Rogo per l'esecuzione della pena di morte comminata dalla Chiesa Cattolica |
Per oltre 500 anni la chiesa cattolica ha imposto la
propria supremazia spirituale con la violenza, eliminando fisicamente ogni oppositore dalle zone sotto
la sua influenza politica.
In tempi
recenti, qualcuno prova ad operare una sorta di "revisionismo
storico" per tentare di negare il crudele sterminio di milioni di persone.
Tuttavia, poiché
tali crimini non erano dovuti a "deviazioni" occasionali, ma
rappresentavano pienamente l'ortodossia cattolica, col pieno consenso dei vari
papi coinvolti e di tutti gli ordini ecclesiastici, oggi disponiamo di molti
documenti ufficiali, paradossalmente prodotti dalle stesse autorità
ecclesiastiche cattoliche, che forniscono le dettagliatissime prove storiche
delle stragi compiute in nome di Dio.
L'arroganza della chiesa cattolica era talmente sconfinata da non far
comprendere, all'epoca, che tali documenti, un giorno, potevano essere visti
non come "atto di fede", (come essi definivano gli omicidi degli
"eretici") bensì come spietata repressione delle opinioni altrui.
L'italia è uno dei pochissimi Paesi democratici al mondo che non statuisce la dichiarazione di laicità in Costituzione, come invece fanno anche molti Paesi di religione a maggioranza islamica (ad esempio, Marocco, Senegal, etc).
La latitanza della dichiarazione di laicità costituzionale è un forte pericolo molto sottovalutato, poiché, in caso di avvento politico del potere ecclesiastico, - cosa non improbabile nell'epoca attuale: i campanelli d'allarme ogni tanto suonano, - si rischierebbe l'applicazione, penale e civile, del diritto clericale, violento e negazionista di tutte le libertà e i diritti conquistati. Diventerebbero, ad esempio, reati penali il divorzio, l'abbandono del tetto coniugale da parte della donna, poco considerata nel diritto ecclesiastico a favore dell'evidente maschilismo cattolico, l'aborto, etc.
Come scrive Michele Amabilino su Facebook, nessuno ha mai valutato che "l'Italia, in pratica, è uno Stato confessionale e, solo in teoria, laico".
E' una pericolosa spada di Damocle che pende sulla testa degli italiani, che al più presto va rimossa con la dichiarazione costituzionale di laicità dello Stato e con la concessione della sola e semplice libertà della pratica del proprio credo religioso, qualunque esso sia, purché non si vada in contrasto con le Leggi (laiche) dello Stato.
Nessuna elargizione economica per nessuna delle religioni, le quali si devono mantenere con la tassazione obbligatoria per il sostegno dei soli propri fedeli.
In caso contrario, è preventivabile un rigurgito oscurantista che ci riporterebbe alla preistoria e alla negazione violenta dei diritti e della civiltà!
Nino Caliendo
Nella
Bibbia
Nella
Bibbia sono elencate situazioni in cui nelle leggi, che Dio dà a Mosé per
esporle al popolo ebraico, si stabilisce la pena capitale come punizione per
determinate colpe. Ad esempio, nell’Antico Testamento è scritto:
“Colui
che colpisce un uomo causandone la morte, sarà messo a morte “ (Esodo
21,12).
Nell’Antico
Testamento (Genesi, 2,12-15), esistono alcuni passi in cui Dio condanna la
vendetta umana, minacciando punizioni peggiori (“sette volte” e “settanta volte
sette”) per chi avesse ucciso Caino e Lamech.
Diversi
passi, in prevalenza dell’Antico Testamento, affermano la legittimità della
pena di morte quando è violata la legge di Mosé. A questi si aggiungono gli
episodi di guerra e della storia del popolo eletto, dove i nemici periscono per
volontà divina. Riguardo alla violazione della legge ebraica, nella Lettera
agli Ebrei 10,28: “Quando qualcuno ha violato la legge di Mosé, viene
messo a morte senza pietà sulla parola di due o tre testimoni”. In Levitico
24,16 viene messo a morte “Chi bestemmia il nome del Signore”, in
Levitico 20,10 chi commette adulterio, in 27,29 “Nessuna persona votata
allo sterminio potrà essere riscattata; dovrà essere messa a morte”, e in
Levitico 24,17 “Chi percuote a morte un uomo”. In Esodo 21,17 viene
messo a morte chi maledice il padre o la madre.
Il
passo è ripreso nel Nuovo Testamento, da Vangelo di Marco 7,10: “…infatti
disse: Onora tuo padre e tua madre, e chi maledice il padre e la madre sia
messo a morte”. In Numeri 35,30, si afferma che non si può accettare un prezzo
di riscatto da un omicida: “Se uno uccide un altro, l’omicida sarà
messo a morte in seguito a deposizione di testimoni, ma un unico testimone non
basterà per condannare a morte una persona. Non accetterete prezzo di riscatto
per la vita di un omicida, reo di morte, perché dovrà essere messo a morte”.
