La disuguaglianza è inevitabile in sistemi
complessi e altamente differenziati, e ci accompagna sin da quando i primi
essere umani hanno costruito delle città. Dobbiamo quindi interrogarci sulle
condizioni della disuguaglianza: per esempio, dovremmo chiederci quand’è che la
disuguaglianza diventa profondamente ingiusta, e quando è accettabile. Anche le
economie successive alla seconda guerra mondiale producevano disuguaglianza, ma
era una forma di disuguaglianza più o meno ragionevole. Oggi la disuguaglianza,
al contrario, è estrema. Il linguaggio sulla “maggiore disuguaglianza”, sulla
“maggiore povertà”, sull’aumento dell’incarcerazione, sulla crescita della
distruzione ambientale e così via, è insufficiente a individuare il periodo
attuale. Ci sono delle rotture in corso. Non si tratta soltanto di un “di più”
della stessa cosa. Siamo di fronte a una serie – imponente e diversificata – di
espulsioni, una serie che segnala una più profonda trasformazione sistemica,
che viene documentata a pezzi, in modo parziale, in studi specialistici
diversi, ma che non viene narrata come una dinamica onnicomprensiva che ci sta
conducendo in una nuova fase del capitalismo globale, e della distruzione
globale.
Quella di espulsioni va distinta dalla più
comune nozione di “esclusione sociale”: quest’ultima avviene all’interno di un
sistema e in questo senso può essere ridimensionata, migliorata, perfino
eliminata. Nei sistemi complessi ci sono invece margini sistemici
multipli, e le espulsioni attraversano domini e sistemi diversi, dalle prigioni
ai campi profughi, dallo sfruttamento finanziario alle distruzioni ambientali.
Per come le concepisco io, le espulsioni avvengono nel margine sistemico.Uso il
termine “espulsioni” per descrivere una varietà di processi che producono esiti
estremi da un lato, e che dall’altro potrebbero essere familiari e ordinari.
Tra gli esempi dei processi di espulsione, potrei citare il crescente numero
degli indigenti; degli sfollati nei paesi poveri ammassati nei campi profughi
formali o informali; dei discriminati e perseguitati nei paesi ricchi
depositati nelle prigioni; dei lavoratori i cui corpi sono distrutti dal lavoro
e resi superflui a un’età troppo giovane; della popolazione attiva considerata
in eccesso che vive nei ghetti e negli slum.
Potrei aggiungere le parti della biosfera
espulse dal loro spazio vitale a causa delle tecniche estrattive o
dell’accaparramento di terre. E insisto sul fatto che il mite linguaggio del
“cambiamento climatico” in questo ambito non riesce ad afferrare il fatto che,
al livello empirico, esistono vaste distese di terra morta e di acqua morta. Di
fronte all’estremo tendiamo a fermarci. È troppo, e troppo sgradevole. Ci
mancano i concetti per comprenderlo. Per questo, diventa facilmente il
mostruoso. O diviene invisibile, indipendentemente da quanto sia materiale. In
“Espulsioni” esamino un ampio raggio di processi che a un certo punto diventano
così estremi che il linguaggio familiare del “più” non serve più a spiegarli.
Il momento dell’espulsione è il momento in cui una condizione familiare
diviene estrema: non si è semplicemente poveri, si è senza casa, affamati, si
vive in una baracca. O, per quel che riguarda la terra e l’acqua: come dicevo
non è semplicemente degradata, insalubre. É morta, finita.
Dovremmo preoccuparci delle “formazioni
predatorie”. Sono formazioni complesse, che assemblano una varietà di elementi:
élite, capacità sistemiche, mercati, innovazioni tecniche (di mercato e
finanziarie) abilitate dai governi. Ci sono per esempio nuovi strumenti legali
e contabili, sviluppati nel corso degli anni, che condizionano ciò che oggi ci
appare come un contratto legittimo. Ci sono le banche centrali che forniscono
quantitative easing: nel caso degli Stati Uniti, 7 bilioni di dollari dei
cittadini sono stati messi a disposizione del sistema finanziario
internazionale a tassi molto bassi, e poi usati per la speculazione, non per
fornire prestiti alle piccole imprese che ne avrebbero disperato bisogno. In
questo senso, abbiamo a che fare con zone complesse che assemblano una varietà
di elementi, una condizione che eccede il semplice fatto di avere una elite di
super-ricchi potenti. Anche se ci liberassimo di tutti i super-ricchi,
continueremmo ad avere esiti simili a quelli attuali.
Anche i governi sono parte delle
formazioni predatorie. Dovremmo archiviare la tesi secondo la quale lo
Stato-nazione nel suo complesso è una vittima dei processi di globalizzazione
economica. Ed è particolarmente sbagliato quando ci si riferisce al ramo
esecutivo dei governi, perché sono i Parlamenti e il ramo legislativo ad aver
subito una perdita massiccia di funzioni e potere. Mentre il ramo
esecutivo – dunque i presidenti o i primi ministri – hanno ottenuto un
particolare, nuovo tipo di potere grazie alla globalizzazione: sono
loro a istituire le politiche, ad articolare i trattati commerciali e di
investimento che sostengono le corporation. E allo stesso tempo le banche
centrali sostengono il sistema finanziario, non i poveri o i piccoli
imprenditori.
