Diffidenza è la parola d’ordine: cercare continuamente altre fonti
e altri riscontri senza bere tutte le scemenze ufficiali. Perché la verità non
esiste più.
La guerra è diventata un illecito del diritto
internazionale e non è più la prosecuzione della politica, ma la sua negazione,
il suo fallimento. E tutti i conflitti sono mondiali, se non proprio
nell’intervento militare, comunque nelle conseguenze economiche, sociali e
morali.
Abbiamo due armi formidabili: diffidenza e ironia. La prima serve
a neutralizzare il monopolio dell’informazione. Significa cercare continuamente
altre fonti e altri riscontri senza bere tutte le scemenze ufficiali. La
seconda tende a ridimensionare anche quella che può sembrare la realtà. Perché
la verità non è più la vittima del primo colpo di fucile: non esiste più. Oggi
la guerra limitata non è più possibile neppure in linea teorica: gli
interessi politici ed economici di ogni conflitto, anche il più remoto e
insignificante, coinvolgono sia tutte le maggiori potenze sia le tasche e le
coscienze di tutti. La guerra è diventata un illecito del diritto
internazionale e non è più la prosecuzione della politica, ma la sua negazione,
il suo fallimento. Nonostante questo (o forse proprio per questo) lo scopo di
una guerra non basta più a giustificarla. E chi l’inizia, oltre a
dimostrare insipienza politica, si assume la responsabilità di un conflitto del
quale non conosce i fini e la fine. Con l’introduzione del controllo globale
dei conflitti e della gestione della sicurezza (anche tramite le Nazioni
Unite), tutti gli Stati e tutti i governanti sono responsabili dei conflitti. E
tutti i conflitti sono globali, se non proprio nell’intervento militare,
comunque nelle conseguenze economiche, sociali e morali.
Quindi, a cominciare dalla guerra fredda che i paesi
baltici hanno iniziato contro la Russia, dalla guerra “coperta” degli
americani contro la stessa Russia, dai pretesti russi contro l’Ucraina, alla
Siria, allo Yemen e agli altri conflitti cosiddetti minori o “a bassa
intensità”, tutto indica che non dobbiamo aspettare un altro conflitto totale:
ci siamo già dentro fino al collo. Quello che succede in Asia con il pivot
strategico sul Pacifico è forse il segno più evidente che la prospettiva di una
esplosione simile alla Seconda GuerraMondiale è più probabile in quel teatro.
Non tanto perché si stiano spostando portaerei e missili (cosa che avviene), ma
perché la preparazione di unaguerra mondiale di quel tipo, anche con
l’inevitabile scontro nucleare, è ciò che si sta preparando. Non è detto che
avvenga in un tempo immediato, ma più la preparazione sarà lunga, più le
risorse andranno alle armi e più le menti asiatiche e occidentali si
orienteranno in quel senso. E’ una tragedia annunciata, ma, del resto, abbiamo
chiamato tale guerra condotta per oltre cinquant’anni “guerra fredda”
o “il periodo di pace più lungo della storia moderna”.
Stiamo vivendo un periodo di transizione storica molto importante:
il sistema globale voluto dai vincitori della SecondaGuerra Mondiale sta
scricchiolando, i blocchi sono scomparsi, molti regimi politici voluti dalle
potenze coloniali sono incrisi, l’Africa si sta svegliando un giorno e
regredendo il giorno successivo, le istanze economiche hanno il sopravvento su
quelle politiche, sociali e militari, le periferie delle grandi potenze e i
loro vassalli stanno cercando indifferentemente o maggiore autonomia o una
servitù ancora più rigida. I conflitti attuali sono i segnali più evidenti di
questo processo che porterà ad una nuova formulazione dei rapporti e degli
equilibri internazionali. Tuttavia non è detto che questo passaggio porti al
cosiddetto “nuovo ordine mondiale”. Le spinte al cambiamento e alla
stabilità sono ancora flebili e rischiano di cronicizzare i conflitti e
le situazioni, altrettanto pericolose, di post-conflitto instabile.