La
morte del colpevole avveniva per lapidazione. Questa forma di esecuzione
coinvolge tutta la comunità locale adulta, che collettivamente è chiamata ad
applicare la legge, e risparmia l’individuazione di un singolo come boia.
Nel
Nuovo Testamento, Gesù richiama più volte al perdono e condanna l’episodio
della lapidazione della donna adultera:
“Chi di
voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei” (Giovanni
8,7).
Pensatori
cristiani
Sant’Agostino
e San Tommaso d’Aquino sostengono la liceità della pena di morte sulla base del
concetto della conservazione del bene comune. L’argomentazione di Tommaso
d’Aquino è la seguente:
“Come è
lecito, anzi doveroso, estirpare un membro malato per salvare tutto il corpo,
così quando una persona è divenuta un pericolo per la comunità o è causa di
corruzione degli altri, essa viene eliminata per garantire la salvezza della
comunità” (Summa theologiae II-II, q. 29,
artt. 37-42).
Il
teologo sosteneva, tuttavia, che la pena andasse inflitta solo al colpevole di gravissimi
delitti, mentre, all’epoca, veniva utilizzata con facilità e grande
discrezionalità.
Lo
Stato pontificio ha mantenuto nel suo ordinamento la pena di morte fino al XX
secolo.
Dottrina
cattolica odierna
Il Catechismo
della Chiesa Cattolica (1997) parla della pena di morte all’interno
della trattazione sul quinto comandamento, “Non uccidere”, e, più
specificamente, nel sottotitolo che tratta della legittima difesa.
In
questo contesto dice (n. 2266-2267):
“2266: Corrisponde
ad un’esigenza di tutela del bene comune lo sforzo dello Stato inteso a
contenere il diffondersi di comportamenti lesivi dei diritti dell’uomo e delle
regole fondamentali della convivenza civile. La legittima autorità pubblica ha
il diritto ed il dovere di infliggere pene proporzionate alla gravità del
delitto. La pena ha innanzi tutto lo scopo di riparare il disordine introdotto
dalla colpa. Quando è volontariamente accettata dal colpevole, essa assume
valore di espiazione. La pena poi, oltre che a difendere l’ordine pubblico e a
tutelare la sicurezza delle persone, mira ad uno scopo medicinale: nella misura
del possibile, essa deve contribuire alla correzione del colpevole”.
“2267: L’insegnamento
tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento
dell’identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di
morte, quando questa fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente
dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani.
Se
invece i mezzi incruenti sono sufficienti per difendere dall’aggressore e per
proteggere la sicurezza delle persone, l’autorità si limiterà a questi mezzi,
poiché essi sono meglio rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e
sono più conformi alla dignità della persona umana…”
La pena
di morte in Città del Vaticano venne rimossa dalla Legge Fondamentale solo
il 12 febbraio 2001, forse per convenienza UE, visto che l’Unione Europea non
ammette la pena capitale e, di conseguenza, gli Stati che la prevedono.
Nel
giugno 2004, l’allora cardinale Joseph Ratzinger, attuale papa Benedetto XVI,
inviò, in qualità di prefetto della Congregazione per la Dottrina della
Fede, una lettera al cardinale Theodore Edgar McCarrick, – arcivescovo di
Washington, – e all’arcivescovo Wilton Daniel Gregory, – presidente della
Conferenza Episcopale degli Stati Uniti, – nella quale affermava che può
tuttavia essere consentito [...] fare ricorso alla pena di morte
Contenuti
tratti da: http://it.wikipedia.org/wiki/Pena_di_morte
Se
l’art. 2261 del Nuovo Catechismo afferma che: “La Scrittura precisa la
proibizione del quinto comandamento: non far morire l’innocente e il giusto”
(Es 23,7), è consequenziale che: “Il comandamento ‘Non uccidere’ ha
valore assoluto quando si riferisce alla persona innocente”(Evangelium
vitae, n° 57) e valore relativo quando si riferisce alla persona colpevole.
Infatti,
l’art. 2267 del Nuovo Catechismo conferma che: “L’insegnamento
tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’
identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte”.
La
Chiesa, dunque, riconosce all’autorità pubblica il potere di applicare la pena
di morte, nei confronti delle persone colpevoli, perché la “Scrittura” e, più
precisamente, il versetto 7 del capitolo 23 dell’Esodo “non far morire
l’innocente e il giusto“, preciserebbe che il comandamento “Non
uccidere” è stato formulato da Dio per proteggere la vita delle
persone innocenti, ma non le colpevoli.
Ma la
Chiesa è proprio certa che questa dottrina così inumana sia conforme alla legge
divina e non sia, piuttosto, frutto di conformazione umana?
