Ogni forma di comunicazione ha
la sua grammatica. Imparare quella della lingua scritta, nella nostra civiltà,
è come imparare l’alfabeto. Non a caso gli storici fanno coincidere la storia
delle civiltà con la nascita della scrittura, penalizzando enormemente tutta la
preistoria, le società clanico-tribali, il comunismo primitivo.
Oggi sappiamo che queste
civiltà pre-antagonistiche erano migliori delle nostre basate sui conflitti di
classe, ma sappiamo anche quanto sia impossibile lottare contro il nostro tempo
senza scrivere neanche una riga. E per poterlo fare in maniera convincente,
bisogna conoscere bene ciò che forse un giorno non esisterà più: la grammatica.
Quando arriverà quel giorno,
ognuno parlerà col cuore in mano e chi ascolterà il cuore altrui riuscirà a
capire e a capirsi, provando le medesime cose.
Articolo tratto da:
Autore sconosciuto - www.homolaicus.com/linguaggi/grammatica/bonton.htm
1. Nessun
testo senza contesto
Non
si può né scrivere né interpretare adeguatamente un testo senza darne in qualche
modo le coordinate spazio-temporali.
A che cosa si riferisce un
testo? Se si pretende che altri lo capiscano, bisogna offrire delle indicazioni
preliminari, altrimenti è preferibile considerarlo per quello che ci sembra: un
testo fine a se stesso, che gioca con le parole, che vuol trasmettere
un’emozione, una curiosità… senza particolari pretese.
Le suddette coordinate possono
essere date in vari modi, non è sempre necessario specificare giorno mese anno.
Si può anche essere allusivi, metaforici, per una scelta personale o perché
costretti da condizionamenti esterni; bisogna comunque farlo in maniera tale
che i destinatari del messaggio abbiano elementi sufficienti per capire
qualcosa di essenziale, anche se l’ambiguità resta ineludibile.
Chi pensa di scrivere soltanto
per l’umanità è un astratto idealista, è lontano dai bisogni della sua gente.
Un testo deve servire anzitutto per i propri contemporanei, benché sia sempre
possibile che qualcuno, fra mille anni, abbia voglia di riutilizzarlo.
Ma è noto che quando si
riprendono in mano testi scritti molto tempo prima, l’interpretazione che se ne
dà, l’uso che se ne fa è molto diverso da ciò ch’era stato fatto nel momento in
cui vennero scritti. Si pensi solo al recupero di Aristotele in epoca medievale
o a quello di Platone in epoca umanistica.
Bisogna dunque scrivere per il
presente, lasciando al futuro la propria autonomia. E’ vero che di un testo ci
si può accontentare del suo significato morale o filosofico, ma è molto più
grande la soddisfazione quando se ne comprende il nesso con la storia, con
l’ambiente di riferimento che ha indotto l’autore a scriverlo.
Noi non sappiamo chi abbia
redatto l’indovinello veronese: "Se pareba boves, alba pratalia araba,
albo versorio tenebra, et negro semen seminaba". Però ci piace sapere che
sia stato un anonimo amanuense altomedievale, più che se non l’avesse scritto
Cicerone in persona.
2. Meglio semplice e corretto che il contrario
I geni dell’umanità avevano
padronanza assoluta della lingua: è forse questo il motivo per cui Marx è
sempre stato apprezzato più dell’amico Engels, il quale però per molti versi
gli era superiore.
Spesso per poter comprendere
adeguatamente questi geni ci vuole non meno padronanza linguistica. Ecco perché
forse è preferibile limitarsi a scrivere cose semplici e grammaticalmente
corrette, piuttosto che avventurarsi in imprese al di sopra delle nostre forze.
La passione per la lingua scritta può avvenire col tempo, ma non è detto che si
sia sempre capaci di trovare una forma adeguata ai propri contenuti.
Se i contenuti sono elevati ci
vuole una forma corrispondente, e questo obiettivo è molto difficile da
raggiungere.
Se noi diciamo che nell’arte la
forma è sostanza, perché questo non dovrebbe valere anche nella lingua?
Il De Vulgari Eloquio lo
dice chiaramente: per trattare "materie eccellenti" occorre
"ingegno e sapienza".
