molto abusata.
Detto questo, è chiaro che, con il voto ultimo, non è stata espressa una scelta a maggioranza e, quindi, non si può parlare di volontà popolare.
Va anche tenuto conto del più grande Partito d’Italia, quello della “Lista che non c’è”, ovvero il Partito dell’Astensionismo, che ha espresso il suo voto non votando. La demagogia vuole che il voto sia un diritto/dovere, paroloni insignificanti che fanno vomitare chi possiede qualche neurone in più: se ritengo che nessuno sia all’altezza di rappresentarmi politicamente, perché dovrei votare? Per quale diritto/dovere? Quindi, non voto ed esprimo così la mia preferenza, che diventa il “voto” più importante, sul quale le forze politiche dovrebbero interrogarsi.
La maggioranza creata a tavolino da Salvini e Di Maio è un pastrocchio (non per scelta degli elettori) che rivela la perfetta incompetenza e la smania di vanagloriarsi di coloro che nella vita hanno accumulato storicamente solo fallimenti, istruzione in testa.
A voler essere onesti, è d'obbligo rilevare che Salvini con la Lega si è presentato alle elezioni con la coalizione di Centro Destra che (per scelta dei propri elettori) ha ottenuto, in percentuale di voti, il 37,50%, ovvero la maggioranza relativa. Il M5S ha chiuso la tornata elettorale con il 32,50%. Quindi, l’espressione della maggioranza dei consensi da parte degli elettori va al Centro Destra.
Ma Salvini ha tradito la sua coalizione e gli elettori ("Mai con i 5 Stelle", bofonchiava), pastrocchiando però con Di Maio (che "Mai con la Lega", sbraitava) e provocando premeditatamente il Presidente della Repubblica, a beneficio dei greggi dei Social.
Scopo? Creare odio, da sfruttare contestualmente alla somarizzazione delle masse.
Dopo una campagna elettorale con un voto avente quale fondamento l’odio (migranti, politici rubacchioni, Laura Boldrini, etc), il secondo round, sempre fondato sulla pericolosa politica dell’odio, vede vittime le massime istituzioni e, addirittura, la Costituzione della Repubblica Italiana, definita spesso dalla stampa straniera come la più bella del mondo.
Le classi sociali hanno vissuto i loro natali in varie epoche: classe aristocratica, classe imprenditoriale, classe operaia. Oggi sta crescendo a vista d’occhio una nuova classe: la Classe degli Asini, la più pericolosa.
E poi si parla di legittimità e di volontà popolare?
Nino Caliendo

L'illustrazione è tratta dal web e, non presentando indicazioni contrarie, è stata ritenuta di pubblico dominio

domenica 20 maggio 2018

La pericolosità psichica dell’insegnamento cattolico sui bambini. Modalità formative che tendono a deprimere l’identità psico-affettiva nella costituzione evolutiva della persona


“Vacciniamo” i bambini da una religione che li mette in croce


L’idea di un rapporto sui danni della dottrina cattolica è recente, nella forma di divulgazione popolare. Nella mia attività professionale e clinica ho avuto modo di verificare e raccogliere una serie di connessioni tra modalità formative che tendono a deprimere l’identità psico-affettiva nella costituzione evolutiva della persona e le inevitabili conseguenze nella determinazione del destino individuale e sociale dell’uomo. Il mondo reale è, infatti, una rappresentazione di ciò che è stato impresso nella fase costituente dell’Io. Alice Miller, per esempio, ne “La persecuzione del bambino” cerca con ansia di mettere in guardia gli educatori dagli effetti della pedagogia nera della religione. Ma la stessa razionalità è utile solo se possiamo educare a riconoscere gli stili formativi che producono un accumulo di cattiveria, di distruttività e di infelicità nell’uomo. L’insegnamento cristiano è falsamente improntato all’amore universale: basta guardare il simbolo genetico del cristianesimo, il crocifisso e ciò che esso rappresenta, per capire la componente di ambivalenza sadica e masochista che questo “amore” veicola nell’inconscio dei bambini.