Se di
fronte alla legge umana, tutte le persone sono considerate uguali: “La
legge è uguale per tutti”, quanto più, tutte le persone, dovrebbero essere
considerate uguali di fronte alla legge di Dio, che possiede carattere
universale?
Mentre,
per il Catechismo, di fronte alla legge divina: “Non uccidere”, le
persone non sono considerata tutte uguali, ma, a priori, separate le buone
dalle cattive e proprio le cattive, per le quali Dio ha istituita la legge,
defraudate dai benefici.
In
realtà, la “Scrittura” di cui parla il Catechismo, che “precisa la proibizione
del quinto comandamento”, si riduce ad un versetto dell’Antico
Testamento: “Non far morire l’innocente e il giusto“, formulato,
peraltro, in modo incompleto, infatti, citato per intero: “Starai
lontano dalla parola falsa e non ucciderai l’innocente e il giusto perché io
non dichiaro giusto il colpevole“ (Es 23,7), rivela la vera intenzione
dell’autore sacro, che non è certo quella di voler precisare la proibizione del
quinto comandamento, come dichiara il Catechismo, ma formare le coscienze umane
al giusto comportamento morale che devono assumere i soggetti giuridici
nell’ambito di un processo penale: Dio vieta, categoricamente, ai giudici e ai
testimoni, di ricorrere a parole false per deviare il corso della giustizia,
provocando la condanna dell’innocente e l’assoluzione del colpevole. Intenzione
che, l’autore sacro sottolinea anche con il versetto precedente: “Non
farai deviare il giudizio del povero, che si rivolge a te nel suo processo“ (Es
23,6).
Tra
l’altro, non spetta all’Antico Testamento stabilire le verità divine in materia
di fede e di morale, ma al Nuovo Testamento e in esso non vi è un solo versetto
che autorizzi la Chiesa a legittimare la pena di morte, una pena di natura
vendicativa, assolutamente contraria al perdono, il quale costituisce il DNA
dello spirito cristiano.
Unitamente
alla pena di morte, anche la “tortura” è stata sempre considerata dalla Chiesa
moralmente lecita: solo con il Concilio Vaticano II è stata,
finalmente, esclusa e condannata.
Intanto,
prima che fosse rigettata, un numero infinito di persone, che solo Dio conosce,
ha dovuto soffrire atrocità incredibili e tante di esse sono morte a causa di
questa dottrina legittimata dalla Chiesa.
Ora,
però, che il Concilio si è espresso in modo autentico e
ufficiale contro tutte: “…le torture inflitte al corpo alla
mente…ledono grandemente l’onore del creatore” (Gaudim et spes n° 27)
può la Chiesa continuare a considerare lecita la pena di morte? Non è forse la
pena di morte una pratica di tortura inflitta al corpo e alla mente?
Il
Catechismo e la pena di morte
Cesare
Beccaria, a proposito della pena di morte, nel pamphlet “Dei delitti e
delle pene”, nel 1764, scriveva: “Parmi un assurdo che le leggi,
che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscano
l’omicidio, ne commettano uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini
dall’assassinio, ordini un pubblico assassinio”.
Il
Granducato di Toscana, nel 1786, fu il primo Stato al mondo ad abolire la pena
di morte.
Su
iniziativa dell’Italia, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il 18
Dicembre 2007, ha approvato la risoluzione per la moratoria universale contro
la pena di morte nel mondo.
Ma, il
punto 2267 de “Il nuovo catechismo della Chiesa cattolica” (1992,
rivisto nel 1999) così recita:
“L’insegnamento
tradizionale della Chiesa non esclude (…) il ricorso alla pena di morte, quando
questa fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente
dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani (…). Oggi (…) i casi di
assoluta necessità di soppressione del reo sono ormai molto rari, se non
addirittura praticamente inesistenti” (quest’ultimo
paragrafo, aggiunto successivamente, proviene dall’enciclica di Giovanni Paolo
II “Evangelium vitae” del 1995).
Ecco
l’assurdo! La Chiesa, nella sua dottrina fondamentale, il Catechismo,
mantiene ancora la pena di morte, anche se edulcorata dall’aggiunta di un
paragrafetto dell’enciclica sopradetta.
Le
lancette del tempo sembrano essersi fermate, meno male che la… Santa
Inquisizione è lontana!
Eppure, nel Nuovo testamento, Gesù invoca il
perdono nell’episodio della lapidazione della donna adultera: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di
lei” (Giovanni 1 cap 8, 7).
E
Giovanni Paolo II dichiara, durante la visita negli USA, che la Chiesa è “incondizionatamente
a favore della vita” e che, essendo la nostra società “in
possesso dei mezzi per proteggersi (…), la pena si morte è crudele e non
necessaria”.
Insomma,
sembra l’applicazione completa del V comandamento: non uccidere. Ma
non è così. Infatti, quando si afferma che sono rari i casi “di
assoluta necessità di soppressione del reo”, si ammette che in qualche caso
la pena di morte è riconosciuta.