Per lei, la decadenza
dell’economia politica del ventesimo secolo inizia negli anni Ottanta del
Novecento, benché abbia genealogie spesso più antiche. Alcuni segnali erano
evidenti già negli anni Settanta, ma è negli anni Ottanta che
l’economia comincia a cambiare rotta, e a restringersi: l’indebolimento
dei sindacati, i minori investimenti nelle infrastrutture a beneficio di tutti,
incluse quelle per i quartieri e le famiglie meno ricche, l’aumento della
concentrazione di potere e ricchezza al vertice, anziché dello
sviluppo della classe media. Nel mio libro ho incluso uno schema che mostra
come negli anni Ottanta i nostri governi fortemente sviluppati abbiano
cominciato a diventare più poveri, mentre nel mondo meno sviluppato, invece di
investire nella produzione manifatturiera gli investimenti sono stati dirottati
all’estrazione mineraria, al petrolio e ad altri settori primari. Ciò è
accaduto per esempio nell’Africa subsahariana, che si era sviluppata negli anni
Sessanta e Settanta con il successo dei processi di indipendenza. Questo
processo ha prodotto ricchezza per le aziende e per le elite governative
corrotte, ma povertà per la popolazione.
Questo passaggio da una logica inclusiva a
una logica di espulsione segna una vera e propria rottura rispetto alla fase
precedente, quella del capitalismo keynesiano del secondo dopoguerra. Negli
anni Ottanta c’è stata una rottura radicale, una frattura rispetto al
capitalismo keynesiano, la cui logica dominante – nonostante tutti i limiti –
era l’inclusione, la riduzione delle tendenze sistemiche alla disuguaglianza,
perché il sistema si reggeva sulla produzione e sul consumo di massa, su una
logica espansiva dunque. La manifattura di massa, il consumo di massa, la
costruzione di case e strade anche per i meno abbienti: tutto ciò è stato
ottenuto espandendo lo spazio dell’economia e incorporando le persone nel
sistema. Oggi alcuni settori ancora beneficiano di una certa espansione, ma
altri settori chiave non ne hanno bisogno, per cui abbiamo una
crescita intensa dei profitti totali delle corporation, ma uno spazio
economico complessivamente più circoscritto. I profitti delle corporation
crescono, ma lo spazio economico si contrae, complessivamente.
Il settore del consumo è stato
parzialmente distrutto dalla finanziarizzazione dell’economia, che può produrre
profitti molto più alti rispetto al settore del consumo. Contestualmente,
avviene una ridefinizione de facto dello spazio economico, una contrazione
dell’economia, dalla quale viene espulso tutto ciò che (incluse le persone) non
è più considerato produttivo secondo i criteri standard. La crescita economica,
misurata secondi i criteri convenzionali, è il veleno della nostra epoca. C’è
bisogno di economie che rispondano a logiche distributive: più coinvolgono le
persone e le realtà territoriali e locali, più le economie ne beneficiano e
producono benefici. Oggi avviene il contrario. Ci si libera di tutti i
lavoratori sindacalizzati, delle classe media, esclusa dai servizi statali,
degli studenti che avrebbero bisogno di università gratuite. La mia tesi è che
quando la Germania o il Regno Unito dicono: “la Grecia è il problema,
noi siamo a posto”, sbagliano. Le tendenze sono le stesse per tutti questi
paesi. La Grecia è soltanto la versione più estrema della stessa tendenza. Nel
libro presento un grafico che dimostra in che misura tutte le principali
economie dell’Unione Europea, inclusa la Germania, presentino un calo
netto, dopo che nel 2008 la crisi è esplosa.
La Germania ha un settore
manifatturiero forte, che gli ha permesso di recuperare presto. La Grecia ha
gli oligarchi che hanno sfruttato il paese, che non pagano le tasse e
fondamentalmente non contribuiscono all’economia greca. Le Olimpiadi ne
sono l’esempio più evidente. Ma la tendenza è la stessa. La maggior parte degli
Stati liberali oggi è in decadenza. Le ragioni sono complesse, e le esamino in
dettaglio nel mio libro precedente, “Territorio, autorità, diritti” (Bruno
Mondadori, 2008). Le privatizzazioni e la deregolamentazione sono stati fattori
cruciali. Un altro fattore è il numero crescente di ricchi e di corporation
potenti che pagano sempre meno tasse. La finanziariazzazione
dell’economia e il graduale restringimento dei settori economici
distributivi come il manifatturiero, è un altro fattore ancora. L’impoverimento
delle classi medie, i prezzi più elevati per le case che hanno compromesso la
possibilità per i figli di vivere fuori casa, la contrazione del sistema di
sostegno sociale organizzato dallo Stato. Sono gli esiti di una logica distorta
che ha catturato lo Stato liberale. Agli estremi, gli esiti sono le espulsioni.
Saskia Sassen, estratti dell’intervista
“Le nuove logiche del capitalismo predatorio” rilasciata a Giuliano Battiston
per “L’Espresso” e ripresa da “Micromega”
il 4 novembre 2015. Docente di sociologia alla Columbia University di
New York, la Sassen è autrice di “Espulsioni. Brutalità e complessità
nell’economia globale”, Il Mulino, 296 pagine, 25 euro
da: Idee Libre
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