Il sacrificio come premessa, l’esordio della vita nella colpa, l’inquietante percezione di un uso distorto dell’autorità del genitore, equiparato a Dio, nell’espropriare il corpo del figlio e nel farne l’oggetto da distruggere per le proprie incarnazioni mistiche. Quale amore ha bisogno di sacrifici umani? Può la salvezza dell’umanità derivare dalla disgrazia procurata a un incolpevole? Si tratta di perversione, di cannibalismo affettivo e domestico! Come può accadere che una tale deviazione della coscienza si affermi in modo così radicale nella cultura dell’Occidente? Perché l’intellettualità europea, salvo poche eccezioni, per lo più originate dall’ambiente di cultura ebraica, non sa rilevare l’evidenza di una tale incongruità con i precetti fondamentali del rispetto umano? Perché ci si ostina a ritenere degne di fede false acquisizioni razionali e a falsificare la storia stessa senza suscitare una opposizione netta tra coloro che si dicono laici? Ho cercato di dare le risposte a questi quesiti in due saggi: “Pinocchio eroe anticristiano. Il codice della nascita nei processi di liberazione” (Edizioni Sapere, Padova, 2000), e “Il furore di Nietzsche. La nascita dell’eroe e della differenza sessuale” (Cleup, Padova, 2005).
Ora, con l’estendersi dell’interesse su questi temi, al di fuori della tradizionale banalità dell’ateismo che cercava di dimostrare la non esistenza materiale di Dio, il gruppo dell’axteismo si è prefisso di registrare i danni della esistenza di Dio come categoria della mente e dell’educazione di massa. Dov’era Dio, si chiedono in tanti, mentre in Europa imperversavano i roghi crematori della Shoà? Il Dio cristiano e antigiudaico della tradizione era là! Logica conseguenza dell’odio che aveva seminato per secoli e anche, in quegli anni, sulle pagine dell’organo vaticano, la “Civiltà Cristiana”. Era assente solo sui banchi degli imputati a Norimberga, dove si è negata la verità inconfutabile che gli ebrei sono stati perseguitati in quanto tali – ebrei – da una identità culturale altra ed egemone: i cristiani!Mai il cristianesimo ha subito le conseguenze dei suoi insegnamenti ambigui, di un amore sadico, improntato alla sofferenza come valore e all’infelicità dell’esistenza reale. Da Annamaria di Cogne ai giovani assassini di Satana, la cronaca registra le forme del disagio radicato nelle istanze della religione che continua impassibile a rivendicare per sé il diritto all’egemonia sull’etica e sulla morale.
E’ invece evidente che la presenza dei valori cristiani (sopportazione, peccato, sangue e demonio) è stata l’unica istituzione sempre garantita nei luoghi del degrado umano ed economico, non solo non riuscendo ad apportare modifiche strutturali alle cause della sofferenza, ma legandosi in modo complementare e ambivalente con le dinamiche stesse dell’ingiustizia e dell’ignoranza. Soluzioni? Al di là di un auspicabile risveglio della ragione di fronte alle palesi deformità introdotte dalla religione cristiana, cattolica in particolare, nelle basilari nozioni di igiene degli affetti e del rispetto umano; al di là delle incredibilmente gravi (e in parte inesplorate) responsabilità storiche che un amore così immaturo ha inculcato nella soggettività dell’Occidente, resta ancora non risolto il nodo centrale della comprensione profonda di questo fenomeno. Non è sufficiente contrapporre il darwinismo al conato del creazionismo nelle tendenze regressive del presente. E’ necessario aprire gli armadi di una conoscenza così gravosa da recepire in termini estesi, da essere rifiutata largamente anche nelle fasce della popolazione “di sinistra” in Italia.
Dietro la religione e i suoi dettami di crudeltà oggettiva nei rapporti pedagogici tra generazioni, si legittima il motore stesso dell’alienazione sessuale della donna (quindi dell’intera umanità), la sua esclusione da una completa individuazione e responsabilità sociale. La mistificazione di questo importantissimo tema è tale da riferire l’ambito delle discussioni unicamente al conflitto tra sessi. Niente di più sbagliato. Lo studio dell’esegesi analitica del mito, come accade con lo studio dei sogni e del simbolismo in generale applicato alla letteratura e all’arte, rivela nel racconto cristiano (eucaristia, spirito santo e pos-sesso sulla figlia Maria, negazione del ruolo del padre, incarnazione nel corpo dei figli con le stimmate sessuali femminili del sangue e del dolore) l’estensione in termini socializzati della psicologia della Grande Madre intesa nel senso junghiano (Erich Neumann, Storia delle origini della coscienza”, Astrolabio).
L’alienazione della donna madre, unitamente all’enorme potere neuro-affettivo che il mistero del parto-creazione comunque le conferisce (nella fisiologia dei mammiferi), connota l’identità dell’Eterna Fattrice di una attribuzione divina da sempre riconosciuta nelle culture di ogni epoca, a partire dalle più remote. La religione in genere, in Occidente la religione cristiana, è esattamente l’espressione più coerente della psicologia della Grande Madre. Da qui deriva l’invisibilità e la radicale impunibilità delle istanze anche sadiche (ma ammantate di profonda affettività) del cristianesimo. Da qui l’assoluta incongruenza tra buon senso, ragione e fede. La madre può sbagliare, essere immatura negli affetti, esigere tributi di sangue, e tuttavia conservare intatta la forza del suo potere che le deriva dall’aver “pettinato” i neuroni e l’identità affettiva dei nati da lei, uomini e donne. Dalla natività di un essere destinato al rito di sangue e martirio, al controllo delle istanze sessuali e di generazione, alle perversioni mistiche del corpo martoriato esposte dalla ginecologia religiosa dell’arte sacra, la religione non è solo un’istanza del potere politico o culturale: essa è innanzitutto la realtà di una inveterata e radicata violenza domestica, una affezione profonda perseguita con tenacia anche da chi non si dice praticante e tuttavia, difende il cristianesimo nella sua essenza.
Per lo stesso motivo il cristianesimo ha resistito ad ogni critica razionale, anche se riconosciuta valida e dimostrata. Ma non è più lecito tollerare un uso anti-umano del potere degli affetti, diretto specialmente contro i bambini e la loro aspettativa di vita! Alla base di tutto ciò, c’è un paradosso intrinseco alla natura sessuale dell’umanità che evidenzia come solo la figlia, in quanto femmina, può divenire più grande e potente del suo creatore, che è la madre. Unicamente lei, non il maschio vezzeggiato, può procreare e mettere in mora il ruolo di potere generazionale della madre! Solo alla luce di questa premessa si possono comprendere i legami di senso che uniscono riti crudeli contro la giovane donna, che non è ancora madre, come l’infibulazione (rito di ingresso della giovane nel clan delle donne adulte), la cacciata con maledizione e colpa della figlia Eva dalla gratuità domestica per partorire con dolo e dolore, e – peggiore di tutte – lo spossessamento del corpo e della sessualità della figlia Maria da parte della madre spirito-santo, trinità cristiana che già incorpora il sistema intero di padre e figlio.
Alcuni lessici del linguaggio comune rivelano la natura matriarcale della Chiesa: “Don” è contrazione di “donna”, è anche il suono del batacchio sotto la gonna-campana, iconologia della madre che in sé trattiene il figlio-fallo, nella fattispecie il prete; “duomo” è la fusione di donna-uomo: i frati recano il cordone ombelicale ancora non reciso alla vita, le suore il velo placentale segno di possesso della madre; il divieto all’uso della sessualità sottolinea la centralità e l’obbedienza all’unico sesso della madre. Nel caso del racconto dei Vangeli, la giovane donna semplicemente viene privata del diritto di succedere alla madre nel potere di una autonoma procreazione; l’infelicità che ne consegue si riverbera nel rapporto con l’uomo, nel masochismo congenito che la lega al persecutore, nella depressione post-partum o sterilità. Maria non ha sesso e non ha un amante, che invece la tradizione ebraica conferisce ad Eva. Lo stesso tema del conflitto tra matrigna e figlia viene trattato, ma risolto (!), nelle fiabe: Cenerentola, la Bella Addormentata, Biancaneve.