Però Dante era un aristocratico
delle lettere. Se prendiamo ad es. i Vangeli noteremo una realtà del tutto
opposta, e cioè il fatto che si possono scrivere cose molto profonde usando un
linguaggio quasi elementare. Di fronte a un’esperienza letteraria del genere ci
si può chiedere se davvero sia stato possibile realizzarla in tutta semplicità.
Forse il segreto del successo
di un testo scritto sta proprio in questo: avere una grande esperienza da
raccontare senza rischiare di banalizzarla usando un linguaggio alla portata di
tutti. Solo i grandi scrittori sanno quanto sia difficile essere semplici e
avvincenti.
3. Anche il non senso ha un senso
Siamo immersi nella semantica
dalla mattina alla sera, proprio perché "in principio era il logos"…
Non si può quindi guardare con sufficienza ciò che non rientra nei canoni
prestabiliti, ciò che va oltre le regole o il consueto.
Il non-senso può essere un
messaggio criptico, cifrato, come i pizzini di Provenzano o i rebus di Moro
prigioniero delle B.R. Può essere un messaggio indiretto, allusivo, a mo’ di
parabole, soggetto a censure (le veline) o autocensure (i troppi scrupoli di
coscienza), oppure può semplicemente denotare un disagio, il malessere di chi
non si sa esprimere con sufficiente chiarezza, o perché ha pochi strumenti
comunicativi, o perché, al contrario, ne ha troppi e presume che gli altri ne
abbiano come lui e lo capiscano al volo.
Lo stesso linguaggio della
politica, ove si dice tutto e il suo contrario, viene spesso considerato dalla
stragrande maggioranza dei cittadini come un incredibile non senso. Ma questo
vale anche per tutti i linguaggi specialistici, settoriali, il primo dei quali
è quello giuridico, che pare fatto apposta per trarre in inganno il senso
comune.
Il non-senso di certe
espressioni linguistiche a volte purtroppo porta a conseguenze tragiche: come
quando gli indigeni americani non capivano le pretese dei colonizzatori
avanzate con la lingua castigliana; oppure può essere espressione di un forte
malessere esistenziale, come nel linguaggio dei folli, che va decodificato per
poter comprendere l’origine della loro malattia.
4. Il testo è un pretesto? Dimostralo!
E’ una responsabilità quella di
sostenere che un testo vuol dire "altro" rispetto a ciò che
apparentemente sembra. Dimostrarlo non è facile, essendo raro avere indizi,
prove o riscontri concreti da far valere, soprattutto quando dalla stesura di
un testo è passato troppo tempo per farsi un quadro esatto delle motivazioni
che l’hanno generato.
P.es. la Donazione di Costantino fu
scritta per convincere i Franchi ad accettare la tesi che insieme alla chiesa
romana avrebbero potuto evitare completamente di prendere in considerazione la
presenza della realtà bizantina nella parte occidentale dell’impero
romano-cristiano; ci vollero 700 anni prima di scoprire che si trattava di un
falso patentato.
A volte proprio lo scorrere del
tempo può costituire un vantaggio, in quanto si attenuano le pressioni
extra-testuali che impedivano al testo d’essere interpretato in modo per così
dire "non ufficiale". Questo vale anche per un altro falso
famosissimo in ambito ecclesiastico: le Decretali
dello Pseudo-Isidoro, smascherate solo quando nel XV secolo
s’impose la critica testuale.
Paradossalmente si finisce col
capire meglio un testo proprio quando esso ha perso molta della propria
importanza.
5. Riassumi e commuovi e sarai grande
Riassumere e commuovere
contemporaneamente è impossibile. Sono due abilità linguistiche del tutto
diverse. In un certo senso, se vogliamo, è ciò che distingue un testo scientifico
da uno propriamente letterario.
Saper riassumere con precisione
è una virtù che si acquisisce con l’esercizio; saper commuovere con le parole
non dipende solo dall’esercizio: occorre una particolare sensibilità. E questa
è un’arte che solo la vita può dare.
Non si tratta semplicemente di
attenzione per i particolari, ma proprio della capacità di toccare corde
emotive, al di là della coerenza logica.
Non si diventa grandi scrittori
scrivendo perfettamente tra le pareti di una stanza sommersa dai libri. Prima
dei suoi sofferti Idilli Leopardi
scrisse 240 traduzioni, saggi eruditi e filologici, tragedie, inni, commenti,
discorsi, ecc. il cui valore è modestissimo.