Ci sono segnali di forte resistenza al cambiamento in senso
multipolare da parte delle nazioni più ricche ed evolute come da parte di
quelle più povere. Quelle più ricche si stanno di nuovo orientando verso una
politica di potenza affidata soprattutto agli strumenti militari; quelle più
povere si stanno orientando verso la rassegnazione alla schiavitù. Il
cosiddetto “nuovo ordine” potrebbe essere quello vecchio del modello coloniale
e le forze armate si stanno sempre di più orientando verso il sistema degli
“eserciti di polizia” (constabulary forces). In molti paesi dell’Africa si
parla da tempo di “nostalgia” del periodo coloniale o si accusano le potenze
coloniali di averli abbandonati. La potenza e la schiavitù sono complementari.
Un filosofo cinese diceva del suo popolo: «Ci sono stati secoli in cui il
desiderio di essere schiavo è stato appagato e altri no».
Le basi degli Usa in Italia non garantiscono la nostra
sicurezza, ma la loro. Non servono i nostri interessi ma i loro e quindi non
sono legalmente “occupanti”. Il fatto che si dichiarino basi Nato o facciano
riferimento agli accordi di Parigi del 1963 è una foglia di fico che nasconde la
realtà: alcune basi italiane sono aperte anche ai paesi Nato nell’ambito degli
accordi dell’Alleanza, ma le basi americane più grandi sono precedenti agli
accordi Nato e sono state concesse con accordi bilaterali in un periodo in cui
l’Italia non aveva alcuna forza di reclamare autonomia; anzi andava cercando
qualcuno da servire in America e in Europa. In queste basi decidono gli
americani (e non la Nato) a chi consentirne l’uso temporaneo. Si ha così
un doppio paradosso: molti italiani anche di alto lignaggio politico e
militare tentano di giustificare le basi con la funzione di sicurezza che
svolgono a nostro favore. E avallano la condizione di occupazione militare.
Gli americani sono più espliciti, ma non meno paradossali: ogni anno il
Pentagono invia una relazione al Congresso nella quale indica e traduce in
termini monetari il contributo dei paesi ospitanti delle basi “agli
interessi e alla sicurezza degli Stati Uniti”. Dovrebbe essere un accordo fra
pari, ma si avalla la nostra condizione di tributari.
La guerra si è evoluta nel corso dei secoli; adesso
siamo giunti a teorizzare una guerra di quinta generazione
o guerra senza limiti, una guerra cioè che non deve essere
percepita come tale e che coinvolge anche mezzi finanziari. Possiamo dire di
essere nel corso di una guerra di questo tipo? Senza dubbio. Ma anche
questa quinta generazione sta trasformandosi nella sesta:
la guerra per bande. Non essendoci più soltanto fini di sicurezza e
non soltanto attori statuali, siamo nelle mani di “bande” con fini propri e
senza alcuno scrupolo se non quello verso la propria prosperità a danno di
quella altrui. Le bande si muovono senza limiti di confini e di mezzi, senza
rispetto, solo all’insegna del profitto. Tendono ad eludere il diritto
internazionale e la legalità, tendono a piegare gli stessi Stati ai loro
interessi e a controllarne la politica e le armi. Oggi il problema degli
eserciti e degli apparati di polizia non è quello di capire perché lavorano, ma
per chi. Se lo Stato, per definizione, deve (o dovrebbe) pensare al bene
pubblico, la banda pensa soltanto al bene privato, non statale e spesso contro
lo Stato.