Qualcuno
scrive che questo vale per la legittima difesa (punto 2266).
Ma quanti innocenti, nel Far West del mondo civilizzato,
vengono uccisi in nome della legittima difesa? Quando, allora, si
può parlare di legittima difesa, ovvero quale tipo di reato
autorizza alla pena capitale?
E,
se “la pena di morte è crudele e non necessaria”, perché viene
ancora mantenuto nel Catechismo il punto 2267, che rappresenta un affronto all’etica
del perdono e della misericordia e lascia l’impressione che si possa, in
qualche caso, utilizzarlo?
di Governanti
- www.governanti.blogspot.com
Il
Catechismo Universale e la pena di morte
Si è
fatto un gran discutere, in ambienti pacifisti e non-violenti, come, ad
esempio Amnesty International, circa le motivazioni che possono
aver indotto la chiesa cattolica ad accettare – come risulta dal paragrafo 2266
del recente Catechismo Universale (CCC) – la pena di morte,
seppure “in casi di estrema gravità”.
Vediamo
le prime.
Al
paragrafo 2259, dicono gli autori del CCC: “La Scrittura, nel racconto
dell’uccisione di Abele da parte del fratello Caino, rivela, fin dagli inizi
della storia umana, la presenza nell’uomo della collera e della cupidigia,
conseguenze del peccato originale”.
Il
riferimento al cosiddetto “peccato originale”, ogni qualvolta si
deve cercare di spiegare la causa di taluni malesseri sociali, è praticamente
una costante nella teologia cattolica.
Al
paragrafo successivo gli autori ricordano che “l’alleanza [vetero
testamentaria] di Dio e dell’umanità è intessuta di richiami al dono
divino della vita umana e alla violenza omicida dell’uomo”(2260).
Dei due
“richiami”, quello che più preme sottolineare agli autori non è il primo, –
come sarebbe naturale per una istituzione (la Chiesa) che predica la legge
dell’amore -, bensì il secondo. E di questo l’aspetto da essi considerato più
significativo non è tanto il puro e semplice “divieto di non uccidere”,
quanto piuttosto il divieto di uccidere “l’innocente e il giusto” (2261):
peccato, questo, “gravemente contrario alla dignità dell’essere umano”.
Ora,
proviamo a chiederci: per quale ragione la chiesa cattolica ritiene che “l’uccisione
volontaria di un innocente è gravemente contraria alla dignità dell’essere
umano” (2261)? Cioè, per quale ragione essa non si limita ad affermare
che l’essere umano in quanto tale, santo o peccatore che sia, non meriterebbe
mai di morire in modo violento?
La
Chiesa Romana, – qui autorevolmente rappresentata da un Catechismo Universale,
-non è in grado di trarre le logiche conseguenze dalla sua teoria del peccato
originale, perché finirebbe in un groviglio inestricabile di contraddizioni. A
noi, invece, interessa mettere in luce il seguente, inevitabile, sillogismo: se
la natura umana è intrinsecamente malvagia, allora anche Abele era “colpevole”,
ma se egli era “colpevole”, il delitto di Caino, in sé pur grave,
va ricompreso sulla base di ogni possibile attenuante, onde ostacolarne la
reiterazione. Qui, naturalmente, non è il caso di verificare ciò che Caino e
Abele simbolicamente rappresentavano nel racconto del Genesi. Dobbiamo
limitarci a considerazioni astratte.
Quel
che è certo è che nel racconto biblico la “dignità dell’essere umano” dipendeva
da altro rispetto alla legge, poiché Caino fu punito prima che venisse
formulato il divieto del quinto comandamento.
Non
solo, ma egli venne “marchiato” proprio per impedire che
qualcuno commettesse un secondo delitto, cioè che usasse vendetta contro di
lui. Se a quel tempo avessero dato per scontata l’intrinseca malvagità umana,
alla prima manifestazione di questa non ci sarebbe stata altra soluzione che
l’esecuzione capitale.
Sicché
si può tranquillamente affermare con A. Schenker che ai tempi di Caino era la
dignità dell’uomo ad essere considerata intrinseca all’uomo stesso. Il peccato
originale, cioè la violazione delle modalità del comunismo primitivo, se
comportò la nascita dell’individualismo, non determinò affatto l’impossibilità
di opporvisi. Ancora non esistevano né l’idea dell’espiazione né il principio
della retribuzione come base del sistema della pena. Il divieto di uccidere
Caino sta appunto a testimoniare che, nonostante l’emergere dell’individualismo,
i princìpi democratici del collettivismo non erano stati dimenticati.