Questo per dire che chi scrive
romanzi deve saper commuovere, altrimenti è meglio che faccia riassunti. E gli
arabi che durante il Medioevo sintetizzarono buona parte della cultura
ellenistica e indo-buddhista, furono grandi, perché permisero all’Europa
occidentale di avere un percorso che altrimenti sarebbe stato molto diverso.
6. Fatti e parole si alternano
come il sole e la luna
Il linguaggio è tanto più bello
quanto più non rimanda a qualcosa di semplicemente linguistico. Perché è così
tanto odiato il linguaggio dei politici? Perché è fine a se stesso, alla mera
conservazione del potere, come una sorta di teatrino dove i ruoli sono
stabiliti a priori. Assomiglia a quel gioco in cui con poche lettere
alfabetiche si possono formare molte parole di senso compiuto e persino
opposto: dentro la parola "democrazia", p.es., si possono ricavare parole
come "amare" e "odiare".
L’esperienza senza un
linguaggio che la renda intelligibile è cieca, ma il linguaggio
autoreferenziale è vuoto.
Dovendo però scegliere tra
l’esperienza muta e il linguaggio forbito, cosa preferire? Fatti e parole
devono sostenersi a vicenda, come due coniugi che si promettono amore eterno.
Difendi dunque i fatti con le
parole ma soprattutto con altri fatti, sino al punto in cui essi possano
parlare anche da soli.
7. Un fatto non parla mai da solo
Purtroppo un fatto non parla mai
da solo, anche se non è detto che parli di meno quando si rifiuta di farlo.
Tanti silenzi sono più eloquenti di mille parole.
I fatti parlano se siamo
disposti ad ascoltarli, se sappiamo porre le domande giuste, se non li mettiamo
in condizioni imbarazzanti, se siamo capaci, nell’uso delle ipotesi
interpretative, di non andare oltre quel livello di profondità che non ci
compete, in quanto appartenente alla sfera della libertà umana.
D’altra parte non è detto che
un fatto molto loquace sia anche molto utile all’accertamento della verità.
Molti fatti emozionano, commuovono, ma questa capacità di toccare i sentimenti
non li rende di per sé più veri, indispensabili alla convivenza umana, efficaci
per la soluzione dei problemi…
I fatti hanno il senso che gli
diamo, anche se ogni fatto ha il proprio senso. La verità dei fatti è la
capacità di adeguare la nostra interpretazione al loro senso oggettivo.
Un fatto arriva a parlare da solo quando non si ha più bisogno d’interpretarlo,
in quanto tutti lo sanno interpretare adeguatamente. Ma è davvero possibile
tacere di fronte a un’interpretazione univoca? O forse è meglio dire che ci
sarà sempre un’ulteriore sfumatura interpretativa?
8. Non esistono le interpretazioni univoche
Quando qualcuno sostiene che un
fatto può essere interpretato in maniera univoca, lì si rischia una qualche
forma di autoritarismo. La ricerca dell’interpretazione migliore va lasciata
alla libertà dei cittadini. Se questa ricerca porta al silenzio, poiché di
fronte a certi eventi è preferibile scegliere questa opzione, bisogna
assicurarsi che il tacere, esattamente come il parlare, siano una scelta di
libertà.
A tutti piacciono le sicurezze
interpretative, ma non a condizione che questo obiettivo debba essere pagato
col prezzo della libertà.
Il fatto che non esistano
interpretazioni univoche non significa che non esista la verità delle cose,
ovvero che ogni interpretazione possa essere quella giusta. Nella storia vi è
un progressivo adeguamento dell’interpretazione alla verità dei fatti. Non siamo
mai in grado di stabilire una verità assoluta dei fatti, però possiamo
pretendere che una verità sia più oggettiva di altre.
9. Ogni genere ha la sua dignità e le sue regole
Per giungere a esprimere o a
formulare una verità dei fatti si può scegliere il genere letterario che si
vuole, ma a condizione di rispettarne le regole, che non sono soltanto quelle
formali-linguistiche, ma anche semantiche.