Quando nel 2004 chiesero ad un colonnello americano che tipo
di guerra stesse combattendo in Iraq, quello rispose candidamente:
«E’ una guerra per bande e noi siamo la banda più grossa». Anche lui
aveva capito che non stava lavorando per uno stato o un bene pubblico ma per
qualcosa che esulava dal suo stesso “status” di difensore pubblico: era un
mercenario, come tanti altri, al servizio di uno che pagava. E per questo si
riteneva un “professionista” delle armi. La finanza è l’unico sistema
veramente globale ed istantaneo e si avvale di mezzi leciti e illeciti:
esattamente come fa ogni moderna banda di criminali. La struttura di comando
delle bande ha due modelli di riferimento: il modello paternalistico e
verticale e il modello comiziale e orizzontale. Quest’ultimo sta
prevalendo sul primo anche se a certi livelli della gerarchia si ha comunque
uno più forte degli altri. Il modello orizzontale è anche quello che
meglio riesce a mascherare le guerre intestine e quelle esterne. Ci sono
interessi contingenti che spesso portano gli avversari dalla stessa parte.
La Grecia ha subito un’imposizione che piegando la volontà del
governo e della stessa popolazione è senz’altro un atto di guerra. Ma il
vero scandalo della Grecia non è nell’imposizione subita, ma nell’apparente
lassismo in cui è stata lasciata proprio dagli organismi internazionali che ne
avrebbero dovuto controllare lo stato finanziario.
La guerra finanziaria alla Grecia è la guerra per bande
quasi perfetta. Solo qualche sprovveduto può pensare veramente che la Grecia
abbia alterato i propri bilanci senza che né Unione Europea, né Banca
Centrale Europea, né Fondo Monetario, né Federal Reserve, né Banca Mondiale, né
le prosperose e saccenti agenzie di rating se ne accorgessero. E’ molto più
realistico pensare che al momento del passaggio all’euro gli interessi politici
della stessa Europa prevalessero su quelli finanziari e che gli
interessi finanziari fossero quelli di far accumulare il massimo dei debiti a
tutti i paesi membri più fragili.
Abbiamo la memoria molto corta, ma ben prima del 2001 il dibattito
sull’euro escludeva che molti paesi della periferia europea e quelli di futuro
accesso (Europa settentrionale e orientale) potessero rispettare i
parametri imposti. Non è un caso se proprio i paesi della periferia siano
stati prima indotti a indebitarsi e poi a fallire, o ad essere “salvati” dalla
padella per essere gettati nella brace. Irlanda, Gran Bretagna, Portogallo,
Spagna, Italia e Grecia sono stati gli esempi più evidenti di una manovra
che non è stata né condotta né favorita dagli Stati, ma gestita da
istituzioni che si dicono superstatali e comunque sono improntate al sistema
privatistico degli interessi del cosiddetto “mercato”.
In ambito militare ogni operazione è aperta, condotta e
accompagnata dalla guerradell’informazione e da quella psicologica. In
Kosovo ho dovuto raddrizzare una campagna d’informazione, condotta tramite
materiale edito da Kfor, dopo aver constatato che una rivista non veniva
distribuita ai kosovari ma nelle caserme. In pratica si
faceva guerra psicologica sui nostri stessi soldati. Più professionali,
ma meno centrate sugli scopi militari, sono le trasmissioni radio della Voa
(Voce dell’America) che parla in molte lingue e perfino dialetti centro
asiatici. La Russia è entrata nel mondo della
moderna guerra dell’informazione con nuove reti di stampa, Internet,
radio e televisione. I cinesi hanno interi canali dedicati all’informazione in
varie lingue. Il programma “Confucio”, col quale s’insegna la lingua cinese
all’estero, è ormai presente in tutto il mondo. Gli spin doctor del Pentagono
avevano già immaginato nel 2011 come gestire la caduta di Bashar Assad in Siria
e uno studio cinematografico ne stava realizzando il film. Il progetto è stato
accantonato, ma il Pentagono spera che il film possa uscire nel 2016 (a Bashar
Assad piacendo).