Viceversa,
il divieto mosaico fa la sua comparsa in un contesto dove, evidentemente, per
rispettare la persona non era più sufficiente rifarsi alle tradizioni orali, ma
occorreva una legge scritta: segno, questo, che il distacco dai princìpi del
comunismo primitivo era diventato progressivo, forse irreversibile. Di qui,
l’esigenza d’imporre al colpevole una pena proporzionata e di risarcire la
vittima del danno subìto. La giustizia, sempre meno possibile sul piano
sociale, doveva almeno apparire su quello giuridico, cioè su quello formale
della legge.
Ora,
prima di rispondere adeguatamente alla domanda che sopra ci siamo posti,
dobbiamo continuare a ripercorrere l’analisi del CCC, che si sposta dall’Antico
Testamento (A.T.) al Nuovo, esaminando la figura chiave di Gesù Cristo.
Per gli
autori del CCC, Cristo non sarebbe che un “nuovo Abele” che porge l’altra
guancia, ama i propri nemici, non si difende da chi lo accusa ingiustamente. etc
(2262).
Dopo
aver dedicato tre paragrafi (2259-61) al V.T., il CCC ne dedica uno solo al
Nuovo. Perché? Semplicemente perché si vuole far apparire il Cristo come un
“perfezionatore” del divieto mosaico.
Pur di
dimostrare che l’uomo è intrinsecamente malvagio, Cristo, – secondo il CCC, –
avrebbe non solo vietato l’ira, l’odio e la vendetta, oltre che naturalmente
l’omicidio, ma si sarebbe anche offerto volontariamente come “agnello
sacrificale” per i peccati degli uomini. Egli dunque, in un certo
senso, sarebbe stato vittima della sua stessa “legge dell’amore
assoluto”, che gli impediva di trasformarsi in “giustiziere dei malvagi”.
Come si
può notare, questa interpretazione della vita di Cristo è assolutamente
fantastica. La chiesa romana non ha qui saputo cogliere la fondamentale
differenza dalla legge mosaica che i vangeli rappresentano, per i quali
il “divieto di uccidere” è una contraddizione in termini,
finché non si pongono le basi sociali che tolgano al delitto le sue motivazioni
di fondo.
In
effetti, se nel mentre si pone il divieto non ci si preoccupa di creare una
società veramente democratica, quel divieto, alla lunga, non sortirà alcun
effetto. E, viceversa, se si ha quella preoccupazione, il divieto è altrettanto
inutile, poiché non sarà in virtù di esso che i cittadini si comporteranno in
maniera non-violenta.
A parte
questo, la Chiesa Romana non ha mai neppure capito (o non lo ha mai voluto
capire) il motivo per cui il Cristo si lasciò giustiziare senza reagire. Lungi
dal pensare che il potere dominante avrebbe più facilmente rinunciato al
proprio arbitrio, vedendo un innocente salire tranquillamente sul patibolo, il
Cristo deve, invece, aver atteso (invano, purtroppo) che la propria liberazione
fosse il frutto di una convinzione largamente popolare, solo in virtù della
quale si sarebbe sia potuto vincere il dominio romano che costruire una nuova
società civile.
Imporre
il proprio progetto democratico con colpi di stato, atti terroristici e cose
simili non avrebbe certo significato realizzare un’alternativa alla logica del
potere dominante (romano o ebraico che fosse).
Ora,
finalmente, possiamo rispondere alla suddetta domanda, se il lettore non l’ha
già fatto per contro proprio. La Chiesa è favorevole alla pena di morte
sostanzialmente per questa ragione di tipo “etico-religioso”: essendo la natura
dell’uomo intrinsecamente malvagia, la società ha il diritto, nei confronti di
chi cerca di contenere tale malvagità in una condotta il più possibile
irreprensibile e, nonostante questo, viene ucciso, di considerare la sua morte
un delitto assolutamente imperdonabile.
In
altre parole, è intollerabile per la chiesa veder uccidere un “innocente”,
colui cioè che, meglio di altri, combatte contro gli effetti deleteri del
peccato originale (ma anche colui che, essendo ancora troppo giovane d’età, non
ha potuto sperimentare su di sé gli effetti o le tentazioni di quella
colpa). “L’omicida e coloro che volontariamente cooperano all’uccisione
commettono un peccato che grida vendetta al cielo”, specie nei casi
di “infanticidio, fratricidio, parricidio e uccisione del coniuge” (2268).
Si
deve, però, andare al paragrafo 1867 per accorgersi che fra i “peccati che
gridano al cielo” non vi è solo l’omicidio di Abele o la licenziosità dei
Sodomiti, ma anche “il lamento del popolo oppresso in Egitto; il
lamento del forestiero, della vedova e dell’orfano”. Infine, “l’ingiustizia
verso il salariato”.
Ma, la
cosa più singolare di tutta questa esegesi del CCC, circa il divieto mosaico e
la morte di Gesù, è che nella seconda parte del capitolo (quella dedicata
alla “legittima difesa”) – e qui veniamo alla motivazione più
propriamente politica, – la Chiesa romana, servendosi delle sentenze dell’Aquinate,
arriva a formulare cose del tutto antievangeliche, che peggiorano persino la
durezza della legge mosaica, la quale prevedeva la pena di morte per i
trasgressori di alcuni comandamenti.