L’entità unica matriarcale proposta dal modello cristiano imperversa, invece, nell’illusione di vivere due esistenze in una: la sua e quella della figlia che le appartiene per diritto di invidia (individia). Il figlio Cristo, esito nella figlia di questa mancanza di riconoscimento della proprietà sessuale, prodotto di un tale spossessamento, nato per caso inopinato (per virtù dello Spirito Santo e non di una libera scelta), non può che essere un… povero cristo! E tale sarà il suo destino. Sul suo corpo reso femminile con la ferita nel costato (da cui era nata Eva) e dagli attributi di innocenza, passività ed esclusione, convergono le istanze femminili irrisolte dell’infelicità e dell’immaturità affettiva. Lo scarico sul corpo mistico dell’uomo femminilizzato e mestruato (Cristo, Che Guevara o Padre Pio) costituisce il punto di saldatura e di scarico emotivo della innaturale fusione tra madre e donna (ma-donna), sempre a scapito della giovane e del rinnovo di generazione. Ecco che Cristo ha una funzione lenitiva attraverso la rappresentazione della sua morte nel ma-sacro (sacralità materna). In questo modo il cerchio mistico dell’incesto cristiano si alimenta di dolore, perversione e controllo.
Guai a toccare questa figura sanguinante, avvolta nel sudario della placenta sindone! Si tollera l’intollerabile pur di non riconoscere il conflitto tra generazioni al femminile! Cosa si può fare per porre rimedio a questa barbarie nella civiltà degli affetti? Provate voi a spiegare alle masse di “credini” (credenti passivi) e “fedenti” (credenti in cattiva fede) quali istanze innaturali e contrarie alla naturale emancipazione della sessualità si riproducono nella formazione pedagogica cristiana. Noi da tempo combattiamo una battaglia impari contro le istituzioni alienate dello sfruttamento che, conseguentemente e coerentemente con la disumanità del credo, si sono stabilizzate in accordo e reciproco sostegno con la religione. Non è forse vero che, in economia, ogni Azienda Madre controlla e possiede le azioni delle sue filiali? Non è forse vero che il nazismo (primato di nascita e madre-patria) e il razzismo fondino le loro ragioni sul diritto di sangue e di appartenenza forzata, che sono attributi del codice materno? E i misfatti sanguinosi delle “nostre cose”, nella tragica epica di Cosa Nostra, non sono forse ascrivibili ad una affiliazione di mafia intorno al corpo centrale del “mammasantissima”?
Non è semplice capire fino a che punto si estendano le implicazioni di una sub-cultura matriarcale degli affetti al tempo stesso potente, disumana e incontrollata. Essa confonde uomini e donne in una esistenza crudele e alienata. Chi riporta danni psicologici, in seguito a una certa dottrina, può essere recuperato? Occorre mettere in atto strategie di recupero e di consapevolezza in larghi strati della popolazione. Sempre Alice Miller dimostra la ineluttabile relazione tra formazione affettiva e qualità della vita. Tuttavia in Italia, non una sola ora di educazione alle ragioni della laicità è stata organizzata nei programmi scolastici nazionali! Eppure lo Stato italiano è nato su criteri di latinità pre-cristiana, la scienza (Giordano Bruno, Galilei) si è costituita intorno ad un nucleo anticristiano, il Rinascimento è stato possibile solo grazie alla riscoperta dei classici greci, l’antifascismo e la Liberazione non ha visto il Vaticano attivo contro i regimi, bensì schierato dall’altra parte.
Il meglio prodotto in Italia (compresa l’arte sacra, che non era certo frutto di stinchi di santo) è stato ispirato da una visione laica e democratica della vita e del corpo. Proporre la necessaria questione della emarginazione del cristianesimo nel novero delle opzioni del privato incontra oggi una resistenza fortissima, in tutti i settori. Nella migliore delle ipotesi si tende a sminuire il problema e a lasciare intatte le contraddizioni. Non si pensi tuttavia che questa sia una battaglia di retroguardia: è la prima volta che si pone in modo cosciente e radicale la proposta concreta di rendere visibile al largo pubblico le responsabilità, non solo storiche, ma formative e causali del cristianesimo. Il problema è la fede in sé o l’apparato che ogni religione monoteista costruisce intorno al proprio credo? Il credo monoteista sta ad indicare la centralità del ruolo sessuale della madre (anche se incarna corpi maschili) nel costruire la dinamica degli avvenimenti della realtà. Perfino la storia recente dimostra che la religione è più efficace della politica nel determinare gli eventi; per questo è importante che si voglia sapere dei reali contenuti trasmessi.
Di per sé la religiosità è un fattore umano compatibile con la civiltà, a patto che si sia consapevoli delle istanze che si veicolano nel racconto di fede che poi diviene prescrizione e istanza morale. Sarebbe altresì necessario che le rappresentazioni religiose e rituali rimanessero tali, ossia distinte dall’imposizione di un credo che confonde il simbolico con il reale. Per esempio, il fatto di celebrare la festa della nascita a dicembre con il rito dei doni da parte di Babbo Natale non deve imporre la necessità dell’inganno sulla reale esistenza di un personaggio della fantasia come se fosse reale! Una cosa è la naturale progressione che i bambini attuano nel distinguere la fantasia dalla realtà, altra cosa è la pelosa e deleteria attitudine degli adulti di vedere realizzate le proprie istanze di insoddisfazione infantile facendo credere per forza l’esistenza del falso. Forse che non si può giocare o godere di un rito gioioso sapendo che è un rito in quanto tale?
Le religioni monoteiste non sono uguali negli effetti delle istanze da esse inoculate fin dalla più tenera età. Non sempre è facile riconoscere, nel confronto, il grado di pericolosità; infatti, concorrono altri fattori nelle società a influenzare gli effetti del credo. In Occidente la cultura laica e razionalista ha attenuato enormemente gli effetti già deleteri del cristianesimo; oltre alla secolare reclusione e sterminio degli ebrei, si pensi all’analogo scempio attuato nelle Americhe: è un vizio congenito al cristianesimo, la crudeltà. Nei paesi arabi l’islamismo non si giova di una analoga progressione sociale. L’ebraismo ha invece individuato le corrette radici del problema, proponendosi in termini di patto (Akedà) tra generazioni. Sempre la madre si pone nel ruolo di Dio (l’appartenenza ebraica è matrilineare), ma conferisce il potere della legge terrena (Dio verso Mosè) al ruolo paterno. L’esatto opposto della regressione cristiana, che rimanda il padre nella vacuità dei cieli o nel pleonasmo di un vecchio e sterile sposo. Nell’ebraismo la madre ideale è colei che è disposta a separarsi dal figlio purché egli viva (il giudizio di Salomone); nel cristianesimo la madre è entità globale, indistinta, inglobante e distruttiva, come la Grande Madre del clan o gregge pre-sociale.
Sergio Martella
Ogni religione rimane comunque una opzione implicita della coscienza su temi che invece sono alla portata della comprensione umana. Meglio sarebbe una civiltà fondata sulla capacità di rappresentare, senza obbligo di fede, tutte le istanze dell’animo umano. La tradizione dei Greci in questo è maestra. Dibatterne pubblicamente? Personalmente non esito a rischiare attacchi personali o scomuniche di varia natura, poiché ritengo una battaglia di assoluta civiltà rendere visibili gli effetti dell’ignoranza e della malafede. Bisogna battersi in tutti i campi della società per affermare una civiltà ed una igiene degli affetti. So per certo che è possibile. Se qualcuno vuole reagire con la consueta violenza già riscontrata nella storia di fronte agli avanzamenti della coscienza e della società, è avvisato: noi siamo pronti. Esiste una minoranza numerica di individui che è già maggioranza qualitativa nel distinguere e rendere visibili i fantasmi dell’inconscio retaggio di una aggressività non risolta. Si tratta di individuare i percorsi di una emancipazione ulteriore per adeguare la consapevolezza umana allo sviluppo della tecnologia e all’inedito potere che essa conferisce all’uomo. Le nuove potenzialità richiedono una dilatazione della coscienza per far sì che ciò che abbiamo costruito non sia rivolto contro di noi, ma a vantaggio di una integrazione con la natura, di cui siamo e restiamo una cosciente emanazione.

