In un articolo apparso di recente sul New York Times,
Bret Stephens trova la prima fonte che parla dei social – Facebook in testa –
nella Storia occidentale. E la trova in una cosa scritta (o meglio detta, è
importante) circa 24 secoli fa. Nel Fedro di Platone, Socrate discute con
l’amico che dà titolo all’opera a proposito dell’invenzione della scrittura,
fatta risalire al dio egizio Theuth. Il dio – già inventore dell’aritmetica e
della geometria, dell’astronomia e dei dadi, visita il re Tamo annunciandogli
che ha inventato la scrittura. Ci farà diventare persone migliori, sostiene
Theuth; ricorderemo le cose meglio e saremo dunque più saggi. Il re risponde
secco che non sarà mai l’inventore a poter giudicare la propria invenzione e
prevederne gli effetti, e che la scrittura, anziché farci divenire più saggi,
ci darà l’illusione di una conoscenza apparente ma non vera, trasformandoci
così in finti sapienti, a nostra volta diffusori di finta sapienza attraverso
la parola scritta.
Vi ricorda qualcosa? Facebook! Descritto da Socrate nel 370 a.C., più o
meno. Il tema del rapporto tra cosa scritta e contesto è rimasto sempre al
centro del dibattito filosofico. Oggi il contesto è diventato il messaggio, si
sa, e il tempo di fruizione, permanenza e reazione al messaggio tende a zero. E
a sua volta il contesto istantaneo è esondato dai social per approdare alle
colonne dei giornali, alla Tv, alle chat di Whatsapp, a ogni mezzo di
comunicazione. Oramai la reazione si misura in millisecondi. Leggiamo e
rispondiamo, quasi con un istinto pavloviano, alimentato dalle microscariche
endorfiniche che riceviamo ogni volta che lo smartphone fa dlin. Socrate, come
sempre, aveva ragione.
Il recente picco della dinamica “scrivo una cazzata – chiedo scusa – ne
scrivo un’altra” è stato, oltre che fonte di preoccupazione e di grasse risate,
illuminante. Non ho tempo per capire che esito avranno le mie parole scritte (e
in quanto tali inchiodate a me come Cristo alla croce) e se l’esito non è la
scarica di endorfine dei like, presto, si corre a scusarsi. Che lo si faccia
dalla prima pagina di un quotidiano, o in un video poco importa, il contesto
rimane quello: l’infosfera digitale che tutto accoglie, assorbe e moltiplica.
La questione non cambia anche se si usa il mezzo video per essere più efficaci
ed emozionali; nel video si parla, il messaggio è meno parziale, nel bene e nel
male, ma sempre testo è. Può convincere in quanto percepito come autentico o
far ridere da quanto è pretestuoso e opportunista. Più efficace, più rischioso
ancora ma pur sempre testo slegato dalla presenza. Parole scolpite nella
pietra, parte della valanga di pietre che ci rotolano addosso ogni giorno.
Viviamo la sindrome della “single story”; dell’unica (istantanea)
versione dei fatti. In un celebre intervento ai TED Talks, la scrittrice
nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie racconta della sua infanzia: leggeva libri
anglosassoni e quindi le prime storie che ha scritto riguardavano uomini
bianchi che bevevano ginger beer – lei nemmeno sapeva cosa fosse la ginger
beer. Aveva una single story su cosa fosse la letteratura: aveva a che fare con
uomini bianchi. Un ragazzo che li aiutava in famiglia viene definito dalla
madre della futura scrittrice come “poverissimo”; quando poi fanno visita alla
sua famiglia, la piccola è stupita dal fatto che la madre del ragazzo abbia per
loro in dono una magnifica cesta: ma come, non erano poverissimi? Perché ci
fanno un regalo? Arrivata in America, la sua roommate all’università era
stupita che sapesse parlare inglese (in Nigeria è la lingua ufficiale) che
ascoltasse Mariah Carey e non dei canti tribali ecc. La roommate sveva una sua
single story dell’Africa, un misto di pietismo, accoglienza liberal e
sproporzionata manifestazione di apertura mentale.
Se non vogliamo fare incazzare definitivamente il saggio
re egizio Tamo, dovremmo ricominciare a fare una cosa: pensare prima di
scrivere.
E adesso insultatemi pure, tanto al massimo chiedo scusa.
Massimo Coppola
Da: Rolling
Stone
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