Sulla
base della motivazione vista sopra, la Chiesa non ha espresso un parere
chiaramente favorevole alla pena di morte. Essa, infatti, si rende conto che,
in quanto istituzione “religiosa”, dev’essere sempre pronta al perdono.
Tuttavia,
la trattazione religiosa dell’argomento è stata condotta con abile maestria,
evitando di esprimere “giudizi di valore” categorici, sia per mostrare che il
divieto mosaico “ha una validità universale: obbliga tutti e ciascuno,
sempre e dappertutto” (2261), per cui la sua trasgressione non può che
comportare gravissime conseguenze, sia per suscitare nel lettore un senso di
forte riprovazione nei confronti del fatto che, nonostante la palese innocenza
di Gesù, vi furono ugualmente delle persone disposte a crocifiggerlo.
Come
restare indifferenti al cospetto di un’ingiustizia così grande? Il fatto che
Cristo non abbia voluto difendersi, non implica che nessuno debba farlo. Ciò
che sul piano etico-religioso può apparire inaccettabile, può non esserlo sul
piano gius-politico.
Infatti, “l’amore
verso se stessi resta un principio fondamentale della moralità. E’, quindi,
legittimo far rispettare il proprio diritto alla vita”, “poiché, –
come dice Tommaso d’Aquino, – un uomo è tenuto di più a provvedere alla
propria vita che alla vita altrui” (2264).
Curiosa
questa citazione dell’illustre Dottore della Chiesa. Egli ha, senza
dubbio, ragione quando afferma che “se nel difendere la propria vita
uno usa maggiore violenza del necessario, il suo atto è illecito”. Ma che
dire del fatto che la legittima difesa venga invocata per tutelare un diritto
esclusivamente soggettivo? Da una Chiesa che pretende di fare dell’ideale
“divino” la sua raison d’être, sinceramente, ci si aspettava
qualcosa di più sublime.
In
effetti, se la legittima difesa è il modo migliore per garantire un proprio
diritto, cosa dover pensare di quanti, nella storia, vi hanno rinunciato per
poter meglio affermare un “bene comune”, cioè un valore, un ideale,
un “diritto”, se si vuole, o, comunque, una causa non puramente
soggettiva? Cosa pensare di coloro che, liberamente e consapevolmente, non
perché desiderosi di morire martiri à tout prix, hanno preferito
l’idea del sacrificio personale a quella della legittima difesa? Erano pazzi,
ingenui, illusi o che altro? Il valore etico (umano, ontologico) di una scelta
esistenziale, può essere misurato in termini meramente giuridici?
Quando
poi ci si addentra sul piano più propriamente politico-istituzionale, i limiti
della chiesa cattolica si evidenziano in tutta la loro crudezza. Se già avevamo
messo in dubbio il valore assoluto della legittima difesa (che va comunque
salvaguardata) in nome dell’interesse soggettivo, ora ci pare ancor più
fuorviante l’affermazione secondo cui la legittima difesa va considerata anche
come un dovere da parte di chi “è responsabile della vita altrui” (2265).
Come
spesso succede le parole che si usano non hanno mai un senso univoco,
inequivocabile, ma sono sempre soggette a fraintendimenti, anche quando si
cerca di essere il più possibile aderenti alla realtà, il più possibile “scientifici”:
cioè, esiste sempre la possibilità di dare alle parole un senso opposto a
quello voluto, anche contro la propria volontà, o, comunque, esiste sempre la
possibilità che qualcuno non ci capisca o non ci voglia capire. E così qui: chi
metterebbe in dubbio che le autorità costituite hanno il dovere di usare lo
strumento della legittima difesa per tutelare l’incolumità (non solo fisica)
dei propri cittadini? Ma se noi dicessimo: le autorità costituite,
nell’adempiere al dovere di difendere i cittadini, hanno il diritto di
sostituirsi alla loro volontà, non susciteremmo forse delle perplessità?
La
frase incriminata dalle associazioni pacifiste è stata la seguente: “la
chiesa ha riconosciuto fondato [sottinteso: "da
sempre"] il diritto e il dovere della legittima [o
semplicemente "costituita"?] autorità pubblica di infliggere
pene proporzionate alla gravità del delitto, senza escludere, in casi di
estrema gravità, la pena di morte” (2266).
Si noti
il sofisma dell’espressione “pene proporzionate”: forse il popolo
può impedire, nella concezione politica della Chiesa, che lo Stato usi pene
sproporzionate? E come lo potrebbe, visto e considerato che, per la Chiesa, lo
Stato è soggetto non alla “volontà popolare”, ma solo alle “leggi” (1903),
che devono essere conformi a “un ordine prestabilito da Dio” (1901)?