Non si può affrontare il tema
del linguaggio senza affrontare quello della logica del ragionamento astratto,
quello della tecnica del sillogismo, quello delle possibili forme
interpretative non razionali, nell’accezione occidentale del termine. E’ da
circa mezzo millennio che noi sosteniamo che una cosa è vera quando è
dimostrabile, ma vi sono culture che preferiscono affidarsi alla tradizione o
all’analogia rispetto a fatti precedenti.
Si può arrivare alla verità delle cose scrivendo un romanzo o un testo storico,
o, come fece il Manzoni, un romanzo storico. L’importante è rispettare le
regole formali del genere e quelle sostanziali della comunicazione, che sono
quelle della dialettica, in cui gli opposti si toccano, si compenetrano e danno
vita a una nuova sintesi.
10. Lingua è comunicazione in senso lato
La lingua non è tanto
comunicazione scritta, ma comunicazione in senso lato, a tout azimut, in cui il
soggetto emittente e quello ricevente si pongono come persone integrali,
olistiche, in grado di dare e ricevere non solo con l’intelletto ma con tutto
il corpo.
Ma se la lingua è comunicazione, l’apprendimento della grammatica è soltanto un
suo aspetto. E’ la comunicazione che va imparata. La retorica deve rientrare
nei programmi disciplinari. Che senso ha saper interpretare una poesia senza
saperla recitare?
Linguaggio è comunicazione, che è infinitamente di più del tema o del riassunto
scritti. Qualunque forma di comunicazione, almeno nei suoi rudimenti
essenziali, deve poter essere appresa a scuola. Anzi, qualunque disciplina
dovrebbe stabilire il proprio statuto epistemologico comunicativo.
Quale forma di comunicazione
trasmette la matematica? Lo sanno i matematici che non si tratta soltanto
d’imparare a fare dei calcoli per trovare le soluzioni a determinati problemi
quantitativi? Sono in grado i ragazzi di capire quando la statistica viene
usata per fare propaganda politica? E’ più difficile capire questo o le
equazioni di secondo grado a tre incognite?
11. Dante conosceva la grammatica
Sarebbe sciocco sostenere che
più importante della grammatica, con cui saper scrivere un testo, è l’abilità
psicologica con cui comunicare a qualcuno il contenuto di un certo messaggio.
Dante conosceva bene la grammatica, sia quella italiana che quella latina, e
come lui il Manzoni, il Leopardi, il Foscolo… Non si diventa grandi scrittori
senza sapere la grammatica: Io
speriamo che me la cavo è stata un’eccezione dovuta alla
novità del caso.
In un mondo di analfabeti
potrebbero anche piacere libri sgrammaticati, ma quando c’erano gli analfabeti
non si leggeva. E oggi che lo si può fare, si accettano le sgrammaticature come
stravaganza non come regola.
Ogni forma di comunicazione ha
la sua grammatica. Imparare quella della lingua scritta, nella nostra civiltà,
è come imparare l’alfabeto. Non a caso gli storici fanno coincidere la storia
delle civiltà con la nascita della scrittura, penalizzando enormemente tutta la
preistoria, le società clanico-tribali, il comunismo primitivo.
Oggi sappiamo che queste
civiltà pre-antagonistiche erano migliori delle nostre basate sui conflitti di
classe, ma sappiamo anche quanto sia impossibile lottare contro il nostro tempo
senza scrivere neanche una riga. E per poterlo fare in maniera convincente,
bisogna conoscere bene ciò che forse un giorno non esisterà più: la grammatica.
Quando arriverà quel giorno
ognuno parlerà col cuore in mano e chi ascolterà il cuore altrui riuscirà a
capire e a capirsi, provando le medesime cose.
12. Se ti motivo t’impegni?
Se chi vuole apprendere non si
lascia motivare da queste cose, il suo destino è quello di ripetere
pedissequamente cose altrui. E’ il trionfo del nozionismo astratto, che
raggiunge il suo vertice quando si sa tutto a memoria. Il che comunque resta un
esercizio utilissimo, anche se mentre lo si fa non lo si capisce. Nelle nostre
scuole si ha soltanto l’impressione che apprendimento voglia dire ripetere meccanicamente
verità precostituite.
Lasciati motivare al di là
delle regole, se vuoi impararne altre che non stancano mai. Apprendere ad
apprendere, in un circolo virtuoso infinito: è questa la regola principale da
imparare.
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Autore sconosciuto - www.homolaicus.com/linguaggi/grammatica/bonton.htm
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