Sergio Martella, dichiarazioni rilasciate a “Cristianesimo.it” per l’intervista “Tesi sull’oggettiva e palese pericolosità psichica dell’insegnamento cristiano”, ripresa dal blog “La Crepa nel Muro” dell’11 agosto 2014. Psicologo e psicoterapeuta, il professor Martella è docente presso la facoltà di medicina e chirurgia dell’Università di Padova

Contenuti e immagini da Idee Libre

venerdì 4 maggio 2018

La Chiesa Cattolica è a favore della pena di morte e lo dichiara nel Catechismo


Dottrina cattolica odierna: favorevole alla pena di morte e le contraddizioni

Il Catechismo della Chiesa Cattolica (1997) parla della pena di morte all'interno della trattazione sul quinto comandamento, "Non uccidere", e, più specificamente, nel sottotitolo che tratta della legittima difesa.
In questo contesto dice (n. 2266-2267):
2266: Corrisponde ad un'esigenza di tutela del bene comune lo sforzo dello Stato inteso a contenere il diffondersi di comportamenti lesivi dei diritti dell'uomo e delle regole fondamentali della convivenza civile. La legittima autorità pubblica ha il diritto ed il dovere di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto. La pena ha innanzi tutto lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla colpa. Quando è volontariamente accettata dal colpevole, essa assume valore di espiazione. La pena poi, oltre che a difendere l'ordine pubblico e a tutelare la sicurezza delle persone, mira ad uno scopo medicinale: nella misura del possibile, essa deve contribuire alla correzione del colpevole”.
2267: L'insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell'identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l'unica via praticabile per difendere efficacemente dall'aggressore ingiusto la vita di esseri umani.
Se invece i mezzi incruenti sono sufficienti per difendere dall'aggressore e per proteggere la sicurezza delle persone, l'autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla dignità della persona umana...”
La pena di morte in Città del Vaticano venne rimossa dalla Legge Fondamentale solo il 12 febbraio 2001, forse per convenienza UE, visto che l’Unione Europea non ammette la pena capitale e, di conseguenza, gli Stati che la prevedono.
Nel giugno 2004, l'allora cardinale Joseph Ratzinger, attuale papa Benedetto XVI, inviò, in qualità di prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, una lettera al cardinale Theodore Edgar McCarrick, - arcivescovo di Washington, - e all’arcivescovo Wilton Daniel Gregory, - presidente della Conferenza Episcopale degli Stati Uniti, - nella quale affermava che può tuttavia essere consentito [...] fare ricorso alla pena di morte


La pena di morte nella storia cristiana e cattolica

Nella Bibbia

Nella Bibbia sono elencate situazioni in cui nelle leggi, che Dio dà a Mosé per esporle al popolo ebraico, si stabilisce la pena capitale come punizione per determinate colpe. ad esempio, nell'Antico Testamento è scritto:
Colui che colpisce un uomo causandone la morte, sarà messo a morte  (Esodo 21,12).
Nell'Antico Testamento (Genesi, 2,12-15), esistono alcuni passi in cui Dio condanna la vendetta umana, minacciando punizioni peggiori (“sette volte” e “settanta volte sette”) per chi avesse ucciso Caino e Lamech.
Diversi passi, in prevalenza dell'Antico Testamento, affermano la legittimità della pena di morte quando è violata la legge di Mosé. A questi si aggiungono gli episodi di guerra e della storia del popolo eletto, dove i nemici periscono per volontà divina. Riguardo alla violazione della legge ebraica, nella Lettera agli Ebrei 10,28: “Quando qualcuno ha violato la legge di Mosé, viene messo a morte senza pietà sulla parola di due o tre testimoni”. In Levitico 24,16 viene messo a morte “Chi bestemmia il nome del Signore”, in Levitico 20,10 chi commette adulterio, in 27,29 “Nessuna persona votata allo sterminio potrà essere riscattata; dovrà essere messa a morte”, e in Levitico 24,17 “Chi percuote a morte un uomo”. In Esodo 21,17 viene messo a morte chi maledice il padre o la madre.
Il passo è ripreso nel Nuovo Testamento, da Vangelo di Marco 7,10: “...infatti disse: Onora tuo padre e tua madre, e chi maledice il padre e la madre sia messo a morte”. In Numeri 35,30, si afferma che non si può accettare un prezzo di riscatto da un omicida: “Se uno uccide un altro, l'omicida sarà messo a morte in seguito a deposizione di testimoni, ma un unico testimone non basterà per condannare a morte una persona. Non accetterete prezzo di riscatto per la vita di un omicida, reo di morte, perché dovrà essere messo a morte”.
La morte del colpevole avveniva per lapidazione. Questa forma di esecuzione coinvolge tutta la comunità locale adulta, che collettivamente è chiamata ad applicare la legge, e risparmia l'individuazione di un singolo come boia.
Nel Nuovo Testamento, Gesù richiama più volte al perdono e condanna l'episodio della lapidazione della donna adultera:
Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei” (Giovanni 8,7).

Pensatori cristiani

Sant'Agostino e San Tommaso d'Aquino sostengono la liceità della pena di morte sulla base del concetto della conservazione del bene comune. L'argomentazione di Tommaso d'Aquino è la seguente:
Come è lecito, anzi doveroso, estirpare un membro malato per salvare tutto il corpo, così quando una persona è divenuta un pericolo per la comunità o è causa di corruzione degli altri, essa viene eliminata per garantire la salvezza della comunità” (Summa theologiae II-II, q. 29, artt. 37-42).
Il teologo sosteneva, tuttavia, che la pena andasse inflitta solo al colpevole di gravissimi delitti, mentre, all'epoca, veniva utilizzata con facilità e grande discrezionalità.
Lo Stato pontificio ha mantenuto nel suo ordinamento la pena di morte fino al XX secolo.

Dottrina cattolica odierna

Il Catechismo della Chiesa Cattolica (1997) parla della pena di morte all'interno della trattazione sul quinto comandamento, "Non uccidere", e, più specificamente, nel sottotitolo che tratta della legittima difesa.
In questo contesto dice (n. 2266-2267):
2266: Corrisponde ad un'esigenza di tutela del bene comune lo sforzo dello Stato inteso a contenere il diffondersi di comportamenti lesivi dei diritti dell'uomo e delle regole fondamentali della convivenza civile. La legittima autorità pubblica ha il diritto ed il dovere di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto. La pena ha innanzi tutto lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla colpa. Quando è volontariamente accettata dal colpevole, essa assume valore di espiazione. La pena poi, oltre che a difendere l'ordine pubblico e a tutelare la sicurezza delle persone, mira ad uno scopo medicinale: nella misura del possibile, essa deve contribuire alla correzione del colpevole”.
2267: L'insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell'identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l'unica via praticabile per difendere efficacemente dall'aggressore ingiusto la vita di esseri umani.
Se invece i mezzi incruenti sono sufficienti per difendere dall'aggressore e per proteggere la sicurezza delle persone, l'autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla dignità della persona umana...”
La pena di morte in Città del Vaticano venne rimossa dalla Legge Fondamentale solo il 12 febbraio 2001, forse per convenienza UE, visto che l’Unione Europea non ammette la pena capitale e, di conseguenza, gli Stati che la prevedono.
Nel giugno 2004, l'allora cardinale Joseph Ratzinger, attuale papa Benedetto XVI, inviò, in qualità di prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, una lettera al cardinale Theodore Edgar McCarrick, - arcivescovo di Washington, - e all’arcivescovo Wilton Daniel Gregory, - presidente della Conferenza Episcopale degli Stati Uniti, - nella quale affermava che può tuttavia essere consentito [...] fare ricorso alla pena di morte