Se
la “volontà popolare” fosse il principio fondamentale
dello “Stato di diritto”, la pena di morte potrebbe forse essere
considerata una “pena proporzionata” a un qualche particolare
delitto? Sarebbe forse giusto dare per scontato che, ad un certo punto, bisogna
assolutamente negare al colpevole qualunque possibilità di pentimento,
ritenendolo unico vero responsabile del suo crimine? E’ forse questo
l’insegnamento del Cristo nell’episodio della “donna adultera” (Gv.
8,1ss.)?
Il
fatto è che, – secondo gli autori del CCC, – la società (e, quindi, la
Chiesa) deve, comunque, difendersi da chi la minaccia con l’uso della forza. Su
questo, il CCC è molto esplicito: “i detentori dell’autorità [qui
considerati "sacri e inviolabili"] hanno il
diritto di usare le armi per respingere gli aggressori della comunità civile…” (2266).
La
chiesa non vuole prospettare, neanche sul piano ipotetico, l’idea che gli
aggressori si comportino così proprio perché si appellano al principio
della “legittima difesa” e che i veri aggressori possano in
realtà essere le stesse autorità costituite. “La pena ha lo scopo di
difendere l’ordine pubblico e la sicurezza delle persone” (2266),
sentenzia il CCC. Non ha, quindi, senso chiedersi se tale difesa sia “sempre”
lecita o se non sia meglio mettere in discussione il valore del cosiddetto
“ordine pubblico”.
Thomas
More, martire della libertà di coscienza, santificato dalla Chiesa romana nel
1935, disse nella sua Utopia: gli Stati fondati sulla proprietà
privata e il denaro “allevano dei ladri per poi punirli con la morte”.
F.
Engels, tre secoli dopo, dirà la stessa cosa in La situazione della
classe operaia in Inghilterra: “Se la società toglie a migliaia di
individui il necessario per l’esistenza…; se mediante la forza della legge li
costringe a rimanere in tali condizioni, finché non sopraggiunga la morte…
questo è assassinio… contro il quale nessuno può difendersi… perché non si vede
l’assassino, perché questo assassino sono tutti e nessuno, perché la morte
della vittima appare come una morte naturale e perché esso non è tanto un
peccato di opera, quanto un peccato di omissione”.
Naturalmente,
gli esegeti più ipocriti sostengono che la Chiesa si limita a “riconoscere”
agli Stati l’uso estremo della pena di morte, senza farsi sua diretta
sostenitrice. Ciò in realtà è falso, sia perché la Chiesa ha abolito, de
jure, in Vaticano tale forma di condanna solo nel 1969 (per comodità
affaristica di riconoscimenti nell’Unione Europea), sia perché la necessità di
tale pena si evince, – come si è visto, – dai suoi stessi argomenti di tipo
religioso, sia perché, infine, il Vaticano assai raramente (o mai?) si è pronunciato
contro gli Stati che comminano sentenze capitali (opposizioni alla pena di
morte è possibile riscontrarle solo in chiese locali o nazionali, come, ad
esempio, nella Commissione per la Vita della Conferenza Episcopale
Cattolica degli USA).
In
realtà, a queste conclusioni assai poco democratiche, si perviene quando il
problema della responsabilità penale viene affrontato in termini puramente
idealistici o giuridici, senza tener conto di alcun riferimento storico o
sociale concreto.
“La
pena, – dice il CCC, – ha valore di
espiazione” (2266), in quanto il colpevole è
solo colpevole. Il riferimento qui và soprattutto al caso
dell’omicidio volontario, per il quale non esistono attenuanti. Solo quando si
parla di quello involontario (come se, sul piano etico, si potesse fare una
distinzione così precisa), gli autori del CCC fanno un’annotazione
complementare usando i caratteri piccoli: “Tollerare, – viene
detto, – da parte della società umana, condizioni di miseria che
portano alla morte senza che ci si sforzi di porvi rimedio, è una scandalosa
ingiustizia e una colpa grave”(2269). La Chiesa qui intende riferirsi a
coloro che usano “pratiche usuraie e mercantili”. Costoro,
indirettamente (solo indirettamente in una società capitalistica?) “commettono
un omicidio”.
Il CCC,
insomma, non si preoccupa di “capire” il crimine di chi, sottoposto a
condizioni di vita disumane, reagisce istintivamente facendosi giustizia da sé.
Non si preoccupa minimamente di giustificare coloro che, sottoposti alle
medesime condizioni, ad un certo punto decidono di organizzarsi politicamente
per rovesciare i poteri costituiti. Si preoccupa soltanto di trovare dei
“colpevoli”, siano essi volontari o involontari, diretti o indiretti, lasciando
da parte tutte le responsabilità che possono avere gli Stati e le istituzioni
di potere, nonché i gruppi sociali dominanti di una determinata società.