Lo scopo di queste iniziative è difficilissimo perché la narrativa
(la versione dei fatti) che si vuole fornire dovrebbe contrastare quella
dell’avversario e della gente del luogo. In realtà nella comunicazione il
messaggio più accettato è quello che conferma i fatti o le percezioni e non
quello che le contrasta. La narrativa dell’avversario, pur non avvalendosi di
mezzi sofisticati e basandosi sulla trasmissione orale, è molto più efficace
anche perché racconta quello che si vede o ciò che qualcuno appartenente alla
stessa comunità dice di aver visto. In Iraq, Afghanistan e altrove non è stato
infrequente il grido di allarme dei vertici delle coalizioni occidentali:
«Stiamo perdendo la guerra della narrativa». Fuori dal contesto
militare, la stessa crisi greca è un esempio attuale
di guerra dell’informazione accomunata alla guerra delle
percezioni e alle operazioni d’influenza. In Grecia, come altrove, l’eccesso di
debito pubblico e internazionale di uno Stato non è di per sé un fattore
fondamentale d’instabilità né d’insolvenza. E’ invece importante la credibilità
che può ampliare a dismisura il credito. Per questo la guerra alla
Grecia si è sviluppata sul piano della guerra psicologica con
un’azione forte di discredito e di delegittimazione di tutto il paese.
La delegittimazione che si è vista in maniera palese nel caso
greco, non è avvenuta per altri paesi in via di fallimento, come il nostro;
anzi, a dispetto dei dati oggettivi (debito, crescita, disoccupazione,
investimenti), ci sono paesi che beneficiano di crediti oltre ogni ragionevole
misura. Ogni volta che in Italia c’è un’asta di titoli pubblici,
i media plaudono al “collocamento” di tutto il pacchetto sottacendo
che in realtà si tratta di un aumento di debito. Anche il fatto che il debito
di tale tipo sia “interno” viene manipolato e sottovalutato spacciandolo per
una cosa senza valore. Come se il debito interno (quello nei confronti
degli italiani che hanno acquistato titoli pubblici) non dovesse mai essere
restituito (e di fatto, così è), quasi che il rastrellamento costante del
risparmio privato da parte dello Stato non penalizzasse la disponibilità di
denaro destinata agli investimenti produttivi. Oltre alle bande finanziarie
internazionali, in Grecia, come in Italia e altrove, ci sono bande
privatistiche interne che monopolizzano la finanza e la
comunicazione. In Grecia, come altrove, queste bande hanno sperato e
tuttora sperano in un ribaltone politico che le renda più potenti. E’ già
successo, anche in maniera violenta.
Pochi anni fa il fisico Emilio del Giudice e il giornalista
Maurizio Torrealta parlarono di armi nucleari estremamente miniaturizzate, di
armi di nuova generazione che sarebbero state già impiegate sui campi di
battaglia in Iraq e in Medio Oriente, e il cui uso sarebbe stato nascosto
dietro la radioattività dei proiettili all’uranio impoverito. Non mi risultano
casi concreti, ma ho sentito le stesse storie in altri casi. Una caratteristica
delle guerre moderne è anche la perdita di consapevolezza sulla verità. Di
certo c’è che la moderna tecnologia, anche fuori dal campo sperimentale,
consente questo ed altro. Se tali armi sono state veramente impiegate, si
tratta di una violazione del diritto internazionale e dei diritti umani delle
vittime. Purtroppo, ogni violazione (anche del buon senso, come nel caso della
tortura) è così frequente che non rappresenta più un ostacolo. C’è da sperare
che lo abbiano fatto gli americani: almeno, tra trent’anni i segreti di Stato
saranno derubricati e ci diranno la verità. Se le avessero usate i russi o
altri paesi, come il nostro, non lo sapremmo mai. Dovremmo aspettare che
diventasse un segreto di Pulcinella.
(Fabio Mini,
dichiarazioni rilasciate a Enzo Pennetta per l’intervista pubblicata su “Critica
Scientifica” del 6 agosto 2015. Generale
di Corpo d’Armata, già capo di stato maggiore della Nato, capo del comando
interforze delle operazioni nei Balcani e comandante della missione in Kosovo,
Fabio Mini è uno dei più grandi conoscitori delle questioni geopolitiche e
militari. Il libro: Fabio Mini, “La guerra spiegata a…”, Einaudi, 171
pagine, 12 euro).
Testo e foto da: Idee
Libre
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