Se l’art. 2261 del Nuovo Catechismo afferma che: “La Scrittura precisa la proibizione del quinto comandamento: non far morire l’innocente e il giusto” (Es 23,7), è consequenziale che: “Il comandamento ‘Non uccidere’ ha valore assoluto quando si riferisce alla persona innocente” (Evangelium vitae, n° 57) e valore relativo quando si riferisce alla persona colpevole.
Infatti, l’art. 2267 del Nuovo Catechismo conferma che: “L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’ identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte”.
La Chiesa, dunque, riconosce all’autorità pubblica il potere di applicare la pena di morte, nei confronti delle persone colpevoli, perché la “Scrittura” e, più precisamente, il versetto 7 del capitolo 23 dell’Esodo “non far morire l’innocente e il giusto“, preciserebbe che il comandamento “Non uccidere” è stato formulato da Dio per proteggere la vita delle persone innocenti, ma non le colpevoli.
Ma la Chiesa è proprio certa che questa dottrina così inumana sia conforme alla legge divina e non sia, piuttosto, frutto di conformazione umana?
Se di fronte alla legge umana, tutte le persone sono considerate uguali: “La legge è uguale per tutti”, quanto più, tutte le persone, dovrebbero essere considerate uguali di fronte alla legge di Dio, che possiede carattere universale?
Mentre, per il Catechismo, di fronte alla legge divina: “Non uccidere”, le persone non sono considerata tutte uguali, ma, a priori, separate le buone dalle cattive e proprio le cattive, per le quali Dio ha istituita la legge, defraudate dai benefici.
In realtà, la “Scrittura” di cui parla il Catechismo, che “precisa la proibizione del quinto comandamento”, si riduce ad un versetto dell’Antico Testamento: “Non far morire l’innocente e il giusto“, formulato, peraltro, in modo incompleto, infatti, citato per intero: “Starai lontano dalla parola falsa e non ucciderai l’innocente e il giusto perché io non dichiaro giusto il colpevole“ (Es 23,7), rivela la vera intenzione dell’autore sacro, che non è certo quella di voler precisare la proibizione del quinto comandamento, come dichiara il Catechismo, ma formare le coscienze umane al giusto comportamento morale che devono assumere i soggetti giuridici nell’ambito di un processo penale: Dio vieta, categoricamente, ai giudici e ai testimoni, di ricorrere a parole false per deviare il corso della giustizia, provocando la condanna dell’innocente e l’assoluzione del colpevole. Intenzione che, l’autore sacro sottolinea anche con il versetto precedente: “Non farai deviare il giudizio del povero, che si rivolge a te nel suo processo“ (Es 23,6).
Tra l’altro, non spetta all’Antico Testamento stabilire le verità divine in materia di fede e di morale, ma al Nuovo Testamento e in esso non vi è un solo versetto che autorizzi la Chiesa a legittimare la pena di morte, una pena di natura vendicativa, assolutamente contraria al perdono, il quale costituisce il DNA dello spirito cristiano.
Unitamente alla pena di morte, anche la “tortura” è stata sempre considerata dalla Chiesa moralmente lecita: solo con il Concilio Vaticano II è stata, finalmente, esclusa e condannata.
Intanto, prima che fosse rigettata, un numero infinito di persone, che solo Dio conosce, ha dovuto soffrire atrocità incredibili e tante di esse sono morte a causa di questa dottrina legittimata dalla Chiesa.
Ora, però, che il Concilio si è espresso in modo autentico e ufficiale contro tutte: “...le torture inflitte al corpo alla mente...ledono grandemente l’onore del creatore” (Gaudim et spes n° 27) può la Chiesa continuare a considerare lecita la pena di morte? Non è forse la pena di morte una pratica di tortura inflitta al corpo e alla mente?

Il Catechismo e la pena di morte

Cesare Beccaria , a proposito della pena di morte, nel pamphlet "Dei delitti e delle pene", nel 1764, scriveva: "Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscano l’omicidio, ne commettano uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordini un pubblico assassinio".
Il Granducato di Toscana, nel 1786, fu il primo Stato al mondo ad abolire la pena di morte.
Su iniziativa dell’Italia, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il 18 Dicembre 2007, ha approvato la risoluzione per la moratoria universale contro la pena di morte nel mondo.
Ma, il punto 2267 de "Il nuovo catechismo della Chiesa cattolica" (1992, rivisto nel 1999) così recita:
"L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude (...) il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani (...). Oggi (...) i casi di assoluta necessità di soppressione del reo sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti” (quest’ultimo paragrafo, aggiunto successivamente, proviene dall’enciclica di Giovanni Paolo II "Evangelium vitae" del 1995).
Ecco l’assurdo! La Chiesa, nella sua dottrina fondamentale, il Catechismo, mantiene ancora la pena di morte, anche se edulcorata dall’aggiunta di un paragrafetto dell’enciclica sopradetta.
Le lancette del tempo sembrano essersi fermate, meno male che la... Santa Inquisizione è lontana!

Eppure, nel Nuovo testamento, Gesù invoca il perdono nell’episodio della lapidazione della donna adultera: "Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei” (Giovanni 1 cap 8, 7).
E Giovanni Paolo II dichiara, durante la visita negli USA, che la Chiesa è "incondizionatamente a favore della vita" e che, essendo la nostra società "in possesso dei mezzi per proteggersi (...), la pena si morte è crudele e non necessaria".
Insomma, sembra l’applicazione completa del V comandamento: non uccidere. Ma non è così. Infatti, quando si afferma che sono rari i casi "di assoluta necessità di soppressione del reo", si ammette che in qualche caso la pena di morte è riconosciuta.
Qualcuno scrive che questo vale per la legittima difesa (punto 2266). Ma quanti innocenti, nel Far West del mondo civilizzato, vengono uccisi in nome della legittima difesa? Quando, allora, si può parlare di legittima difesa, ovvero quale tipo di reato autorizza alla pena capitale?
E, se "la pena di morte è crudele e non necessaria", perché viene ancora mantenuto nel Catechismo il punto 2267, che rappresenta un affronto all’etica del perdono e della misericordia e lascia l’impressione che si possa, in qualche caso, utilizzarlo?