Ormai,
come ognuno si sarà certamente accorto, le parole non hanno più alcun
significato. La Chiesa è disposta ad affermare tutto ed il contrario di tutto,
cioè tutto quanto fa parte del suo impianto strettamente conservatore e, per
essere più credibile, alcune cose che fanno parte dell’ideologia laica e
democratica.
Il
problema non sta più nella scelta delle parole, ma solo nell’atteggiamento che
il credente deve tenere nei confronti della Chiesa. E l’atteggiamento giusto, a
quanto pare, visto che nessun alto esponente della Curia vaticana l’ha
contestato, può essere considerato quello delle cattolicissime Filippine, il
cui Parlamento, il 23 febbraio 1993, ha reintrodotto, nonostante l’opposizione
della Conferenza Episcopale Filippina, la pena di morte, dopo
averla abolita nel 1987, proprio facendo leva sulle affermazioni del Catechismo
Universale.
Contenuti
tratti da: http://www.homolaicus.com/teorici/wojtyla/pena_morte.htm
Pigrizia
intellettuale e teoria della responsabilità sociale
In un
paese dove vige la pena di morte che senso può avere la teoria del ragionevole
dubbio? Non è forse una contraddizione in termini?
Se
anche dal punto di vista tecnico/materiale, non vi fossero dubbi circa la
consapevolezza di una persona da condannare a morte, chi ci assicura che non
esisterebbero dubbi dal punto di vista morale?
Come si
può pensare che un individuo sano di mente possa compiere un delitto nella più
assoluta libertà di scelta?
Se una
persona fosse assolutamente libera di scegliere perché dovrebbe scegliere una
cosa che le farebbe perdere la libertà?
Nessuno
vive così isolato dagli altri da poter dire con sicurezza: “Ho scelto
liberamente, senza condizionamenti di sorta”. Chi vivesse isolato dal
mondo, probabilmente, non si porrebbe neanche il problema di compiere un
delitto. Non ne avrebbe motivo. A meno che l’isolamento non fosse una sorta di
punizione inflitta in precedenza: il che potrebbe portare a risentimenti e a
esigenze di vendetta personale.
Viviamo
in una società in cui i condizionamenti sono reciproci: dunque, per quale
motivo quando si tratta di giudicare qualcuno, lo consideriamo come un
individuo isolato e lo carichiamo di responsabilità più grandi di quelle che
potrebbe avere nella vita reale?
Gli
uomini vivono assieme come tanti individui isolati: costituiscono una comunità
per via indotta, involontariamente, non per libera scelta (questo senza
considerare che la comunità dovrebbe far parte in maniera naturale della vita
di una persona, sin dalla sua nascita). Nella vita reale, non si è capaci di
assumere reciprocamente le responsabilità altrui. Sicché quando qualcuno
commette un reato, viene lasciato solo, con tutte le sue responsabilità.
Eppure,
l’isolamento che si vive in società è anch’esso una forma di condizionamento,
un peso da sopportare. Si possono commettere azioni criminose non perché si è
isolati dalla società, ma proprio perché si è isolati nella società.
Il
crimine è sempre frutto di un condizionamento sociale: ecco perché, indirettamente,
si è tutti colpevoli. Il crimine dovrebbe essere considerato come occasione per
ripensare i criteri del vivere civile.
Insomma,
la teoria del ragionevole dubbio dovrebbe spingersi sino al concorso morale,
indiretto, che può avere la società nei confronti dell’imputato che ha commesso
un reato.
Anche
la teoria della presunzione d’innocenza, in tal senso, andrebbe rivista. Non ha
senso sostenere che uno è innocente finché non si è dimostrata la colpevolezza.
Bisognerebbe anzi sostenere il contrario e, cioè, che in un modo o nell’altro
siamo tutti colpevoli e che quando si tratta di giudicare qualcuno, anzitutto,
bisognerebbe chiedersi che cosa si è fatto per impedire che un determinato
reato venisse compiuto.
Bisognerebbe
partire da premesse di colpevolezza sociale, in modo da non far sentire
l’imputato un individuo isolato, un estraniato.
Questo,
ovviamente, non significa che il reato non deve essere punito o che bisogna
essere pietisti ad oltranza. Significa, semplicemente, che, nei confronti del
reato, bisogna assumere un atteggiamento pedagogico.
Il
reato è un indizio di malessere sociale. Dall’analisi dei sintomi, bisogna
saper trovare una terapia per vincere un male che ha radici nella società e
nella sua cultura.
Dobbiamo
abituarci a considerare i condizionamenti sociali non come un limite alla
libertà, ma come il fondamento su cui la libertà và costruita.
Siamo
liberi, appunto, perché condizionati.
Il
nostro compito è quello di rendere positivi questi condizionamenti, affinché
siano utili alla libertà.
Contenuti
tratti da: http://www.homolaicus.com/teorici/wojtyla/pena_morte.htm
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