Il Catechismo Universale e la pena di morte
Si è fatto un gran discutere, in ambienti pacifisti e non-violenti, come, ad esempio Amnesty International, circa le motivazioni che possono aver indotto la chiesa cattolica ad accettare - come risulta dal paragrafo 2266 del recente Catechismo Universale (CCC) - la pena di morte, seppure "in casi di estrema gravità".                                                                              Vediamo le prime.
Al paragrafo 2259, dicono gli autori del CCC: "La Scrittura, nel racconto dell'uccisione di Abele da parte del fratello Caino, rivela, fin dagli inizi della storia umana, la presenza nell'uomo della collera e della cupidigia, conseguenze del peccato originale".
Il riferimento al cosiddetto "peccato originale", ogni qualvolta si deve cercare di spiegare la causa di taluni malesseri sociali, è praticamente una costante nella teologia cattolica.
Al paragrafo successivo gli autori ricordano che "l'alleanza [vetero testamentaria] di Dio e dell'umanità è intessuta di richiami al dono divino della vita umana e alla violenza omicida dell'uomo"(2260).
Dei due "richiami", quello che più preme sottolineare agli autori non è il primo, - come sarebbe naturale per una istituzione (la Chiesa) che predica la legge dell'amore -, bensì il secondo. E di questo l'aspetto da essi considerato più significativo non è tanto il puro e semplice "divieto di non uccidere", quanto piuttosto il divieto di uccidere "l'innocente e il giusto" (2261): peccato, questo, "gravemente contrario alla dignità dell'essere umano".
Ora, proviamo a chiederci: per quale ragione la chiesa cattolica ritiene che "l'uccisione volontaria di un innocente è gravemente contraria alla dignità dell'essere umano" (2261)? Cioè, per quale ragione essa non si limita ad affermare che l'essere umano in quanto tale, santo o peccatore che sia, non meriterebbe mai di morire in modo violento?
La Chiesa Romana, - qui autorevolmente rappresentata da un Catechismo Universale, -non è in grado di trarre le logiche conseguenze dalla sua teoria del peccato originale, perché finirebbe in un groviglio inestricabile di contraddizioni. A noi, invece, interessa mettere in luce il seguente, inevitabile, sillogismo: se la natura umana è intrinsecamente malvagia, allora anche Abele era "colpevole", ma se egli era "colpevole", il delitto di Caino, in sé pur grave, va ricompreso sulla base di ogni possibile attenuante, onde ostacolarne la reiterazione. Qui, naturalmente, non è il caso di verificare ciò che Caino e Abele simbolicamente rappresentavano nel racconto del Genesi. Dobbiamo limitarci a considerazioni astratte.
Quel che è certo è che nel racconto biblico la "dignità dell'essere umano" dipendeva da altro rispetto alla legge, poiché Caino fu punito prima che venisse formulato il divieto del quinto comandamento.
Non solo, ma egli venne "marchiato" proprio per impedire che qualcuno commettesse un secondo delitto, cioè che usasse vendetta contro di lui. Se a quel tempo avessero dato per scontata l'intrinseca malvagità umana, alla prima manifestazione di questa non ci sarebbe stata altra soluzione che l'esecuzione capitale.
Sicché si può tranquillamente affermare con A. Schenker che ai tempi di Caino era la dignità dell'uomo ad essere considerata intrinseca all'uomo stesso. Il peccato originale, cioè la violazione delle modalità del comunismo primitivo, se comportò la nascita dell'individualismo, non determinò affatto l'impossibilità di opporvisi. Ancora non esistevano né l'idea dell'espiazione né il principio della retribuzione come base del sistema della pena. Il divieto di uccidere Caino sta appunto a testimoniare che, nonostante l'emergere dell'individualismo, i princìpi democratici del collettivismo non erano stati dimenticati.
Viceversa, il divieto mosaico fa la sua comparsa in un contesto dove, evidentemente, per rispettare la persona non era più sufficiente rifarsi alle tradizioni orali, ma occorreva una legge scritta: segno, questo, che il distacco dai princìpi del comunismo primitivo era diventato progressivo, forse irreversibile. Di qui, l'esigenza d'imporre al colpevole una pena proporzionata e di risarcire la vittima del danno subìto. La giustizia, sempre meno possibile sul piano sociale, doveva almeno apparire su quello giuridico, cioè su quello formale della legge.
Ora, prima di rispondere adeguatamente alla domanda che sopra ci siamo posti, dobbiamo continuare a ripercorrere l'analisi del CCC, che si sposta dall'Antico Testamento (A.T.) al Nuovo, esaminando la figura chiave di Gesù Cristo.
Per gli autori del CCC, Cristo non sarebbe che un "nuovo Abele" che porge l'altra guancia, ama i propri nemici, non si difende da chi lo accusa ingiustamente. etc (2262).
Dopo aver dedicato tre paragrafi (2259-61) al V.T., il CCC ne dedica uno solo al Nuovo. Perché? Semplicemente perché si vuole far apparire il Cristo come un "perfezionatore" del divieto mosaico.
Pur di dimostrare che l'uomo è intrinsecamente malvagio, Cristo, - secondo il CCC, - avrebbe non solo vietato l'ira, l'odio e la vendetta, oltre che naturalmente l'omicidio, ma si sarebbe anche offerto volontariamente come "agnello sacrificale" per i peccati degli uomini. Egli dunque, in un certo senso, sarebbe stato vittima della sua stessa "legge dell'amore assoluto", che gli impediva di trasformarsi in "giustiziere dei malvagi".
Come si può notare, questa interpretazione della vita di Cristo è assolutamente fantastica. La chiesa romana non ha qui saputo cogliere la fondamentale differenza dalla legge mosaica che i vangeli rappresentano, per i quali il "divieto di uccidere" è una contraddizione in termini, finché non si pongono le basi sociali che tolgano al delitto le sue motivazioni di fondo.
In effetti, se nel mentre si pone il divieto non ci si preoccupa di creare una società veramente democratica, quel divieto, alla lunga, non sortirà alcun effetto. E, viceversa, se si ha quella preoccupazione, il divieto è altrettanto inutile, poiché non sarà in virtù di esso che i cittadini si comporteranno in maniera non-violenta.
A parte questo, la Chiesa Romana non ha mai neppure capito (o non lo ha mai voluto capire) il motivo per cui il Cristo si lasciò giustiziare senza reagire. Lungi dal pensare che il potere dominante avrebbe più facilmente rinunciato al proprio arbitrio, vedendo un innocente salire tranquillamente sul patibolo, il Cristo deve, invece, aver atteso (invano, purtroppo) che la propria liberazione fosse il frutto di una convinzione largamente popolare, solo in virtù della quale si sarebbe sia potuto vincere il dominio romano che costruire una nuova società civile.
Imporre il proprio progetto democratico con colpi di stato, atti terroristici e cose simili non avrebbe certo significato realizzare un'alternativa alla logica del potere dominante (romano o ebraico che fosse).
Ora, finalmente, possiamo rispondere alla suddetta domanda, se il lettore non l'ha già fatto per contro proprio. La Chiesa è favorevole alla pena di morte sostanzialmente per questa ragione di tipo "etico-religioso": essendo la natura dell'uomo intrinsecamente malvagia, la società ha il diritto, nei confronti di chi cerca di contenere tale malvagità in una condotta il più possibile irreprensibile e, nonostante questo, viene ucciso, di considerare la sua morte un delitto assolutamente imperdonabile.
In altre parole, è intollerabile per la chiesa veder uccidere un "innocente", colui cioè che, meglio di altri, combatte contro gli effetti deleteri del peccato originale (ma anche colui che, essendo ancora troppo giovane d'età, non ha potuto sperimentare su di sé gli effetti o le tentazioni di quella colpa). "L'omicida e coloro che volontariamente cooperano all'uccisione commettono un peccato che grida vendetta al cielo", specie nei casi di "infanticidio, fratricidio, parricidio e uccisione del coniuge" (2268).
Si deve, però, andare al paragrafo 1867 per accorgersi che fra i "peccati che gridano al cielo" non vi è solo l'omicidio di Abele o la licenziosità dei Sodomiti, ma anche "il lamento del popolo oppresso in Egitto; il lamento del forestiero, della vedova e dell'orfano". Infine, "l'ingiustizia verso il salariato".
Ma, la cosa più singolare di tutta questa esegesi del CCC, circa il divieto mosaico e la morte di Gesù, è che nella seconda parte del capitolo (quella dedicata alla "legittima difesa") - e qui veniamo alla motivazione più propriamente politica, - la Chiesa romana, servendosi delle sentenze dell'Aquinate, arriva a formulare cose del tutto antievangeliche, che peggiorano persino la durezza della legge mosaica, la quale prevedeva la pena di morte per i trasgressori di alcuni comandamenti.
Sulla base della motivazione vista sopra, la Chiesa non ha espresso un parere chiaramente favorevole alla pena di morte. Essa, infatti, si rende conto che, in quanto istituzione "religiosa", dev'essere sempre pronta al perdono.
Tuttavia, la trattazione religiosa dell'argomento è stata condotta con abile maestria, evitando di esprimere "giudizi di valore" categorici, sia per mostrare che il divieto mosaico "ha una validità universale: obbliga tutti e ciascuno, sempre e dappertutto" (2261), per cui la sua trasgressione non può che comportare gravissime conseguenze, sia per suscitare nel lettore un senso di forte riprovazione nei confronti del fatto che, nonostante la palese innocenza di Gesù, vi furono ugualmente delle persone disposte a crocifiggerlo.
Come restare indifferenti al cospetto di un'ingiustizia così grande? Il fatto che Cristo non abbia voluto difendersi, non implica che nessuno debba farlo. Ciò che sul piano etico-religioso può apparire inaccettabile, può non esserlo sul piano gius-politico.
Infatti, "l'amore verso se stessi resta un principio fondamentale della moralità. E', quindi, legittimo far rispettare il proprio diritto alla vita", "poiché, - come dice Tommaso d'Aquino, - un uomo è tenuto di più a provvedere alla propria vita che alla vita altrui" (2264).
Curiosa questa citazione dell'illustre Dottore della Chiesa. Egli ha, senza dubbio, ragione quando afferma che "se nel difendere la propria vita uno usa maggiore violenza del necessario, il suo atto è illecito". Ma che dire del fatto che la legittima difesa venga invocata per tutelare un diritto esclusivamente soggettivo? Da una Chiesa che pretende di fare dell'ideale "divino" la sua raison d'être, sinceramente, ci si aspettava qualcosa di più sublime.
In effetti, se la legittima difesa è il modo migliore per garantire un proprio diritto, cosa dover pensare di quanti, nella storia, vi hanno rinunciato per poter meglio affermare un "bene comune", cioè un valore, un ideale, un "diritto", se si vuole, o, comunque, una causa non puramente soggettiva? Cosa pensare di coloro che, liberamente e consapevolmente, non perché desiderosi di morire martiri à tout prix, hanno preferito l'idea del sacrificio personale a quella della legittima difesa? Erano pazzi, ingenui, illusi o che altro? Il valore etico (umano, ontologico) di una scelta esistenziale, può essere misurato in termini meramente giuridici?
Quando poi ci si addentra sul piano più propriamente politico-istituzionale, i limiti della chiesa cattolica si evidenziano in tutta la loro crudezza. Se già avevamo messo in dubbio il valore assoluto della legittima difesa (che va comunque salvaguardata) in nome dell'interesse soggettivo, ora ci pare ancor più fuorviante l'affermazione secondo cui la legittima difesa va considerata anche come un dovere da parte di chi "è responsabile della vita altrui" (2265).
Come spesso succede le parole che si usano non hanno mai un senso univoco, inequivocabile, ma sono sempre soggette a fraintendimenti, anche quando si cerca di essere il più possibile aderenti alla realtà, il più possibile "scientifici": cioè, esiste sempre la possibilità di dare alle parole un senso opposto a quello voluto, anche contro la propria volontà, o, comunque, esiste sempre la possibilità che qualcuno non ci capisca o non ci voglia capire. E così qui: chi metterebbe in dubbio che le autorità costituite hanno il dovere di usare lo strumento della legittima difesa per tutelare l'incolumità (non solo fisica) dei propri cittadini? Ma se noi dicessimo: le autorità costituite, nell'adempiere al dovere di difendere i cittadini, hanno il diritto di sostituirsi alla loro volontà, non susciteremmo forse delle perplessità?
La frase incriminata dalle associazioni pacifiste è stata la seguente: "la chiesa ha riconosciuto fondato [sottinteso: "da sempre"] il diritto e il dovere della legittima [o semplicemente "costituita"?] autorità pubblica di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto, senza escludere, in casi di estrema gravità, la pena di morte" (2266).
Si noti il sofisma dell'espressione "pene proporzionate": forse il popolo può impedire, nella concezione politica della Chiesa, che lo Stato usi pene sproporzionate? E come lo potrebbe, visto e considerato che, per la Chiesa, lo Stato è soggetto non alla "volontà popolare", ma solo alle "leggi" (1903), che devono essere conformi a "un ordine prestabilito da Dio" (1901)?
Se la "volontà popolare" fosse il principio fondamentale dello "Stato di diritto", la pena di morte potrebbe forse essere considerata una "pena proporzionata" a un qualche particolare delitto? Sarebbe forse giusto dare per scontato che, ad un certo punto, bisogna assolutamente negare al colpevole qualunque possibilità di pentimento, ritenendolo unico vero responsabile del suo crimine? E' forse questo l'insegnamento del Cristo nell'episodio della "donna adultera" (Gv. 8,1ss.)?
Il fatto è che,  - secondo gli autori del CCC, - la società (e, quindi, la Chiesa) deve, comunque, difendersi da chi la minaccia con l'uso della forza. Su questo, il CCC è molto esplicito: "i detentori dell'autorità [qui considerati "sacri e inviolabili"] hanno il diritto di usare le armi per respingere gli aggressori della comunità civile..." (2266).
La chiesa non vuole prospettare, neanche sul piano ipotetico, l'idea che gli aggressori si comportino così proprio perché si appellano al principio della "legittima difesa" e che i veri aggressori possano in realtà essere le stesse autorità costituite. "La pena ha lo scopo di difendere l'ordine pubblico e la sicurezza delle persone" (2266), sentenzia il CCC. Non ha, quindi, senso chiedersi se tale difesa sia "sempre" lecita o se non sia meglio mettere in discussione il valore del cosiddetto "ordine pubblico".
Thomas More, martire della libertà di coscienza, santificato dalla Chiesa romana nel 1935, disse nella sua Utopia: gli Stati fondati sulla proprietà privata e il denaro "allevano dei ladri per poi punirli con la morte".
F. Engels, tre secoli dopo, dirà la stessa cosa in La situazione della classe operaia in Inghilterra: "Se la società toglie a migliaia di individui il necessario per l'esistenza...; se mediante la forza della legge li costringe a rimanere in tali condizioni, finché non sopraggiunga la morte... questo è assassinio... contro il quale nessuno può difendersi... perché non si vede l'assassino, perché questo assassino sono tutti e nessuno, perché la morte della vittima appare come una morte naturale e perché esso non è tanto un peccato di opera, quanto un peccato di omissione".
Naturalmente, gli esegeti più ipocriti sostengono che la Chiesa si limita a "riconoscere" agli Stati l'uso estremo della pena di morte, senza farsi sua diretta sostenitrice. Ciò in realtà è falso, sia perché la Chiesa ha abolito, de jure, in Vaticano tale forma di condanna solo nel 1969 (per comodità affaristica di riconoscimenti nell’Unione Europea), sia perché la necessità di tale pena si evince, - come si è visto, - dai suoi stessi argomenti di tipo religioso, sia perché, infine, il Vaticano assai raramente (o mai?) si è pronunciato contro gli Stati che comminano sentenze capitali (opposizioni alla pena di morte è possibile riscontrarle solo in chiese locali o nazionali, come, ad esempio, nella Commissione per la Vita della Conferenza Episcopale Cattolica degli USA).
In realtà, a queste conclusioni assai poco democratiche, si perviene quando il problema della responsabilità penale viene affrontato in termini puramente idealistici o giuridici, senza tener conto di alcun riferimento storico o sociale concreto.
"La pena, - dice il CCC, - ha valore di espiazione" (2266), in quanto il colpevole è solo colpevole. Il riferimento qui và soprattutto al caso dell'omicidio volontario, per il quale non esistono attenuanti. Solo quando si parla di quello involontario (come se, sul piano etico, si potesse fare una distinzione così precisa), gli autori del CCC fanno un'annotazione complementare usando i caratteri piccoli: "Tollerare, - viene detto, - da parte della società umana, condizioni di miseria che portano alla morte senza che ci si sforzi di porvi rimedio, è una scandalosa ingiustizia e una colpa grave"(2269). La Chiesa qui intende riferirsi a coloro che usano "pratiche usuraie e mercantili". Costoro, indirettamente (solo indirettamente in una società capitalistica?) "commettono un omicidio".
Il CCC, insomma, non si preoccupa di "capire" il crimine di chi, sottoposto a condizioni di vita disumane, reagisce istintivamente facendosi giustizia da sé. Non si preoccupa minimamente di giustificare coloro che, sottoposti alle medesime condizioni, ad un certo punto decidono di organizzarsi politicamente per rovesciare i poteri costituiti. Si preoccupa soltanto di trovare dei "colpevoli", siano essi volontari o involontari, diretti o indiretti, lasciando da parte tutte le responsabilità che possono avere gli Stati e le istituzioni di potere, nonché i gruppi sociali dominanti di una determinata società.
Ormai, come ognuno si sarà certamente accorto, le parole non hanno più alcun significato. La Chiesa è disposta ad affermare tutto ed il contrario di tutto, cioè tutto quanto fa parte del suo impianto strettamente conservatore e, per essere più credibile, alcune cose che fanno parte dell'ideologia laica e democratica.
Il problema non sta più nella scelta delle parole, ma solo nell'atteggiamento che il credente deve tenere nei confronti della Chiesa. E l'atteggiamento giusto, a quanto pare, visto che nessun alto esponente della Curia vaticana l'ha contestato, può essere considerato quello delle cattolicissime Filippine, il cui Parlamento, il 23 febbraio 1993, ha reintrodotto, nonostante l'opposizione della Conferenza Episcopale Filippina, la pena di morte, dopo averla abolita nel 1987, proprio facendo leva sulle affermazioni del Catechismo Universale.
Contenuti tratti da: http://www.homolaicus.com/teorici/wojtyla/pena_morte.htm

Pigrizia intellettuale e teoria della responsabilità sociale
In un paese dove vige la pena di morte che senso può avere la teoria del ragionevole dubbio? Non è forse una contraddizione in termini?
Se anche dal punto di vista tecnico/materiale, non vi fossero dubbi circa la consapevolezza di una persona da condannare a morte, chi ci assicura che non esisterebbero dubbi dal punto di vista morale?
Come si può pensare che un individuo sano di mente possa compiere un delitto nella più assoluta libertà di scelta?
Se una persona fosse assolutamente libera di scegliere perché dovrebbe scegliere una cosa che le farebbe perdere la libertà?
Nessuno vive così isolato dagli altri da poter dire con sicurezza: "Ho scelto liberamente, senza condizionamenti di sorta". Chi vivesse isolato dal mondo, probabilmente, non si porrebbe neanche il problema di compiere un delitto. Non ne avrebbe motivo. A meno che l'isolamento non fosse una sorta di punizione inflitta in precedenza: il che potrebbe portare a risentimenti e a esigenze di vendetta personale.
Viviamo in una società in cui i condizionamenti sono reciproci: dunque, per quale motivo quando si tratta di giudicare qualcuno, lo consideriamo come un individuo isolato e lo carichiamo di responsabilità più grandi di quelle che potrebbe avere nella vita reale?
Gli uomini vivono assieme come tanti individui isolati: costituiscono una comunità per via indotta, involontariamente, non per libera scelta (questo senza considerare che la comunità dovrebbe far parte in maniera naturale della vita di una persona, sin dalla sua nascita). Nella vita reale, non si è capaci di assumere reciprocamente le responsabilità altrui. Sicché quando qualcuno commette un reato, viene lasciato solo, con tutte le sue responsabilità.
Eppure, l'isolamento che si vive in società è anch'esso una forma di condizionamento, un peso da sopportare. Si possono commettere azioni criminose non perché si è isolati dalla società, ma proprio perché si è isolati nella società.
Il crimine è sempre frutto di un condizionamento sociale: ecco perché, indirettamente, si è tutti colpevoli. Il crimine dovrebbe essere considerato come occasione per ripensare i criteri del vivere civile.
Insomma, la teoria del ragionevole dubbio dovrebbe spingersi sino al concorso morale, indiretto, che può avere la società nei confronti dell'imputato che ha commesso un reato.
Anche la teoria della presunzione d'innocenza, in tal senso, andrebbe rivista. Non ha senso sostenere che uno è innocente finché non si è dimostrata la colpevolezza. Bisognerebbe anzi sostenere il contrario e, cioè, che in un modo o nell'altro siamo tutti colpevoli e che quando si tratta di giudicare qualcuno, anzitutto, bisognerebbe chiedersi che cosa si è fatto per impedire che un determinato reato venisse compiuto.
Bisognerebbe partire da premesse di colpevolezza sociale, in modo da non far sentire l'imputato un individuo isolato, un estraniato.
Questo, ovviamente, non significa che il reato non deve essere punito o che bisogna essere pietisti ad oltranza. Significa, semplicemente, che, nei confronti del reato, bisogna assumere un atteggiamento pedagogico.
Il reato è un indizio di malessere sociale. Dall'analisi dei sintomi, bisogna saper trovare una terapia per vincere un male che ha radici nella società e nella sua cultura.
Dobbiamo abituarci a considerare i condizionamenti sociali non come un limite alla libertà, ma come il fondamento su cui la libertà và costruita.
Siamo liberi, appunto, perché condizionati.
Il nostro compito è quello di rendere positivi questi condizionamenti, affinché siano utili alla libertà.
Contenuti tratti da: http://www.homolaicus.com/teorici/wojtyla/pena_morte.htm

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